RENZO FRANCABANDERA e MATTEO BRIGHENTI | RF: Le regie in cui Roberto Latini ha avuto a disposizione una compagine di attori numerosa hanno indubbiamente qualcosa in comune, ed è forse prima di tutto un sapore. Qualcosa che ha a che fare, oltre che con il racconto del teatro in sé, anche con una sorta di atmosfera patafisica, di spazio dell’assurdo, dell’illogico.
È di un decennio fa l’Ubu Roi (2012), produzione Fortebraccio, ma sostenuto in qualche forma anche dal Teatro Metastasio, tornato poi nel 2016.

 

Poi si è passati per Il teatro comico di Goldoni nel 2018, poi ancora una produzione del Piccolo Teatro di Milano, Il Mangiafoco dell’anno successivo.
Accompagna questi percorsi registici un gruppo di lavoro piuttosto stabile che ha attraversato gran parte delle creazioni e che comprende Elena Bucci, Ciro Masella, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Marco Sgrosso, Marco Vergani, cui si è aggiunta quest’anno Claudia Marsicano per L’armata Brancaleone, che ha debuttato al Metastasio di Prato nella seconda metà di ottobre.

L’armata Brancaleone. Foto di Guido Mencari

MB: Scende dall’alto dei cieli la “vincibile” Armada di donne e uomini di buona volontà. Sono seduti l’uno accanto all’altra su una grande trave, come nella foto iconica Lunch atop a Skyscraper (New York Construction Workers Lunching on a Crossbeam), il pranzo sulle impalcature del Rockfeller Center immortalato nel pieno della Grande Depressione. Quello di adesso, però, non è un semplice passaggio epocale, ma un più avveniristico varco interstellare, con tanto di fumo che inonda la platea del Metastasio e l’aggiunta di suoni cibernetici che spezzano il frinire delle cicale.
La compagine, infatti, è vestita alla Star Trek: Roberto Latini intende trasportarci, o meglio, teletrasportarci nella sua dimensione alternativa del capolavoro di Mario Monicelli del 1966 scritto con Age & Scarpelli. Quel Medioevo violento e straccione, cruento e disperato, popolato da schiere di miserabili, di cialtroni e di appestati, perennemente diviso tra fede e peccato, spirito e carne, eros e morte, non appartiene al passato: è anche nel nostro futuro.
Si cerca fin da subito, quindi, l’effetto sorpresa da operazione spuria, qualcosa che ci si aspetta o, almeno, si spera risponda a un disegno coerente da svelare cammin facendo.

RF: Il gruppo di operai del teatro che cala dall’alto dei grattacieli su questa trave è un gruppo che, nella sua composizione soggettiva, discende della scuola di Leo De Berardinis, artefice della prima fase della formazione d’attore di Latini, sotto la guida di Perla Peragallo. Parliamo dei primi anni Novanta e di un canale di comunicazione diretto con la poetica di Leo che Latini ha conosciuto insieme ad alcuni elementi di questo gruppo di lavoro come Elena Bucci, Marco Sgrosso e con cui ha poi lavorato in modo costante negli anni, facendone un po’ gli interpreti feticcio della sua poetica. Questa affiatata e tutt’altro che improvvisata squadra di operai del palcoscenico è, come detto, quella alla quale Latini si affida ormai da un decennio, forse perchè capace in modo armonico di restituire l’atmosfera sospesa e non indulgente del suo immaginario.
Guardando al razionale delle sue regie, si legge spesso in controluce l’idea di rappresentazioni metateatrali, non di rado riflessioni sul teatro stesso, sul teatro vita. In queste operazioni, finanche in alcuni suoi monologhi in cui lui è in palcoscenico ma ancora dentro un’ulteriore cornice, lo spettacolo è una rappresentazione della rappresentazione, un doppio fondo, in cui il percorso è più verso un’ardita e costruita distruzione che verso una rappresentazione nel senso borghese della parola.
La costruzione adotta una meccanica tipicamente a scene, in cui il recitato e la dinamica di relazione non sono quasi mai narrazione. Anzi, rifiuta quel piano, restando in un voluto sospeso che ovviamente tradisce e in qualche modo uccide il modello originario, l’ispirazione cinematografica da cui trae spunto. In realtà è vero che l’ambientazione è spiazzante, ma alcuni elmi usati nel film e richiamati anche in scena hanno un che di Guerre stellari, di Star Trek.
Tu invece, da amante del film, ti sarai sentito tradito. Sii quello arrabbiato, dài…

Foto di Guido Mencari

MB: Tu fai il poliziotto “buono” e io quello “cattivo”? Va bene, anche stavolta, come spesso accade, mi assumo la responsabilità del ruolo del guastafeste.
Resto sul fatto, dando per assodata l’importanza della storia e della carriera artistica di tutti e di ciascuno (anche se, per inciso, aver lavorato con un grande maestro non fa necessariamente dell’allievo un maestro a sua volta).
Dunque comincio con il dire che piuttosto che ucciderlo, per me Latini storpia l’originale. L’accolita di figure sul palco ricalca pedissequamente la pellicola, alterandola però in un dispositivo scenico che procede a scatti, come se la riproduzione fosse difettosa. Immagina che tu, invece di nuotare, ti sbracciassi: più annaspi più bevi più acqua. Se va bene, resti fermo. È pressappoco la condizione attorale che mi restituisce questa Armata Brancaleone.
In scena, allora, vedo che non si recita, né si interpreta: si dice il testo, si agitano intenzioni, si impastano dialetti, in un grammelot di azioni e reazioni algide, di avanzamenti e ripiegamenti macchinosi, che paiono non riuscire a toccare alcun reale senso, emotivo o intellettuale che sia. Almeno non i miei.
Le attrici e gli attori mostrano di usare una lingua che non appartiene loro: è un vocabolario che non li aiuta a mettersi in comunicazione, in relazione gli uni con gli altri. Aggiungici, poi, che si rivolgono quasi sempre fronte al pubblico, senza guardarsi negli occhi: converrai con me che quasi non si parlano, né forse si capiscono tra loro.
Le frasi hanno praticamente la stessa valenza della successione degli ingressi e delle uscite: rispondono all’esigenza di scandire la successione delle scene e portare avanti la storia, che chi ha visto il film, peraltro, conosce a memoria.

Foto Guido Mencari

RF: Furente sei! Ti bannano da tutti i teatri del Regno se continui così. Ma difendo il tuo diritto di dire esplicitamente.
Voglio comunque trarre dalle tue legittime considerazioni in quanto fruitore, uno stimolo a riflettere su quella che secondo me è una questione che riguarda la cifra registica: una differenza in Latini quando lavora per creare spettacoli in cui c’è un solo attore in scena (penso al suo meraviglioso Cantico dei Cantici, o anche all’epico Sei personaggi interpretato da PierGiuseppe Di Tanno), e le regie plurali, in cui governa un ampio numero di interpreti.
Pare di poter considerare che nel rapporto tra la dimensione del monologo e lo spettatore, anche solo immaginato in fase di creazione, il regista abbia una sorta di atteggiamento più empatico e centrifugo dal palcoscenico verso la sala. Le regie di compagnia, invece, spingono Latini a una sorta di immersione centripeta, alla ricerca di un equilibrio interno alla creazione stessa, una interrogazione sul ruolo del teatro e di chi ci lavora che scorre in molti lavori. Questo universo precario, non a caso rappresentato come giustamente dicevi, in modo simile a quello dei lavoratori edili di inizio secolo a New York, qui come nelle precedenti regie, è quasi un mondo a parte, la cui lingua, il cui estremo impegno a cercare un’atmosfera, un modo, rimane inesprimibile nella sua profondità.
Contesto fortemente il tuo sostenere che questo lavoro non interpreti e non reciti. Latini volutamente sceglie un codice di interpretazione e di recita scivoloso, disassato, simile a quello del Goldoni di alcuni anni fa, dove la metafora era forse quella della Zattera della Medusa di Géricault, più che della nave dei folli goldoniana.
Penso che l’operazione sia complessa ma non ritengo che una relazione re-interpretativa di un modello non possa arrivare addirittura a dissolvere il modello stesso, come nell’arte cubista, o dada.
Latini regista di gruppo è un pensatore interessato più a ricavare un’estetica della decostruzione – e da quella distillare un sentimento unico – che a restare fedele a qualcosa, se non al teatro stesso, al cimento di rileggere, del rifare. Re-actuar. Non a caso l’unico nesso simbolico che lega il film e lo spettacolo sono le parrucche dei protagonisti, un attributo più clownesco.
Invece, per esempio, con riguardo ai segni, una delle cose che ho proprio amato di questa creazione è il rapporto metonimico-simbolico dell’oggetto scenico che rimanda al film: un piccolo oggetto che rimanda a tutto un resto che non viene detto. Un pezzo di armatura, un avambraccio, a dire il resto. Una chioma per fare il cavallo, una parrucca a fare il personaggio. È il teatro questo.
Poi magari, se la riflessione è sull’accessibilità di questo rimando, posso comprendere la perplessità.

Foto Guido Mencari

MB: Come sempre, è vero tutto e il contrario di tutto. A maggior ragione ora che siamo su posizioni così diametralmente opposte, l’ho detto scherzosamente all’inizio. La verità, se mai esiste davvero, sta nel mezzo, o meglio nell’unione delle due porzioni, delle due facce di verità, nella comprensione di entrambe. Tu hai visto L’armata Brancaleone, ma anche io l’ho vista. Ci sarà almeno un’altra persona che l’avrà vista come te, ce ne sarà almeno un’altra che l’avrà vista come me.
Continuo, quindi, a interpretare il mio ruolo di “Pierino”, per coerenza, perché credo a quello che dico. Voglio farti riflettere su questo: L’armata Brancaleone cosa racconta? Questo spettacolo, fermandoci a questo e non spiegandolo attraverso altri, magari più riusciti, della lunga e corposa teatrografia di Roberto Latini. Io rispondo: racconta la trama del film. E basta.
Però, a mio avviso, pur raccontandola non riesce a portare a casa nemmeno ciò che la pellicola fa magnificamente: intrattenimento alto. Invero si diffonde, qua e là, qualche timida risata tra il pubblico, nei momenti in cui quell’inflessione è più centrata, quell’altra vocina è più calibrata. Sono, appunto, momenti, che andrebbero bene per uno spettacolo a numeri, ma che sono ben poca cosa per un lavoro che intende “elogiare la leggerezza e lo scalmanato disordine” del lavoro monicelliano, immaginando “parole oltre le parole”, “rimanendo sospeso tra suono e senso”, in modo da non rischiare di fare “una riproduzione teatrale del film”. Cosa che, invece, è esattamente avvenuta.

RF: Ma perchè dovrebbe elogiare la leggerezza o riferirsici in modo organico? Anche La Mona Lisa di Basquiat si riferisce a quella di Leonardo, ma sta dentro un contesto di segni e significati diversi; nell’opera dello street artist è rimasto solo l’epiteto di quella rinascimentale. Eppure a vederla, quella creazione, slabbrata, finissima, è animata di una sua coerenza totale con il contesto. È bella? Assomiglia? Sono cose che dal mio punto di vista nell’arte non hanno rilevanza. Perchè anche dove si faccia riferimento a un canone, se non si è in un’operazione di ricopiatura, la reinterpretazione deve poter essere libera, sganciata. Esteticamente quest’opera è coerente nel suo tradire il modello? Sì. E questo è innegabile. Il codice dello spettacolo è lineare e non ci sono parti che non appartengono al tutto, tranne forse il finale con Latini equilibrista prestigiatore. Ma il resto è un corpus organico.
Concettualmente risponde quindi a una chiave di lettura.
Non mi interessa che sia “bella”.
Perchè il concetto di bello è nocivo per l’arte. Come quello di intrattenimento. In fondo Latini non ha mai voluto, almeno finora, “far ridere” nei suoi spettacoli, se non qualche volta, ma amaramente. E magari anche questo, volendo, può indurre qualche ulteriore spunto critico.

Foto Guido Mencari

MB: Che si voglia elogiare la leggerezza è la produzione stessa che lo scrive. Immagino si siano consultati con Latini, non credi?
Sulla inutilità o, peggio, sulla dannosità della categoria “bello/brutto” sono d’accordo con te, e infatti non la uso qui, né altrove. È una questione di comunicazione, secondo me, di capacità di attraversare un classico per restituire ciò che rivela e ciò che nasconde, per farlo parlare al tempo e al giorno di oggi. Basquiat mi testimonia qualcosa di sé e del suo tempo, me lo squaderna davanti agli occhi dopo averlo cercato e trovato con fatica e furore dentro il sé e dentro il tempo di Leonardo. Non è una sovrapposizione, come nel caso di Latini con Monicelli: è una scomposizione seguita da una ricomposizione. Altrimenti meglio, sempre meglio l’originale.
Su un punto, comunque, puoi convenire con me, così ci lasciamo con un gesto di riconciliazione. Dell‘Armata Brancaleone una cosa sicuramente funziona: l’epiteto.

 

L’ARMATA BRANCALEONE
adattamento teatrale di Roberto Latini
da un’opera di Mario Monicelli, Agenore Incrocci, Furio Scarpelli

regia Roberto Latini
musica e suoni Gianluca Misiti
scene Luca Baldini
costumi Chiara Lanzillotta
luci e direzione tecnica Max Mugnai
assistente alla regia Giorgia Cacciabue
con Elena Bucci, Roberto Latini, Claudia Marsicano, Ciro Masella, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Marco Sgrosso, Marco Vergani
produzione Teatro Metastasio di Prato, Emilia Romagna Teatro Fondazione
con il sostegno di Publiacqua
foto di scena Guido Mencari

Teatro Metastasio di Prato
22 ottobre 2021