LAURA NOVELLI | Il corpo chiuso e inchiodato dentro un abito dalla gonna enorme: un po’ tendone da circo, un po’ mongolfiera, un po’ vestito da sposa divenuto gabbia. Giulietta sta lì dentro come in una seconda pelle. E da lì si muove – tenta di muoversi – con i gesti e le torsioni del collo che quella prigionia le permette. Continui tagli di luce le attraversano le membra. Musica e marionette accompagnano il suo soliloquio. Il bello è che, nella concretezza grottesca della sua solitudine da clown triste, ella sembra, paradossalmente, un angelo in volo. Come se la grande campana di stoffa in cui l’hanno infilata non possa toglierle quella vitale aspirazione a fuggire, a correre via, che costituisce la sua essenza.

Era il 2004 quando Valter Malosti portava per la prima volta sulle nostre scene il racconto Giulietta di Federico Fellini (ossatura narrativa del celebre fillm Giulietta degli spiriti del 1965, pubblicata in Italia solo nel 1994 da Il Melangolo), affidandone l’adattamento allo sguardo mai banale del compianto Vitaliano Trevisan e l’interpretazione ad una superba Michela Cescon.
Nel 2020, a cent’anni dalla nascita del regista riminese, Malosti ha deciso di riprendere quel fortunato spettacolo (insignito di numerosi riconoscimenti) e di riallestirlo per un’attrice anch’ella intensa e di forte temperamento come Roberta Caronia (Premio della critica teatrale ANCT 2020), con la quale aveva già affrontato Il berretto a sonagli di Luigi Pirandello e Ifigenia in Cardiff del drammaturgo gallese Gary Owen. A sedici anni dal debutto, ecco dunque una versione teatralmente riscritta, pur nel rispetto pressoché totale del testo e dell’impianto originali, su un corpo, una voce, un immaginario, una sensibilità diversi. Tanto diversi da rendere questo lavoro – in cartellone alla Sala Umberto di Roma qualche settimana fa – altra cosa rispetto al precedente. D’altronde, uno spettacolo non potrà mai essere uguale a sé stesso neanche a distanza di una sera, figuriamoci di anni. Tanto più in questo caso visto che, oltre a un infittirsi sia dei tagli di luce curati da Francesco Dell’Elba sia degli intarsi musicali di Giovanni D’Aquila, è proprio la presenza di una donna/attrice nuova a dettare la distanza – distanza fruttuosa, creativa – con l’edizione del 2004.

La favola che viene raccontata, e che Giulietta racconta a sé stessa in un lungo flusso di coscienza degno di Molly Bloom o, ancor meglio, della Winnie beckettiana, è quella di una ferita interiore devastante: una moglie innamorata e illusa scopre l’infedeltà del marito e il suo universo fragile di certezze deborda in un’allucinazione ai limiti dello spiritismo. Immobile, raggelata ma lievemente danzante, la donna attraversa le regioni inconscie dei ricordi, poi la sua mente vola in un immaginario paranormale dove gli spiriti evocati (tra cui quello di Casanova) diventano i suoi ganci con la vita. La sofferenza è acre eppure continuamente slittata. Rimossa. Il sogno si tramuta in rifugio dell’anima, mentre affiora sempre più chiaramente, in una scatola sonora di forte suggestione, l’immagine concreta dell’altra, il corpo forte della rivale. Giulietta invece è fragile. Avverte la sua stessa fragilità. Non le resterebbe che volare via, come una farfalla. Ma non può. Come non può la sposa/sorella di Carnezzeria di Emma Dante con il suo velo bianco che non si stacca dal pavimento. Inchiodata a quello smisurato abito ecrù (lo firma Patrizia Tirino), circondata dalle marionette immobili di Gianni Busso, Giulietta resta lì, a deglutire fantasmi, disillusioni. E Caronia, sospesa in una scrittura prettamente felliniana dove risuonano forti echi della psicanalisi junghiana ma anche reminiscenze pirandelliane (come non pensare a Il fu Mattia Pascal o a I Giganti della montagna?), regala alla sua Pierrette lunare una grazia dolce e insieme vigorosa.

L’attrice siciliana, bellissima e luminosa anche se in penombra, si muove, infatti, con estrema fluidità emotiva dentro la tavolozza psicologica del personaggio e, lontana dalle declinazioni grottesche ed espressioniste proprie della Masina e della Cescon, ne traduce la natura onirica ma sofferente con uno stile quasi classico, toccando punte di notevole intensità. Occhi, voce, braccia e mani sono sempre in movimento, alla ricerca di un senso, di una ragione per credere che sia tutto un sogno. A tratti il busto si agita come a voler uscire fuori da quell’involucro di paure. Ma uscirne non si può. Perché quel tendone circense è casa sua. È sé stessa.

GIULIETTA
dal racconto Giulietta (ed. Diogenes Verlag 1989 / il Melangolo, 1994)

di Federico Fellini
adattamento teatrale di Vitaliano Trevisan
uno spettacolo di Valter Malosti
con Roberta Caronia
scene Paolo Baroni
luci Francesco Dell’Elba
costume Patrizia Tirino
marionette Gianni Busso
musiche originali Giovanni D’Aquila
progetto sonoro Valter Malosti
ricostruzione e rielaborazione del suono Fabio Cinicola
assistente alla regia Alba Manuguerra
foto di scena Tommaso Le Pera
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa

Teatro Sala Umberto, Roma
1-6 marzo 2022