IDA BARBALINARDO* | Di quel «salottino della borghesia media napoletana», descritto nell’introduzione al primo atto di Ditegli sempre di sì, molto è rimasto nell’allestimento scenico scelto da Roberto Andò per la sua regia – prodotta da Elledieffe e Fondazione Teatro della Toscana – della commedia eduardiana: oltre alla generale ambientazione si ritrovano infatti, nel dettaglio, il «gran balcone ad angolo della scena a sinistra» e il divano letto che «all’alzarsi del sipario […] ha funzionato da letto ed è in disordine».
In questo e in altri aspetti della messinscena, lo scenografo Gianni Carluccio, che cura anche il disegno luci, compie scelte volte a rispettare l’arco drammaturgico originario e, parallelamente, a conferire alla rappresentazione una personale prospettiva, coerente con l’intendimento di Andò.
L’intenzione del regista siciliano è, infatti, quella di chiarire fin da subito il risvolto amaro dell’intreccio: non attende che esso si riveli attraverso il dispiegarsi della trama, ma gli dà corpo nella prima immagine dello spettacolo, all’interno della quale, mentre gli altri personaggi appaiono fermi, rivolti verso il pubblico, fissati come istantanee nel salotto di casa Lo Giudice, Michele Murri (Gianfelice Imparato) figura sul fondo, nell’atto di attraversare il corridoio alle spalle di tre grandi porte. Quasi una reminiscenza pirandelliana, un riportare nell’azione scenica la fissità della forma contrapposta al fluire dell’esistenza.

ph. Lia Pasqualino

Tali porte, semanticamente connotate, rappresentano il punto di contatto tra due mondi, il tramite tra pazzo-vero e pazzi-sani, il mezzo attraverso il quale Michele tenterà di mischiarsi nuovamente con il mondo dei normali – che attraverso queste porte avranno accesso alla sua casa di un tempo – fallendo.

Si tenta così di rendere evidente allo spettatore, sin dal primo momento, la tragicità della materia drammaturgica, con il supporto di una luce cupa, violacea, che permea la scena, e di una partitura musicale solenne (in sottofondo, La forza del destino di Giuseppe Verdi).
Il nucleo centrale della narrazione si discosta da questa dimensione angosciosa, oltre che per i toni della farsa eduardiana, anche per un disegno luci non freddo e asettico come quello iniziale, ma tenue e caldo, a rimarcare il disagio sotteso all’apparente atmosfera gioviale.
Questo contrasto prende forma nella relazione che intercorre tra i personaggi: essa è sostanzialmente oppositiva, conflittuale, in quanto, al di là delle apparenze, cela un’insanabile distanza, ravvisabile nell’inconciliabilità tra malattia e realtà sociale.

Michele torna a casa dopo un anno trascorso in manicomio e tenta, con la collaborazione della sorella Teresa (Carolina Rosi), di rientrare nella vita quotidiana senza dare segnali a nessuno di quanto ha vissuto; obiettivo che, seppur raggiunto in principio, rivelerà progressivamente le sue criticità riportando alla luce la sua fragilità psichica.
Sotto questo aspetto, l’interpretazione di Imparato, benchè carica di un’adeguata vis comica, non centra esattamente il punto, in quanto, lungi dal voler proporre una copia dell’esemplare prova attoriale di Eduardo, non rende in maniera efficace il graduale rimanifestarsi della malattia.
Nell’interazione di Michele con gli altri si palesa la labilità del confine tra sani e malati: il suo rifiuto dei giochi di parole, dei modi di dire che caratterizzano le conversazioni quotidiane tra sani, oltre che come segnale della sua diversità, si configura anche come una sorta di ridicolizzazione delle ipocrisie della società. Emblematico in tal senso l’incontro con Ettore De Stefani (Andrea Cioffi), amico dell’inquilino-attore Luigi Strada (Edoardo Sorgente), che sostiene di aver attinto ai risparmi dei suoi clienti, quando invece ha più semplicemente commesso un furto. Il protagonista risponde, infatti, con la sua battuta-chiave: «C’è la parola adatta, perché non la dobbiamo usare?».

Alla luce di tutto ciò, quali sono effettivamente i pazzi e quali i sani? Risulta difficile stabilirlo. Della stessa Teresa, d’altronde, Eduardo parlava all’inizio del primo atto come «una donna piacente, di circa quarant’anni» i cui «gesti a scatti, gli occhi troppo lucidi e troppo irrequieti, fanno capire che qualche rotella le manca». Teresa che qui, nell’interpretazione di Carolina Rosi, troviamo scenicamente debole, tendente ad appoggiarsi a pose e clichè e lontana dal piglio nevrotico che aveva caratterizzato l’interpretazione di Regina Bianchi nella versione televisiva del 1962.

Centrale è inoltre l’incontro-scontro tra Michele e l’aspirante attore, stravagante ed esibizionista, che vive di espedienti e risulta ben poco in linea con la tendenza borghese alla sobrietà: anche lui, a suo modo, è un reietto, un alienato e quindi fondamentalmente un alter ego del protagonista nel mondo normale. Ancora, chi è il pazzo-vero?
Luigi è infatti colui che prende il posto del suo doppio in casa Lo Giudice e intraprende una relazione con la figlia di Don Giovanni Altamura, il padrone di casa, inizialmente destinata a essere promessa sposa di Michele; è colui che si fa sintesi dell’idea eduardiana della coincidenza tra teatro e malattia e della concezione pirandelliana della vita come commedia; colui che alla fine verrà scambiato come il vero pazzo e a cui Michele, dopo aver tentato di decapitarlo, rivolgerà le parole che dovrebbero essere indirizzate a lui: «Vattènne ‘o manicomio. Tu sei un pericolo per la società. La gente ha paura di te, hai capito? Gli amici, i parenti, ‘a famiglia ti possono compatire, ma a un certo punto si rassegnano e ti abbandonano… vattènne ‘o manicomio…».
Di livello la prova recitativa di Edoardo Sorgente, che dimostra di avere una notevole presenza scenica e di essere in grado di amministrarla con misura, senza cadere nel macchiettismo e nella caricatura fine a se stessa.

In generale però, il lavoro di Andò, più che una compiuta ritessitura scenica, si dimostra una rappresentazione sostanzialmente fedele all’originale che non riesce appieno nel dichiarato intento del regista di conferire alla messinscena una dimensione diversa, più cupa e consapevole della solitudine che avvolge l’esistenza dei malati, dei diversi, dei socialmente emarginati. Tale dimensione, infatti, si limita a emergere all’inizio e alla fine dello spettacolo (momento in cui viene riproposta l’immagine iniziale, solo che questa volta è ambientata a Casa Gallucci), lasciando più ampio spazio alla componente farsesca.
Con ciò non si sottointende, ovviamente, una scarsa dignità della resa finale, ma un’insufficiente connessione della materia drammaturgica con il progetto iniziale: a ogni modo lo spettacolo, nonostante il ritmo non sempre incalzante, resta adeguatamente costruito e capace di attirare, in alcuni punti più che in altri, l’attenzione del pubblico.

DITEGLI SEMPRE DI SÌ

di Roberto Andò
con Carolina Rosi, Gianfelice Imparato, Edoardo Sorgente, Massimo De Matteo, Federica Altamura, Andrea Cioffi, Nicola Di Pinto, Paola Fulciniti, Viola Forestiero, Vincenzo D’Amato, Gianni Cannavacciuolo, Boris De Paola
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Francesca Livia Sartori
aiuto regia Luca Bargagna
aiuto scene Sebastiana Di Gesu
aiuto costumi Pina Sorrentino
produzione Elledieffe – La Compagnia di Teatro di Luca De Filippo
e Fondazione Teatro della Toscana
con il contributo della Regione Campania L.R. n. 6/2007

Teatro Fusco, Taranto
6 aprile 2022

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