ELENA SCOLARI | “Il mondo che abbiamo”, questo il claim di G8 Project, la grande iniziativa del Teatro Nazionale di Genova che alcuni giorni fa abbiamo descritto e raccontato per la sua prima parte (direzione Davide Livermore, curatela Andrea Porcheddu). Si è trattato della commissione di testi a drammaturghi di diversa nazionalità, che avessero come ispirazione il summit internazionale tenutosi a Genova nel 2001 per ragionare sui venti anni successivi, da varie prospettive.
Tutti ricordiamo che il vertice fu funestato da quelle brutte cariche della polizia contro i manifestanti, cui si erano mescolati numerosi black-bloc con intenti violenti e distruttivi; Carlo Giuliani morì negli scontri e si terminò con la drammatica incursione delle forze dell’ordine alla Scuola Diaz, dove un’ottantina di persone furono percosse e malmenate, vittime di una pagina buia nella storia italiana.

Nella lunga giornata (e nottata) di maratona della scena del 9 ottobre scorso abbiamo visto nove spettacoli, dei primi quattro abbiamo già dato conto, qui ci occupiamo di un excursus sul secondo blocco allestito al Teatro Gustavo Modena.
Nella compagine di autori teatrali che hanno partecipato al progetto diverse sono state le direzioni tematiche e stilistiche scelte per raccogliere la chiamata, chi più direttamente connesso ai fatti genovesi, chi invece più “tangenziale” agli avvenimenti e con un richiamo a una particolare eredità lasciata o indotta nei tempi successivi.

Dati sensibili: New Constructive Ethics | ph. Federico Pitto

Di questo secondo gruppo fa parte Dati sensibili: New Constructive Ethics di Ivan Vyrypaev (Russia), interpretazione, traduzione e regia di Teodoro Bonci del Bene. L’attore – seduto su uno sgabello – agisce per una Società che effettua interviste/sondaggio allo scopo di indagare, in sostanza, dove sta andando la moralità, come e se sono cambiati i confini dell’eticità del nostro agire. E lo fa ponendo domande scomodissime ai soggetti “cavia”. Bonci del Bene interpreta intervistatore e intervistati, alternando battuta a battuta come in una infinita partita di tennis in cui la pallina non cade mai, con un ritmo forsennato e costante (che non sempre consente di assorbire tutto il detto) e con fare un po’ poliziesco; ricorda un ispettore che cerca continuamente di trarre conclusioni dalle affermazioni di chi è interrogato.
I quesiti sono posti con un tono volutamente fastidioso e i contenuti toccano i comportamenti privati, la sfera sessuale, sottolineano le contraddizioni tra un’opinione “neutra”, cioè data in astratto davanti a una situazione tipo, e la condotta personale in un contesto assimilabile.
C’è quindi la contrapposizione tra l’assunto razionale di “quale sarebbe” un comportamento corretto e rispettoso della società tutta e l’etica privata, spesso zoppicante perché il proprio è sempre un caso eccezionale. Ce lo aveva già rivelato Kant un paio di secoli fa nella Critica della ragion pratica, a proposito della menzogna e dell’opportunismo occasionale.
Nessuno degli intervistati (e quindi nessuno di noi) si salva, la cupezza ammanta il futuro prima che arrivi.

In situ | ph. Federico Pitto

Un poco di sognante speranza si trova invece in In situ, scritto e diretto da Natalie Fillion (Francia): una favola moderna che annulla i confini del tempo e in cui un’attrice in analisi (stesa su una spoglia branda) racconta alla sua terapeuta di sognare spesso Cristoforo Colombo, il quale in effetti si aggira nel teatro smarrito e privo di riferimenti in costume d’epoca. Viola Graziosi sa rendere il carattere complesso di una donna che ha dubbi ma è anche certa delle sue passioni, c’è nella sua recitazione l’apprensione per la difficile comunicazione con il figlio ventenne (Fabrizio Costella, un po’ nerd un po’ saputello pessimista) e la rivendicazione delle proprie capacità. Graziano Piazza è un Colombo ironico, disorientato ma saggio, fuori luogo ma sempre ispirato.
C’è un po’ di sano assurdo nella sua presenza in scena (aldilà della genovesità), ci sono le inquietudini sedate dal canto dell’analista Odja Llorca, lei ascolta e poi incanta per amalgamare esistenze che sfidano le epoche, concentrandosi su quel po’ di utopia che ci è necessaria per guardare sempre avanti.

Il vigneto | ph. Federico Pitto

Guarda avanti ma anche molto indietro il Giappone di Toshiro Suzue ne Il vigneto (regia di Thaiz Bozano): forse lo spettacolo più lontano e indipendente dal tema G8. L’aggancio  è una critica esplicita ai mali del capitalismo e della globalizzazione, in realtà cominciati ben prima del 2001 ma i cui esiti più evidenti sono ormai innegabili.
I giapponesi sanno essere poetici e spesso dividono il corpus delle loro opere (dal cinema a alla letteratura) in episodi stagionali, partendo dall’estate perché si possa chiudere con la primavera, fiorente e luminosa nella sua promessa di sbocciare.
Così procede Il vigneto: quattro giovani donne fanno le viticultrici e hanno gestito un piccolo appezzamento con passione e dedizione per anni. Due di loro sono incinte e non potranno lavorare per un po’, da questa ma soprattutto da magagne amministrative verrà l’inevitabile decisione di mollare l’impresa: la cura del loro lavoro non è più premiante, lo schiacciasassi economico globale pigia gli acini insieme alle singole esistenze.
L’analisi politica del contesto è all’acqua di rose (o di ciliegie?), un po’ romantica e piuttosto semplificata ma Suzue mette la sua affettuosa attenzione sulle vite individuali delle quattro colleghe (Francesca Santamaria Amato, Melania Genna, Irene Villa, Lisa Lendaro, equilibrate per spontaneità): ognuna di loro ha un vissuto che evidenzia delusioni, frustrazioni, obblighi familiari che rispecchiano il fallimento di una primavera d’autonomia promessa ma non mantenuta.
Indossano salopette e sono indaffarate a ordinare, spostare, svuotare cartoni di materiali  accumulati durante il lavoro, azioni funzionali più che altro a non lasciarle con le mani in mano perché nessuno dei gesti che compiono ha un senso scenico forte, la scrittura dell’autore è molto più verbale che fisica. Bozano mette però le interpreti quasi sempre intorno a un tavolo, sottolineando la coesione del quartetto, l’unione delle quattro ragazze per un ideale comune.

Basta! – ph. Federico Pitto

Tornano ad aderire al tema del raduno degli 8 grandi paesi del mondo gli spettacoli Basta! di Wendy MacLeod (USA) diretto e tradotto da Kiara Pipino e Genova 21 di Fausto Paravidino. Il primo spettacolo è parte di un’opera composita che includerà un secondo lavoro sul recente attacco al Campidoglio da parte dei più accaniti sostenitori di Trump; questa informazione è significativa per spiegare la cifra stilistica di Macleod che inscena a mo’ di sit-com – con tanto di risate artificiali – una commedia acida con personaggi grevi e un po’ ‘bagaglini’ che hanno la sgradevolezza delle pesanti caricature che Grosz faceva dei gerarchi nazisti.
Un prefetto corretto e obiettivo deve raccogliere la testimonianza, a caldo, sui fatti della Diaz cui il tenente Roberto – inetto, volgare, vitale ma piatto – ha partecipato, anche con un certo orgoglio. Tutta la faccenda è presentata in maniera paradossale: i ruoli sono eccessivi, le situazioni sempre al limite di una bassezza tale da risultare incredibile.
Siamo però ben lontani dalla sottigliezza acuminata di Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo,  una denuncia che metteva in ridicolo le teorie senza rendere ridicoli i personaggi. La regia di Pipino è coerente con ciò che l’autrice voleva, ma nonostante l’impegno spumeggiante di tutti gli attori il risultato soffre di uno schematismo narrativo marcato.

Genova 21 di Fausto Paravidino è invece tutt’altro che schematico, procede anzi in maniera colloquiale, sembra ancora un lavoro in costruzione, una conversazione aperta con la platea. Genova 01 rese famoso il drammaturgo proprio vent’anni fa e ora l’autore torna a interrogarsi su quell’avvenimento, più maturo ma non meno perplesso.

Genova 21 | ph. Federico Pitto

Genova 21 racconta l’ammissione di una sconfitta, perché in vent’anni siamo riusciti a promuovere alcuni dei responsabili, in alcuni casi anche a eleggerli, comunque a non condannare molte delle persone che sappiamo bene cosa hanno fatto: dai poliziotti che sono andati in ferramenta a procurarsi le spranghe messe poi surrettiziamente nella scuola Diaz per poter accusare i manifestanti di nasconderle, alla violenza ingiustificata delle forze dell’ordine contro i no-global fino a testimonianze farlocche per salvarsi la faccia.
In scena Iris Fusetti, Matteo Manzitti, Barbara Moselli, Fausto Paravidino, Enrico Pittaluga danno corpo alle testimonianze di persone che hanno partecipato a quelle giornate infuocate e funeree, dialogano anche con gli spettatori che in qualche caso intervengono per ribadire l’importanza di tenere bene a mente cosa capitò.
Non si celebra ma si deve adempiere al compito di tener viva la memoria, cercando ancora, cocciutamente, strade alternative al modello che allora molti contrastavano ma che ha in effetti vinto.
I suoni di Matteo Manzitti (sul palco insieme agli attori) compongono con le proiezioni dei disegni a cura di Opificio Ciclope Bologna un’atmosfera da tavola rotonda, una sessione di studio collettiva ancora un po’ slabbrata, con l’inserimento di monologhi decisi e sinceri senza essere roboanti. Come l’intervento, a fine di tutto, di uno dei feriti di Bolzaneto, che ha dato tutta la misura di una sofferenza lunga nel tempo.

Oggi si fa una gara imbecille ogni giorno per chi cancella più brutture e nefandezze dalla Storia (impedendo così di capirne le ragioni) nonché presunte scorrettezze sociali o politiche anche dall’arte: invece ragionare sul passato ci fa rimanere vigili.

DATI SENSIBILI: NEW CONSTRUCTIVE ETHICS
di Ivan Vyrypaev (Russia)
traduzione e regia Teodoro Bonci del Bene
con Teodoro Bonci del Bene
costumi Medina Mekhtieva
assistente alla regia Francesca Gabucci

IN SITU
di Natalie Fillion (Francia)
regia Natalie Fillion
traduzione Monica Capuani
con Graziano Piazza, Viola Graziosi, Odja Llorca, Fabrizio Costella
costumi, scene, video Charlotte Villenet

IL VIGNETO
di Toshiro Suzue (Giappone)
traduzione Elly Nagaoka
regia Thaiz Bozano
con Francesca Santamaria Amato, Melania Genna, Irene Villa, Lisa Lendaro
video Michele Giuseppone

BASTA!
di Wendy MacLeod (USA)
traduzione e regia Kiara Pipino
con Cristiano Dessì, Lisa Galantini, Marisa Grimaldo, Davide Mancini, Alessandro Pizzuto, Roberto Serpi
video Davide Riccardi

GENOVA 21
di Fausto Paravidino (Italia)
regia Fausto Paravidino
con Iris Fusetti, Matteo Manzitti, Barbara Moselli, Fausto Paravidino, Enrico Pittaluga
musiche Matteo Manzitti
video Opificio Ciclope Bologna

Tutte le foto di scena sono di Federico Pitto e tutte le produzioni sono del Teatro Nazionale di Genova