ILENA AMBROSIO | Si chiama 8 e mezzo la stagione 2021/22 del Nuovo Teatro Sanità: non è la nona, perché manca un pezzo di storia al percorso, quello perso nell’anno e mezzo di chiusura. Una stagione animata dalla forza vitale del teatro, quella che la pandemia non è riuscita a mortificare, e che forse un po’ per necessità ma di certo e soprattutto per vocazione, punta sui giovani talenti e dà ampio spazio alle nuove generazioni di artisti napoletani.

Tra questi Elvira Buonocore (classe ‘89) con La Vacca, spettacolo vincitore del Premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti 2019 e del Premio Per fare il teatro che ho sognato – Presente Futuro 2021, prodotto da B.E.A.T. teatro e comprodotto dallo stesso Nuovo Teatro Sanità.
In un luogo-non luogo in cui le esistenze sono schiacciate, asfissiate dalla mediocrità, private di qualsiasi slancio volitivo, la vita di due fratelli, Donata e Mimmo, si intreccia alla vicenda del mandriano Elia che denuncia in tv il furto delle sue adorate mucche. Proprio quella telecamera, che sarà perenne occhio scrutatore, innesca nella giovane Donata un desiderio, impellente, irrefrenabile, “maleducato”: vedere il proprio corpo sbocciare, fiorire, i propri seni gonfiarsi per essere guardata, ammirata, per «fare l’intervista».
Un desiderio di esistere che cozza con l’apatica rassegnazione di Mimmo al nulla in cui vivono e che, portato fuori, nel mondo, incontrando Elia, le sarà fatale.

Un testo di grande potenza espressiva che sa toccare con equilibrio le corde della melanconia, dell’amarezza, ma anche dell’ilarità e dell’ironia; che si costruisce sull’originalità di un dialetto ibridato dal contemporaneo e che gli interpreti – eccellente la prova di Anna De Stefano – hanno incarnato con credibilità e una partecipazione mai affettata o pateticamente eccessiva.
Dietro il testo e l’apparente semplicità del plot, un nucleo di senso nel quale la giovane drammaturga ha riversato parte del proprio vissuto insieme a una matura e intelligente riflessione sulla sostanza – quasi filosoficamente intesa – del desiderio, di cosa se ne possa fare in luoghi in cui non è permesso appagarlo, di cosa diventi nel mondo.
Di questo, ma prima ancora del suo personale ecosistema artistico e creativo, abbiamo parlato con Elvira Buonocore.


Elvira, partiamo dal principio. Come è nata in te la necessità della scrittura? C’è stata una scintilla o è stata una scoperta progressiva?

Non c’è stata un’epifania, un evento scatenante. O forse è avvenuto così indietro nel tempo che non riesco a ricordarlo. La scrittura per me ha molto a che fare con i gesti e le abitudini dell’infanzia, con quel periodo remoto in cui avevo un’andatura assai diversa da quella di oggi e mostravo una disposizione totale al piacere. All’epoca non avevo conosciuto il senso di colpa per l’improduttività, non notavo il rallentamento che la mia vita prendeva rispetto alle altre e il tempo che concedevo alle mie voglie lo stabilivo io per mio conto, senza ansie. Insomma, di sicuro è dentro l’ovatta della primissima infanzia che ho mostrato un attaccamento alla parola scritta. E si è trattato di un legame subito profondo, proprio perché nasceva da una forza che prima di ogni cosa mi spingeva: il godimento. Per anni io ho goduto del silenzio, dell’atmosfera, della implicita richiesta di ascolto, della possibilità di evadere, persino della posizione china, calda e raccolta a cui mi spingeva la lettura.
Sono stata una lettrice molto appassionata, forse nella maniera un po’ disfunzionale che spesso hanno i bambini. E poi avevo come una specie di ottimismo per cui mi ero convinta che leggere mi avrebbe dato tutti i mezzi necessari a vivere bene e funzionare nel mondo. Poi dalle parole degli altri alle mie il passo è stato così breve da non essermene accorta. Diciamo pure che la mia scrittura era implicita nella lettura. Mentre leggevo ero già compromessa perché stavo cominciando a scrivere.

Mi racconteresti la gestazione e il parto della tua scrittura? Come e da dove nasce? Quali sono le cose che ti ispirano?

Non accade sempre nella stessa maniera: il percorso che conduce a una scrittura finita è esposto a implicazioni esterne, spesso pratiche, che non sempre dipendono dalla mia volontà. Specialmente nel caso di una drammaturgia che si sviluppa grazie agli incontri, allo spirito di iniziativa, al desiderio ostinato di più persone unite da un intento comune. La scrittura per la scena è comunitaria, è reattiva, è molto più fragile.
Di sicuro mi porto appresso alcune storie che ho bisogno di raccontare, momenti precisi, situazioni emotive a cui inevitabilmente ritorno. È un bagaglio di impressioni ed esperienze che si sono avviluppate negli anni e che sarebbe difficile sbrogliare. È da lì che parto, la spinta è sempre la stessa. Il panorama in cui cresciamo che ci forma un po’ a sua immagine è quello che mi ispira. Il paesaggio familiare, l’albero genealogico e le sue convenzioni, le sue cattiverie, l’ereditarietà della sofferenza che spesso ci portiamo dentro e a cui proviamo a sottrarci, come a una malattia.
A volte basta uno scambio, una frase detta da qualcuno, un avvenimento quasi sempre piccolo, infinitesimo, che incrocia il mio umore ed è subito testo.
E poi c’è la provincia che scalpita, questo furore io lo sento. E mi piace. Per me è fonte di narrazioni. Mi interessa raccontare quel mutismo ottuso, quella ingenuità antica e mi stimola sapere di poter attingere continuamente a questo mondo, anche dal punto di vista linguistico. La provincia è viva, è ridicola, è molto comica ed è anche molto frustrata. Vivere qui vuol dire vivere il conflitto, una specie di principio di avvio della scena.

Che tipo di rapporto hai con quello che scrivi e cosa significa per te consegnarlo alla scena?

Negli ultimi tempi è tutto più semplice, forse è la pratica che ha reso il passaggio dal foglio alla scena molto più naturale. In realtà, anni fa ho cercato il teatro per il bene della scrittura, non viceversa. All’epoca provavo a scrivere racconti ma non mi riuscivano i dialoghi, le parti più profonde e frenetiche del testo sembravano morire appena dopo le virgolette, la prosa era ampollosa e finta e i miei personaggi rischiavano di parlarsi con una serie di frasi indicibili. Invece io cercavo qualcosa che fosse dicibile e mi risposi che il teatro mi avrebbe costretta a una prova con il reale, mostrandomi finalmente cosa fosse dicibile e cosa no. In parte è accaduto davvero. È per questo che non ho mai sentito un grosso strappo al momento di consegnare il testo alla scena. È stato sempre un accordo con il teatro, la possibilità di rendere dicibili le cose che scrivevo.

E infatti è nettamente percepibile, in La Vacca una necessità, un’impellenza del racconto. Di cosa si tratta?

È vero, c’è questa necessità. Per me come autrice quel racconto era nell’aria da tempo.
Durante l’adolescenza avevo, stranamente per l’età, una percezione del mio corpo positiva; mi ci riconoscevo, sapevo di poter contare su una specie di bellezza di cui ero certa. Poi c’è stato un momento in cui mi sono guardata allo specchio e non mi sono più riconosciuta; lì si è rotto qualcosa.
Esprimendomi attraverso la scrittura ho sentito la necessità di calare in una drammaturgia la questione del rapporto con il corpo e, insieme, quella del desiderio. Donata si fa portatrice di questo: ha il desiderio fortissimo di farsi guardare, di esistere e, come fosse una bambina, esprime un desiderio inconsapevole che viene fuori per quello che è, nella sua forza.
E allora la domanda è: cosa accade quando esprimo un desiderio, una necessità, un bisogno, in un contesto in cui il desiderio non è contemplato?


L’ambientazione dello spettacolo è molto eloquente seppur assolutamente scarna: uno scenario post-apocalittico visto dall’alto, dove c’è un caldo insopportabile e non accade nulla. «Questo posto non è niente di preciso… C’è stata una dimenticanza, qualcuno si è dimenticato di farci succedere qualcosa» dice Mimmo. Quindi, quando parli di contesto, a cosa pensi?

Da un po’ di tempo porto avanti, in maniera più o meno definita, un’indagine sulla periferia e sulla provincia perché io stessa vivo nella provincia di Salerno, a Pagani. Sono contesti strani che a volte sembrano dormitori: luoghi in cui torni per dormire, mangiare e fare le cose basilari, ma poi la vita vera è altrove. Quando cresci in posti del genere il desiderio viene soffocato, non ricevi l’educazione emotiva, sentimentale per esprimerlo, per concepirlo. Così, quando questo desiderio viene fuori, è maleducato e deforme.
Quindi avevo già dentro quell’ambientazione: per anni ho vissuto al settimo piano di un condominio in una zona sovrappopolata di Pagani e vedevo un panorama di degrado, non solo economico ma anche umano. Guardando quel panorama avevo sempre la sensazione di non avere possibilità, ero circondata da un nulla che io ho chiamato “gialliato” perché ho notato che il centro di luoghi come Pagani è sempre ocra: un giallo dominante nelle sere estive dove l’afa è insopportabile, in uno spazio sovraffollato… Era una sensazione di soffocamento non solo effettiva ma emotiva, rispetto a cosa avrei potuto fare. Quando da adolescenti si vive in questo modo si rischia di sentirsi schiacciati.
Così ho deciso di raccontare anche una gioventù che non è quella nettamente compromessa di cui si parla, quella persa nella delinquenza del sud Italia. In queste zone in realtà l’umanità che io ho conosciuto è un’umanità bella, piena di talenti e spunti, che però non ha la possibilità di esprimersi. Si resta in una sorta di torpore: generazioni in cui sono tutti dormienti, assopiti rispetto a questa condizione. Una generazione che secondo me va raccontata, perché è schiacciata ma esiste.

Nel delineare questo universo periferico anche il linguaggio anzi, la lingua, ha un ruolo fondamentale. In particolare quella di Donata e Mimmo, impastata di “aspirazioni colte”, dialetto e drammatiche sgrammaticature.

Quella sul linguaggio è un’altra indagine che mi porto dietro da un po’. In generale considero il dialetto una efficacissima risorsa espressiva ma tengo sempre conto che è attraversata da tutta una serie di influenze più contemporanee veicolate dalla televisione, da internet, che non possiamo ignorare. Io mi baso sul linguaggio che io stessa utilizzo, e attingo a quello delle persone che mi circondano, anche di diverse classi sociali… Secondo me tutto questo è una risorsa.


A proposito di televisione, c’è un elemento molto rilevante: la presenza incombente di una telecamera verso la quale Donata si espone chiedendo di farsi intervistare. Ora, se non sei pratico del mondo ed esprimi il tuo desiderio senza filtri, una telecamera può essere un’arma. C’era questo tipo di allarme nelle tue intenzioni?

Sì, la telecamera è un’arma proprio perché rappresenta il mezzo principale attraverso cui Donata può esporsi, può finalmente farsi guardare. Ma il significato della telecamera è legato anche al luogo: se il centro è sempre sotto i riflettori – anche in modo negativo – ciò non accade per questi paesi di periferia dove tutto è considerato piccolo, non interessante per essere ripreso. Quindi, noi che ci viviamo non siamo nulla, non siamo grandi, non siamo degni di attenzione.
Tutti noi aspettiamo che ci accada qualcosa ma in certi luoghi e per certe persone l’attesa va oltre, è desiderio di esistere, anche nel male. E in questo senso la telecamera ha quel valore, è l’interesse del fuori. Un interesse che però è morboso perché, dall’intervista a un mandriano che ha perso il suo bestiame, arriva a riprendere anche uno stupro.

Ecco, il finale. Come sei arrivata a un epilogo così scuro e cosa vorresti che lasciasse al pubblico? Cosa ha lasciato a te?

Quelli de La vacca sono tutti personaggi ai quali viene sottratto qualcosa. In particolare Elia che si è visto privato delle sue adorate mucche; ma anche a Mimmo e a Donata viene tolta una possibilità, quella esprimersi, di essere ciò che sono e desiderano. Vivono in un luogo che non permette la fioritura, arido, in cui non cresce nulla, in cui il desiderio viene soffocato.
Alla fine la domanda del testo che resta aperta, è: che fine fa il nostro desiderio? Che destinazione ha? Se davvero riusciamo a esprimerlo dove va finire? Perché in genere, nel mondo in cui viviamo, viene preso, afferrato da un’economia che lo rende oggetto acquistabile, possibilità di guadagno. Però questo desiderio esiste e quando si esprime davvero, sottraendosi a certe dinamiche, viene soffocato.
Donata, che ha espresso il suo desiderio, subisce una violenza, viene soffocata.

Non so cosa questo finale possa lasciare agli altri. Ma il mio scopo non era privare della speranza, io credo che ci sia della gentilezza; l’ultima parola del testo è una parola di gentilezza. Quindi credo nella possibilità per il desiderio di esprimersi, però è difficile.
Nei nostri corpi c’è la possibilità organica di provare piacere, sempre, è una cosa che non va acquistata, è dentro di noi. Se questo è vero allora perché il desiderio deve essere soggetto a condizioni, deve essere incanalato in schemi? E perché, quando è deforme e forte e non ha criterio, viene soppresso?
La mia è una domanda non una condanna. Ma non avrei mai potuto trovare un finale diverso per i personaggi che avevo di fronte. Dal primo momento non ho mai avuto dubbi rispetto all’epilogo perché sono convinta che il desiderio vada incontro a questo destino. Non è propriamente una denuncia, è più una dichiarazione precisa di quello che accade: il desiderio non ha la possibilità di esprimersi così com’è perché non ha una forma canonica, è una cosa che schizza via da tutti i pori, non lo puoi frenare e se lo freni non puoi che fargli violenza.
Io lo vivo sulla mia pelle con le mie passioni, con la scrittura: imporre nella mia vita questo bisogno non è semplice, non è scontato o automatico; mentre il desiderio dovrebbe esplodere e basta, fluire.

E allora cosa significa per te essere una drammaturga, una giovane drammaturga, in luoghi che spesso ostacolano il fluire del desiderio?

La scrittura è un vantaggio, è una possibilità di slancio. L’opportunità per compiere un salto, ma non un salto ideale. Parlo di uno slancio reale, un’effettiva apertura verso il mondo. Io ho potuto muovermi nel mio paese e ricordare agli altri che esistevo solo grazie alla scrittura. Il fatto che io scrivessi mi dava in qualche modo un peso, anzi, quasi un lasciapassare, una giustificazione al fatto che io fossi come ero. Non ero certo lontana anni luce dagli altri, io semplicemente avevo, ho sempre avuto altri tempi.
E la scrittura, specialmente quella per il teatro, mi ha permesso di esprimermi con i miei tempi. Si tratta di tempi lunghi, tempi dilatati. Tempi, se vogliamo, creativi.

Ma il mondo che viviamo ha bisogno di immediatezza e paesi come il mio richiedono un tempo ancora più ridotto. Io ho la sensazione che, affinché qualcuno ti riconosca davvero, insomma per farsi amare, per vivere, bisogna aderire a una forma. E la forma di una certa periferia, di una certa provincia, è tronca, è muta; questi sono luoghi in cui tutto è sottinteso se non addirittura rimosso, l’immaginario è schiacciato, le vite sono rimpicciolite e quindi i modi di fare e anche le parole con cui ci si esprime risultano troncate di netto e perciò astiose. Rabbiose. Polemiche. Riottose. Ferite. Limitate. Addirittura indifferenti.
Ma quando scrivi, ti è concesso un tempo più lungo. E va bene, va bene sempre, anche quando usi quello stesso tempo nella vita, come si dice, di tutti i giorni. Ti viene riconosciuta quella attitudine dentro e fuori la pagina. Dentro e fuori il teatro.  Questo è un grandissimo vantaggio.

 

LA VACCA

di Elvira Buonocore
con Vincenzo Antonucci, Anna De Stefano, Gennaro Maresca
regia Gennaro Maresca
aiuto regia Roberta De Pasquale
costumi Rachele Nuzzo
produzione B.E.A.T. teatro
coproduzione Nuovo Teatro Sanità

Nuovo Teatro Sanità,
17 ottobre 2021