EUGENIO MIRONE | Tra i tanti meriti di Cesare Pavese vi è quello di aver introdotto in Italia i grandi scrittori statunitensi, insieme a Elio Vittorini, ideatore della famosa antologia Americana, pubblicata da Bompiani nel 1942. Entrambi sono stati grandi mediatori culturali e riscopritori della letteratura d’oltreoceano nel nostro paese. Anderson, Whitman, Faulkner, Steinbeck, Hemingway, Melville sono solo alcuni degli autori tradotti dai due scrittori. Proprio con uno spettacolo tratto da un racconto di Herman Melville, Bartleby lo scrivano, pubblicato a puntate nel 1853 e tradotto un secolo più tardi da un altro grande intellettuale italiano, Gianni Celati, si conclude Controventi, la rassegna che ha celebrato i 20 anni di attività del Teatro della Cooperativa, coronati nel 2006 dal premio Hystrio-Provincia di Milano.
Dopo il brusco fermo forzato dovuto alla pandemia, Bartleby (coproduzione Teatro Invito con T. Cooperativa) torna ad animare il Teatro della Cooperativa sotto la mano registica di Renato Sarti, nella traduzione di Luca Radaelli, che interpreta l’avvocato narratore della vicenda, in scena insieme a Gabriele Vollaro (Bartleby).

Foto di Lorenza Daverio

L’impostazione della scena è frontale: al centro del palco si trova una scrivania in polionda opaca che per il linearismo della struttura ricorda i quadri più conosciuti di Mondrian. Sopra la scrivania è appoggiato tutto ciò che non può mancare nell’ufficio di un avvocato: penna e calamaio, uno scrittoio e pile di fogli. Un appendiabiti e pannelli appesi sullo sfondo completano la scenografia.
La regia lineare di Sarti valorizza la scenografia spoglia ed essenziale curata dallo stesso regista. I movimenti dei due attori, infatti, disegnano linee immaginarie all’interno di questo spazio geometrico creando un gioco prossemico di direttrici, curve e segmenti molto efficace. Il moto di Radaelli appare più libero perché esprime la propria partecipazione emotiva alla vicenda narrata nonché le reazioni dei vari personaggi che partecipano al racconto; mentre quello di Vollaro è più statico, breve e diretto ed esprime tutta la quiete inquietante di Bartleby.

Bartleby è un giovane e macilento scrivano assunto da un rispettabile avvocato di Wall Street, un gentleman con basettoni, cappello e bastone da passeggio che è anche il narratore dello splendido racconto di Melville. Quest’ultimo vive uno stato emotivo complesso causato dall’assunzione dello scrivano, novità che ha sconvolto l’ufficio già di per sé molto vivace e popolato da impiegati assai folkloristici. Un alone di mistero, infatti, circonda questa figura, un lavoratore stacanovista che ha deciso di fare dell’ufficio la sua dimora all’insaputa dell’avvocato. La vicenda raggiunge il culmine di inspiegabilità quando Bartleby, d’improvviso, inizia a rifiutare qualsiasi tipo di incarico che gli venga proposto con un laconico “preferirei di no”, estraniandosi totalmente dall’ambiente di lavoro.
Inizialmente l’avvocato si mostra paziente e amichevole, anche dopo esser venuto a conoscenza del soggiorno abusivo dello scrivano, ma la mansuetudine mista a decisione di Bartleby manda in crisi il datore di lavoro tanto da costringerlo alla mossa paradossale di trasferire lo studio, dopo aver licenziato il dipendente: “Se non te ne vai tu dall’ufficio sarà l’ufficio ad andarsene!”.
Il pensiero dello scrivano, però, è ossessivo; l’avvocato si offre di ospitare Bartleby in casa sua ma ancora una volta si scontra con il rifiuto dello scrivano a ricevere aiuto. Egli non ha il coraggio di prendere una decisione definitiva e lascia agli altri il compito di far internare il povero Bartleby, che senz’altra dimora oltre al suo vecchio luogo di lavoro viene fatto arrestare per vagabondaggio dai nuovi proprietari del suo ex ufficio. A nulla servono le visite in carcere dell’avvocato per cercare di aiutare lo scrivano. La silenziosa protesta è giunta all’estremo; in prigione, infatti, Bartleby si è lasciato morire di stenti.

Foto di Domenico Semeraro

Come l’Ismaele di Moby Dick anche l’avvocato si trova a congiungere nella sua persona il ruolo di personaggio e di narratore. Il rapporto con la Bibbia in Melville non è latente: come nella Bibbia, infatti, Melville non ha paura di narrare e mettere i suoi personaggi vicino ai lettori. In Moby Dick è lo stesso Ismaele a portare il suo lettore vicinissimo alla follia di Achab, egli si fa in tal senso emulo del narratore biblico, che non arretra davanti a nulla quando si tratta di rappresentare le opere o anche il punto di vista dell’empio.
Un discorso simile vale anche per Bartleby: in questo caso siamo portati subito a immedesimarci nel narratore della storia che dovrebbe essere l’antagonista del solitario protagonista. Bartleby, infatti, è troppo “strano” per permettere di avvicinarsi a lui, sia chiaro però: non viene negata la possibilità di farlo, al lettore viene data la libertà di scegliere. Anche in questo risiede la grandezza della penna di Melville.

Se, dunque, il gioco funziona anche sulla scena significa che il lavoro è stato condotto efficacemente. Radaelli e Vollaro, infatti, regalano una bella prova di coppia. Il primo incarna in maniera multiforme con cambi di ritmo e variazioni di registri l’urgenza dell’avvocato di raccontare la vicenda che ne ha sconvolto la vita, forse anche per liberarsi di un peso dalla coscienza. Inoltre, anima con perizia nella modulazione della voce e nelle marcature gestuali l’apparato di figure minori che arricchiscono il racconto. Vollaro impersona con efficacia la figura sfuggente e impenetrabile dello scrivano; la sua è un recitazione di sguardi, espressioni e piccoli gesti esaltata nel dettaglio dalla mimica facciale.
Un risultato ottenuto anche grazie al sapiente utilizzo delle luci di Graziano Venturuzzo che mette in risalto il volto dei due attori. Anche in questo caso la cifra stilistica si gioca sulle geometrie degli spazi con tagli di luce che fendono lo spazio come carta. Le musiche di Carlo Boccadoro sottolineano la tensione nei momenti più drammatici accompagnando con funzionalità la regia di Sarti.

Si è detto del rapporto di Melville con il cristianesimo, lo scrittore statunitense infatti aveva profondi sentimenti calvinisti. Forse, però, in Bartleby risalta più un altro aspetto: la solitudine dell’uomo dinanzi al mondo, all’umanità intera. Ci sono uomini eletti e uomini dannati, ma nessuno saprà mai il suo stato. Da ciò nasce il senso di irrequietezza che logora l’animo dell’avvocato, un lavoratore indefesso che nel suo successo economico dovrebbe cogliere il segni della sua predestinazione.
Eppure, la parabola dei suoi sentimenti è contorta, passa dalla rabbia al disagio attraverso la repulsione fino ad approdare a quel senso di colpa che gli fa dubitare di aver veramente fatto tutto il possibile per aiutare Bartleby. Ed è un po’ la parabola di tutti noi e risulta estremamente attuale perché Bartleby non è nessuno e può essere chiunque, Bartleby è l’umanità di cui bisogna prendersi cura contro i limiti della morale comune e dell’indifferenza.

BARTLEBY

di Herman Melville – traduzione Luca Radaelli
con Luca Radaelli e Gabriele Vollaro
regia e scenografia Renato Sarti
luci e tecnica Graziano Venturuzzo
musiche Carlo Boccadoro
illustrazione e grafica Roberto Abbiati
coproduzione Teatro Invito | Teatro della Cooperativa
spettacolo sostenuto nell’ambito di NEXT ed. 2018/2019, progetto di Regione Lombardia in collaborazione con Fondazione Cariplo

Teatro della Cooperativa, Milano | 27 aprile 2022