ILENA AMBROSIO | Una galleria di tipi odiosi, viscidi all’inverosimile, maniacalmente eccitati, banalmente egoisti, volgari. Esseri detestabili. Sono gli uomini “intervistati” nella raccolta del 1999 di David Foster Wallace Brevi interviste con uomini schifosi che il drammaturgo e regista Daniel Veronese – avvalendosi della traduzione di Aldo Miguel Grompone e Gaia Silvestrini – ha adattato alla scena e all’attorialità di Lino Musella e Paolo Mazzarelli, debuttando al Teatro San Ferdinando di Napoli.

L’opera è un concentrato dei tratti della scrittura di Wallace: humor nero, sarcasmo, un’ironia bizzarra e trasgressiva, un senso del grottesco rasente il drammatico serpeggiano in queste pseudo interviste nelle quali una donna, una generica D., interroga una serie di uomini sul loro rapporto con le donne. Se ne leggono, però, solo le risposte, non le domande cosicché, astratta da un continuum narrativo, emerge una oscenità concentrata, che parrebbe surreale se non fosse, evidentemente, frutto di una realtà concreta. Schifosamente concreta.

Sembra che proprio su questo ossimorico incastro tra astrazione e concretezza abbia puntato Veronese con una messa in scena essenziale, quasi asettica. Un rettangolo bianco al quale i due interpreti, jeans e t-shirt, accedono a piedi nudi, togliendo le scarpe come per prepararsi a vestire i panni dell’umanità che andranno a raccontare. Nel rettangolo: un tavolo, tre sedie, un tavolino quadrato con una bottiglia d’acqua, un termos, dei bicchieri – pochi oggetti che ricordano scene della pellicola del 2009 Brief Interviews with Hideous Men scritto e diretto dall’attore John Krasinski. Dietro, uno schermo dove appariranno i titoli delle otto interviste scelte da Veronese per costruire il suo arco drammaturgico: 1.Paternal, un uomo che mortifica la moglie in procinto di lasciarlo, che la denigra definendola una «mente piccolina… ridicola»; 2.L’esca, deprecabile confessione del focomelico Johnny Moncherino che usa la propria menomazione come arma di conquista: «Vedo più fica io…»; 3.Galline, la disgustosamente maschilista dichiarazione di un uomo che individua le proprie partner sessuali paragonandole a galline; 4.La partenza, furbesca arringa di un uomo che attribuisce alla paura che la propria partner ha di perderlo la scelta (ma guarda un po’!) di lasciarla; 5.L’amante perfetto, volgarissima argomentazione di un odioso sedicente amatore sui vantaggi dell’essere un amante “diretto” e poco sensibile; 6.Radicale, raccapricciante teoria sui vantaggi del subire una violenza fisica; 7.Tu devi chiudere il negozio, esilarante dichiarazione d’amore corredata di postilla sul futuro abbandono per insofferenza di troppo amore; 8.Donna e uomo, botta e risposta sulla questione femminile di quelli che si riveleranno madre e figlio.

Tra l’una e l’altra il suono di un campanello da tavolo: come quello tra le mosse di una partita a scacchi o tra i round di un incontro di pugilato. E, in effetti, ciò a cui si assiste sembrano veri e propri duelli, mutevoli giochi di ruolo significati sulla scena dal continuo cambiamento della collocazione del tavolo, delle due sedie e della posizione dei due personaggi che si ritrovano a interagire, guardarsi, ascoltarsi da prospettive reciproche sempre differenti: la moglie di Paternal resta seduta mentre il marito incombe su di lei; troneggia come dietro una cattedra l’amante “perfetto”; gira inquieto per la scena il “pover’uomo” distrutto dalla sfiducia della compagna…

È la rappresentazione del «vuoto spirituale nella interazione eterosessuale nell’America postmoderna» come la definì lo stesso Wallace, di relazioni sporcate da un maschile becero, cafone, villano e un femminile che Veronese sceglie di estrarre dal testo concretizzandolo sulla scena e il cui ruolo i due interpreti assumono alternativamente. Ma nessun travestimento, macchietta o camminata effeminata. Il femminile di queste scene è un gesto accennato, una mano che sposta i capelli dietro l’orecchio, un piede appoggiato sulle punte, un corpo che si irrigidisce per non avere paura; uno sguardo che vaga oltre il proprio interlocutore per imbarazzo. Una donna messa, comunque, sempre in qualche modo a rischio, nel migliore dei casi in pesante disagio, da questi predatori ingannevoli e osceni.

La tavolozza tonale della scrittura di Wallace varia, in questi racconti, dall’ironia più selvaggia, al sarcasmo, dalla ilarità al tragico. Così gli uomini schifosi di cui Musella e Mazzarelli vestono i panni destano ora rabbia per la loro aggressività e violenza, ora ribrezzo, ora insofferenza per quella volgare parlata milanese, ma anche un sorriso quasi pietoso quando si barcamenano tra intricate spiegazioni pseudo-psicologiche per motivare quella che è, in fin dei conti, una patologica «paura delle donne, dell’intimità e dell’amore» (ancora Wallace). Quale che sia il grado della temperatura emotiva il duo, oramai consolidato nella relazione scenica, riesce a restituire un ritratto nitido dei tipi descritti da Wallace, attraverso l’icasticità di un’inflessione della voce, di una postura, di una camminata.

Si tratta di un lavoro tutto giocato sulla minuzia, su una cura del dettaglio rappresentativo che, in uno spazio che rasenta l’astrazione – un tavolo, due sedie e due attori – permette di materializzare i piccoli mondi terrificanti restituiti dalle parole delle interviste, di dare forma fulminea – ma forse per questo ancor più efficace – a storie delle quali si riescono a cogliere anche i particolari, il contesto, le dinamiche non dette, gli antefatti.

Di certo la qualità della scrittura di Wallace, capace di condensare tutto in brani di poche pagine ma anche la capacità degli interpreti di oggettivare ogni sfumatura sulla scena in un progetto registico che è evidentemente anche un lavoro sull’attore. E allora i match giocati da uomo e donna sembrano anche sfide tra gli attori e la scrittura, tra gli attori e l’interpretazione di quella parola. Dopo ciascuna scena sempre alcuni istante di vuoto durante i quali i due, come pugili nei loro angoli, riprendo fiato, si concedono il tempo necessario per passare da un personaggio all’altro, per uscire da un uomo schifoso e rientrare in quello successivo o, se il turno lo richiede, nella prossima donna che ne è vittima. E di farlo tenendo sempre a mente che il round durerà circa dieci minuti e in quel tempo bisognerà dare tutto, calarsi – letteralmente – nel mezzo della parte, senza possibilità di “riscaldamento”. Una prova attoriale, in primis, ma forse ancor più intensamente emotiva, che costringe a indossare panni riprovevoli, che il grottesco non riesce ad assolvere dalla colpa di essere maledettamente reali.

«La Verità con la V maiuscola è sul valore reale di una vera istruzione, che non ha quasi nulla a che spartire con la conoscenza e molto a che fare con la semplice consapevolezza, consapevolezza di cosa è reale ed essenziale, ben nascosto, ma in piena vista davanti a noi, in ogni momento, per cui non dobbiamo smettere di ricordarci più e più volte: Questa è acqua, questa è acqua».
Si concludeva così il discorso di David Foster Wallace per la cerimonia delle lauree al Kenyon College nel 21 maggio 2005. L’acqua è la realtà in cui viviamo, nella quale siamo talmente immersi da non riconoscerla, da non coglierne i tratti, le sfumature essenziali così come le giganti storpiature.
Questo lavoro è una coraggiosa immersione nell’acqua, nel suo strato più melmoso ma che è necessario, urgente, riconoscere.

BREVI INTERVISTE CON UOMINI SCHIFOSI
di David Foster Wallace

traduzione Aldo Miguel Grompone e Gaia Silvestrini
regia e drammaturgia Daniel Veronese
con Lino Musella, Paolo Mazzarelli
foto di scena Marco Ghidelli
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Marche Teatro, Carnezzeria, FOG
Triennale Milano Performing Arts, TPE Teatro Piemonte Europa
con il sostegno di Teatro di Roma – Teatro Nazionale e di Timbre 4 Madrid
durata 80′
Teatro San Ferdinando – Napoli
2 febbraio 2022