RENZO FRANCABANDERA | È un Marco Baliani amaramente avvincente quello che racconta il futuro possibile del genere umano in Vista da qui, spettacolo che ha debuttato al Teatro  Sperimentale di Ancona nei giorni scorsi.
La scena è fissa: l’interno di un algido e invero abbastanza misero ambiente extra terrestre, messo assieme alla bene e meglio da quella che più che una colonia extra mondo sofisticata, sembra un rifugio per profughi spaziali allo sbando. E tali, a conti fatti, sono i quattro protagonisti della vicenda, interpretati con giovanile generosità da Giulia Goro, Alessandro Marmorini, Luigi Pusceddu e Marco Rizzo.
Per arrivare a scegliere questa squadra Marco Baliani aveva lanciato una call con Marche Teatro per la quale erano arrivate 633 candidature (cosa che la dice lunga anche sulla distopia del pianeta teatro e sulla scarsità di risorse e opportunità).
Poi un laboratorio intermedio a Villa Nappi con 20 giovani fra i quali sono stati selezionati quelli che formano la squadra vista sul palcoscenico.

La vicenda, dicevamo, racconta di questa piccola colonia di fuggiaschi dalla Terra che, insieme ad altre piccole unità (con cui però non riesce a mettersi in contatto), è stata mandata con scarsità di risorse sul pianeta Marte, quando l’adorato pianeta blu è diventato inadatto alla vita umana. Con loro, invisibili ma idealmente localizzate in platea, le culle dei bimbi dormienti del genere umano, ibernati che si risveglieranno per tornare in vita (se l’esperimento dell’ammartaggio andasse a buon fine) in una data prestabilita.
La squadra, non senza difficoltà, lavora per dotare i nascituri di cibo ed energia a sufficienza per sopravvivere fin dal giorno della nascita.

Foto Alessandro Cecchi

Se tutto funzionasse, ovviamente, la storia sarebbe noiosa. E infatti fin dai primi secondi di spettacolo si capisce che questa vita marziana non sarà certo una passeggiata di salute per il genere umano, che ritorna ad un modo di fare in qualche modo preistorico: tempo di vita e tempo di lavoro coincidono, l’energia è scarsa e va centellinata, il cibo ancor di più. Le relazioni interpersonali diventano istintive e poco mediate, i ricordi sono una droga. L’ecologista del gruppo guarda a questa occasione straordinaria per ristabilire il regno delle piante, umiliate dal genere umano che non ne ha colto la vorticosa potenza vitale.

L’autore e regista con questa nuova creazione consolida una continuità di rapporto artistico e produttivo con Marche Teatro che negli ultimi anni ha prodotto Trincea in occasione del centenario della Prima Guerra mondiale, Paragoghè spettacolo-evento andato in scena all’interno del Tribunale di Ancona in occasione dei venticinque anni dalla strage di Capaci e divenuto poi un docufilm di Angelo Loi sostenuto dalla Rai; e ancora l’anno passato Una notte sbagliata con la regia di Maria Maglietta (ancora in tournée anche in questa stagione) e L’attore nella casa di cristallo, proposto nella piazza antistante il Teatro delle Muse alla fine del lockdown, diventato poi anche un libro- testimonianza edito da Titivillus.

Pur condizionati nelle prove da intermittenze dovute all’infierire del Covid, che ha rallentato buona parte del processo creativo, si è scelto di mantenere il debutto come momento di primo impatto della creazione con il pubblico, pur dovendo sottrarre tempo al lavoro su movimenti di scena e alle relazioni intersoggettive; tempo che ovviamente andrà recuperato per finalizzare la giusta efficacia di questo aspetto, centrale in particolare nella seconda parte, in cui le azioni aumentano.

Questo primo esito rivela comunque un impianto drammaturgico assai solido, ambientato in uno spazio art-brut sui generis, creato con intelligenza da Lucio Diana, autore anche dell’efficace disegno luci. Anzi, testo e spazio si esaltano a vicenda, creando il territorio adatto per lo scenario disumano che via via prende corpo con l’incedere dei fatti.
I costumi di Stefania Cempini rimandano ai personaggi raccontati dalle graphic novel di Enki Bilal e i primi film di genere Anni 80, tipo Terminator o 1999: fuga da New York, con squadre di umani un po’ disumani, organizzate in gerarchie paramilitaresche, eroi dissidenti vestiti in modo ibrido, fra tute spaziali e bandane rivoluzionarie.
Qui Baliani, immaginando esiti meno androcentrici, regala almeno sul pianeta Marte il comando della squadra alla giovane Dicia Petrov.
Non che la situazione poi cambi molto, almeno qui sul palcoscenico, visto che la faccenda degenera comunque. Ma è un bell’esercizio verso un pensiero di organizzazione sociale diversa.

Pur considerando l’ovvia necessità di continuare a lavorare per consolidare il percorso svolto, la vicenda è viva, cupamente palpitante. Mille pensieri affollano la mente dello spettatore, pensando a quanto drammaticamente ovvio e realistico possa essere per l’umanità di oggi uno scenario come quello che il regista ribalta sul palcoscenico.
La comune giovane anagrafe degli interpreti facilita il dialogo possibile sia con il pubblico più tradizionale e maturo delle stagioni teatrali che con quello delle scuole (diremmo ragionevolmente di secondo grado), cui lo spettacolo può essere assai ben proposto, come base di discussione sui grandi temi che affliggono non il futuro, ma già il presente del genere umano, ormai in piena catastrofe ecologica e dentro una crisi di visione e valori, prima ancora che energetica, mai vissuta negli ultimi cinquanta anni dal mondo occidentale e dall’umanità tutta, oltre che di pericoloso depauperamento del linguaggio e della memoria. Uno dei personaggi si ostina a citare le bellezze dell’ingegno artistico umano, dalle pale di Filippo Lippi a Dante e Ariosto.
Che vita è senza arte, senza tempo e spazio per esprimere il libero pensiero. Che spazio ci sarebbe per questo in una esistenza votata solo alla sopravvivenza, in cui i ricordi e le parole rischiano di essere inutili?
Che senso potrebbe avere la parola deserto per un umano che dovesse nascere su Marte, dove quello sarebbe il suo naturale ambiente di vita? Non avrebbe termine di paragone con la straordinaria bellezza e varietà creata dalla Natura sulla Terra, così drammaticamente in pericolo.

Abbiamo rivolto qualche domanda al regista a margine del debutto.

Marco, talvolta gli spettacoli parlano di qualcosa che sta oltre i lavori stessi, la loro drammaturgia, la lettura di primo livello. A quale esigenza profonda artistica risponde questa creazione? Come è nata?

È nata dalla visione della natura e del mondo fisico che ho di fronte e che sento di poter perdere, nasce da un’angoscia che vorrei alleviare e il teatro mi aiuta a non sprofondare.

Negli ultimi anni le tue creazioni hanno cercato un rapporto peculiare con il pubblico, con una funzione non solo di spettatori ma quasi di coro, anche se silenzioso a volte. Cosa succede in questa creazione? 

Qui addirittura gli spettatori coincidono anche spazialmente con le “culle” dei bambini  ibernati da risvegliare, per cui  l’identificazione è totale.


Come pensi sia evoluta la tua ricerca nel codice teatrale in questi anni e per rispondere a quali bisogni della comunità?

Ho continuato ad esplorare sempre di più la scena come spazio per le  presenze delle persone che sono anche attori: anche, ma non solo, e sempre alla ricerca delle vene nascoste di artisticità che conservano dentro di loro. È da questa ricerca che si è trasformata la mia poetica.

Il teatro è ancora un’arte di dialogo fra platea e palcoscenico?  Che ruolo hanno i giovani in questo spettacolo e in generale rispetto al futuro del linguaggio?

In questo spettacolo i protagonisti segreti sono i bambini addormentati, e i quattro superstiti per tutto il tempo si domandano come e cosa raccontare a loro quando saranno risvegliati. Cosa dobbiamo raccontare a quelli che nascono oggi del mondo che gli stiamo lasciando in dote?

VISTA DA QUI

testo e regia Marco Baliani
con Giulia Goro, Alessandro Marmorini, Luigi Pusceddu, Marco Rizzo
scene e luci Lucio Diana
costumi Stefania Cempini
assistente alla regia Daniele Vagnozzi
assistente alle scene Eleonora Diana

Produzione Marche Teatro