RENZO FRANCABANDERA | È costante la relazione fra gioco e performance nella dinamica creativa di Alessandro Sciarroni, anche in rapporto a pratiche ludiche storiche, della tradizione. Si tratta di un filo rosso che, tornando indietro nella sua storia creativa, arriva fino a FOLK-S will you still love me tomorrow?, riflessione coreografica che risale ad un decennio esatto fa, sui fenomeni popolari di danza folk antica sopravvissuti alla contemporaneità, e che riproponeva in scena lo Schuhplattler, il tipico ballo bavarese e tirolese che ha come movimento coreografico il battere le mani sulle proprie gambe e calzature. Il ballo era proposto nello spettacolo fino allo sfinimento (del pubblico o degli spettatori). Un gioco nel gioco, una sfida alla fatica.
La relazione con le regole, la disciplina, il rapporto fra solitudine e gruppo alimenta altre creazioni come UNTITLED_I will be there when you die, ispirato alla giocoleria, al lancio dei birilli, e arriva fino all’hula hop di In a landscape, portandosi verso una coreografia minimale, dal ritmo quasi innaturale, mistico.
Una dimensione creativa volta anche a recuperare pratiche ludiche non più comunissime, e che invece hanno connotato per secoli l’esperienza del gioco. La ricerca di Sciarroni, premiato anche con il Leone d’Oro alla carriera alla Biennale Danza di Venezia, si volge quindi alla memoria e alla tradizione per dare vita a un segno artistico personale e riconoscibile, che lo ha portato a diventare artista associato del CENTQUATRE–PARIS e della Triennale Milano Teatro 2022-2024.

Non stupisce quindi la commissione all’artista da parte di Fabbrica Europa nell’ambito di Secret Florence, progetto strategico di Estate Fiorentina 2022, per una creazione performativa che traesse ispirazione dall’antico gioco del Pallone al bracciale, uno dei giochi nazionali italiani più antichi: nonostante oggi sia praticato in modo residuale e non abbia più la sua antica popolarità, questo sport è stato lo spettacolo atletico più popolare in Italia sino all’inizio degli anni venti del secolo scorso. Si tratta di un gioco derivato dalla pallacorda, che nella declinazione toscana, quella con il bracciale grande, ha assunto caratteristiche specifiche. Anzi, è proprio in Toscana che agli inizi del XIX secolo furono dettagliate le nuove regole che contribuirono alla trasformazione del pallone da gioco di piazza a vero e proprio spettacolo pubblico.
Il pilibulus, giocatore con il bracciale, è stato, specie fra fine Ottocento e inizio Novecento, tra gli atleti più pagati, una sorta di fuoriclasse del football di oggi, la cui fama era pari a quella dei grandi toreri.

Il declino di questo sport è arrivato nella seconda metà del XX secolo, quando i nuovi sport sferistici di matrice britannica si affermarono definitivamente su quelli antichi di origine latina, e questo fu il destino anche del bracciale.
Ecco invece riproporre, nella lettura dell’arte, l’antica pratica sportiva, in una silenziosa dimensione di ricerca della fatica, dell’equilibrio del corpo, della lotta contro se stessi.
La restituzione di questa commissione dalle caratteristiche così peculiari, intitolata, PLAY, è avvenuta presso lo Sferisterio delle Cascine di Firenze, uno spazio di 80 metri di lunghezza e 18 metri di larghezza circondato da un muro di recinzione alto una decina di metri.

Anche in PLAY Alessandro Sciarroni approfondisce i concetti legati al rapporto fra la pratica e il tempo, portando la narrazione a svilupparsi sui temi della dedizione, della resistenza, della fatica, della lotta interiore insita nella pratica di una disciplina sportiva.
In PLAY l’ideatore recupera il bracciale, lo fa indossare con gesto quasi enfatico ai suoi performer. Il primo entra lentamente in campo, solo, nel grande spazio, allacciando e preparando il nastro come gli antichi pugili della statuaria classica. La preparazione, il gesto lento dell’indossare, i primi colpi del manicotto a tirare la palla al muro. I fallimenti.
La palla, di tenace consistenza, che finisce imprevedibilmente addosso al pubblico che non fa in tempo a scansarsi.
Anche il tema del fallimento iniziale rientra nell’esegesi poetica del rapporto fra uomo e gioco nella visione dell’inventore Sciarroni. Solo dopo il fallimento, nella rincorsa verso la pratica ossessiva, la dimensione dell’esperienza diventa spirituale: dalla solitudine e dal confronto con se stessi, arriva la riuscita.

ph-Monia-Pavoni

Il pubblico è disposto sulla platea fronte muro e a bordo campo.
Il disegno luci (di Valeria Foti) illumina, in maniera non intensa, la parte centrale del campo e  il muro, diradando verso le parti estreme e lasciando buie le tribune laterali nel senso della lunghezza: questa marcatura dell’architettura enfatizza la solitudine del giocatore che palleggia da solo contro il muro, e l’imponente spazio dello sferisterio diventa ancora più grande.
Il pesante manicotto di legno puntuto, la palla di cuoio scagliata con vigore, il suo battere, l’eco che si propaga nel grande spazio; il performer che conta un punteggio tennistico dopo ogni scambio con la parete, contro una sorta di avversario immaginario; l’avversario rappresentato da se stessi, grazie ad una telecamera che in tempo reale inquadra il performer e ne proietta gigantesco il sembiante.
Si può vincere contro se stessi?
Lungo il muro, in tre piccole aperture, sono poste altrettante telecamere, proprio per catturare e ingigantire nella proiezione sulla grande parete dello sferisterio, i dettagli dello sforzo, delle movenze, della capacità di controllo. Alcuni microfoni captano e amplificano l’impatto della palla sul bracciale e sul muro, o a terra.
Dopo il palleggio da soli e la parte del palleggio che comprende la video proiezione, un avversario arriva dal fondo dello sferisterio, quasi un gladiatore, e inizia un vero e proprio scambio “tennistico” che si conclude con una stretta di mano.
Tale dispositivo dinamico della durata di 20 minuti circa, viene ripetuto per 3 volte, interpretato da ciascuno dei tre performer (Luca Gigli, Sara Miccoli, Rodolfo Sorcinelli), in modo sostanzialmente uguale.
Oltre ad una traccia sonora tenue, di pianoforte (opera di Aurora Bauzà e Pere Jou), che si ode in corrispondenza dell’avvio della video proiezione, il paesaggio sonoro si compone dei suoni amplificati dei colpi e di alcune registrazioni di voci off registrate, di incoraggiamento: “Vai Massimo!”, qualcosa voce registrata chissà dove che ha a che fare con un tifo amicale, un sostegno artefatto e registrato, che resta estraneo al gesto, alla sua relazione con la pratica, con la disciplina necessaria allo sport. Come se tutto il mondo diventasse esterno, ed esistessero solo l’io, il sè.

Il tema centrale è la ripetizione: drammaturgicamente più asciutto delle recenti creazioni, PLAY è incentrato proprio sull’ascesi della reiterazione, sulla solitudine della pratica. Nulla succede fuori di questo, e dunque il pubblico è chiamato a farsi testimone di ciò: il gesto sportivo diventa a suo modo coreografia, estetica della fatica, dello spasmo.
Come In a Landscape, Sciarroni pare aver perso interesse verso una drammaturgia sottostante che consoli e distragga lo spettatore dalla fruizione del gesto in purezza. Costringe a guardarlo, lo enfatizza, lo ingigantisce.
Umanissimo e chirurgico allo stesso tempo; statuario. Puro, di una purezza che può arrivare ad essere per qualcuno finanche respingente, nel suo reiterarsi con lentezza e senza sorprese in capo a ciascuno dei performer, che uno dopo l’altro compiono gli stessi gesti.
Per altri, invece, la rappresentazione di questa faticosa semplicità, illuminata ed enfatizzata in modo quasi eroico, diventa mistica, spirituale, portando verso quella sorta di piccola trance che in fondo è l’operazione (non semplice) che sempre più spesso Sciarroni chiede allo spettatore di compiere, facendo la stessa fatica del suo performer.
Un accesso ad uno spazio di connessione tutt’altro che agevole, specie in una diluizione del tempo verso una lentezza che poco ha a che fare con l’agonismo massmediatico. Il performer guarda la palla rotolare, la segue con lo sguardo, aspetta che si fermi, la raggiunge con passo lento, la prende e lento torna alla sua posizione. Lì riprende la fatica. E osservare la fatica è esercizio a suo modo faticoso.
È quindi contemplato che lo spettatore possa non imboccare l’ingresso spirituale, ritrovandosi a guardare dei palleggi. Fa parte in fondo della complessità nella relazione con qualsiasi pratica intesa come disciplina, arte compresa, esasperata fino a diventare mistica nella ripetizione, che è quello a cui Sciarroni è interessato.

PLAY

Dall’antico gioco del Pallone al bracciale a una pratica performativa

invenzione Alessandro Sciarroni
con Luca Gigli, Sara Miccoli, Rodolfo Sorcinelli
musica Aurora Bauzà e Pere Jou (Telemann Rec.)
disegno luci Valeria Foti
direzione tecnica Mattia Bagnoli
assistenza e collaborazione Fabio Novembrini
produzione esecutiva Alice Chiari
produzione video Alfea Cinematografica
consulenza sul Pallone al bracciale Stefano Sani, Paolo Petruzzi – Club Sportivo Firenze
produzione Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee, Comune di Firenze – Assessorato alla Cultura, Assessorato allo Sport
in collaborazione con corpoceleste_C.C.00#, MARCHE TEATRO – Teatro di Rilevante Interesse Culturale