GIORGIO FRANCHI | Il miraggio di una riapertura dei teatri all’orizzonte – orizzonte che si allontana quanto più ci si avvicina per un fenomeno visivo che i fisici chiamano “Effetto Franceschini” – porta a quella smania di ripartenza che noi, mandolinari, ma cresciuti da mamma America, agogniamo dal profondo ma non sappiamo poi bene come gestire. I fili del motore dell’orgoglio del teatrante cominciano a dipanarsi in progetti, progettini e progettoni, in attesa che un teatro con i suoi stessi piani per fondare un secondo Rinascimento faccia il primo passo.

Dall’incontro di queste due spinte creative viene generata e messa al mondo una creatura, fanciullesco simbolo dell’alba del domani che porta una nuova luce nel mondo: il bando. Un patto di solidarietà tra gli uomini di buona volontà, destinato però a deludere prima ancora che abbia compiuto i primi passi. Accanto a una menzione dal profondo del cuore per chi continua a farli uscire anno dopo anno, i bandi purtroppo restano ciò che sono: una soluzione d’emergenza fatta regola in un periodo in cui mancano le alternative. L’equivalente di fare una traversata dell’Atlantico con il salvagente attorno, mentre all’orizzonte la barca affonda (stavolta, l’Effetto Franceschini la fa sembrare vicinissima).

La canzone “Bando” di Anna è stata al top delle classifiche italiane nel maggio 2020. Coincidenze?

Ma non voglio entrare nelle logiche del sistema teatrale italiano. Prendendo atto che la situazione non cambierà ancora per qualche decennio almeno, tutto ciò che possiamo fare è cercare di sanare il divorzio fra artisti e teatri con una nuova grammatica del bando, analizzandone gli elementi di maggior tensione tra chi il bando lo scrive e chi lo compila.

È da constatare anzitutto che il meccanismo del bando è sostenuto da una profonda necessità di gratificazione di chi lo compila. In un anno di teatri chiusi, il cruccio del regista/drammaturgo/performer è ritrovarsi a rimbalzare dal letto alla cucina in un moto perpetuo. “Ho compilato un bando” è un ottimo mantra per convincersi di avere ancora in mano la propria vita: getta un’ipoteca sul futuro, qualche seme nel solco del proprio impegno sudato. Come tutti i vizi, il bando si regge quindi su una dipendenza radicata nel sé emozionale.

Le prime fasi del bando sono semplici. Nome, cognome, data, sembra il tema delle medie. L’unico, piccolo ostacolo delle prime dieci righe è la richiesta del documento di identità: non del rappresentante, ma di tutto il gruppo. Quando il bando viene compilato a un’ora dalla scadenza (ovvero sempre), il compilatore seriale di bandi deve reprimere un embolo: sa benissimo, infatti, che non esiste un attore che abbia pronta una scansione dei propri documenti. Manda il messaggio sul gruppo Whatsapp e intanto carica il suo, salvato nella cartella “bandi” in cui entra con terrore e desolazione sempre maggiori almeno una volta a settimana. Verso sera arriva la carta d’identità dell’attore, nello stato conservativo di un papiro egizio, fotografata col cellulare sul piano della cucina, tenuta aperta con pollice e indice che coprono foto e nome.

Ma l’agonia è appena iniziata. Mancano due ore alla chiusura del bando: la sinossi dello spettacolo è pronta da settimane, così come scheda tecnica, crediti e budget. Il compilatore seriale aggira le domande del bando con la velocità di Francesco Totti nel dribbling, scattando come una gazzella fino all’area di rigore, finché non gli arriva sulle caviglie la falciata di Paolo Montero: “In che modo ritieni innovativo il tuo progetto?” Ci si interroga su come rispondere. Il primo modo è la supercazzola: “La ricerca di un teatro fuori dagli schemi e in grado di dialogare con il contemporaneo è il cardine dell’innovazione del processo creativo della compagnia”. L’altro è puntare sulla sfacciataggine: “Lo giudica il pubblico, non io.” Tutti abbiamo un amico che si vanta in giro di aver vinto così, ma non gli crede nessuno.

Il compilatore seriale di bandi e la domanda sull’innovazione del progetto.

Sembra tutto finito. Siamo all’ultimo foglio Google della domanda di ammissione al bando, mancano cinque minuti, ma ci sarà solo da barrare la casellina dell’informativa della privacy. E invece, ecco l’ultima domanda che ti aspetta, che ogni volta immagino mentre fa tintinnare le bottiglie seduta in macchina come il cattivo de I guerrieri della notte. La lettera motivazionale. “Come mai hai scelto di partecipare a questo bando?

Caro autore di bandi. Da compilatore di bandi ti considero un fratello, una parte inalienabile di me senza cui la mia esistenza non avrebbe uno scopo. Ma su questo, e solo su questo, combatterò sempre contro di te. Chiedermi come mai ho scelto il tuo bando presuppone che avessi una libertà di scelta fra un’infinita gamma di alternative possibili che né io, né chi è venuto prima di me ricorda di aver mai avuto. Per dovere di onestà dovrei scrivere nel form che è il nono bando a cui partecipo con lo stesso progetto e che il tuo teatro fino a una settimana fa non sapevo manco che esistesse. L’unica risposta sincera che potrei darti è “per i soldi” (se è un bando di produzione) o “per la SIAE” (se è un bando di distribuzione) ma, complice la nostra storia nazionale intrisa di buoni valori cattolici, la venialità è uno dei tabù peggiori, specie se introdotta nel recinto incontaminato dell’arte.

Aggiungo che chiedermi perché partecipo al tuo bando dopo che ho compilato trenta domande è come domandare al proprio partner un giudizio sulla notte trascorsa, ovvero decisamente poco elegante. Ma farlo con un foglio Google è direttamente proporgli di valutare la tua performance su Tripadvisor.

Immagine di copertina: Introducing Kafka, Robert Crumb