ELENA SCOLARI | Più volte abbiamo raccontato di quanto il settore del teatro per ragazzi sia vivacissimo e spesso fonte di spunti innovativi anche per il Teatro considerato con la T maiuscola; benché questa suddivisione in steccati sia considerata sterile e continui a essere deprecata è onesto dichiarare che esiste una larga fetta di professionisti dell’arte scenica che con cura e dedizione lavora specificamente per le giovani e giovanissime generazioni creando spettacoli secondo le leggi della creatività, godibili a diversi livelli e – non raramente – piacevoli a qualunque età.
Tanti sono i festival/vetrina italiani che si dedicano al teatro per ragazzi e SEGNI New Generations Festival (sotto la direzione artistica di Cristina Cazzola) è uno degli appuntamenti importanti, una manifestazione che coinvolge la città di Mantova, le scuole, le famiglie e tutti coloro che amano il teatro, la ricerca e i linguaggi delle arti. Artisti e compagnie italiani e stranieri tra i più riconosciuti e innovativi del panorama internazionale si esibiscono in spettacoli, laboratori e percorsi d’arte nei luoghi più belli della città.

PAC ha seguito due giornate dell’edizione 2022, svoltasi tra fine ottobre e inizio novembre e   qui riportiamo le impressioni sulle produzioni cui abbiamo assistito.
Cifra comune fra i titoli di cui parleremo è l’affrontare diversi aspetti della vita: How to become super happy in 50 minutes di Memento Theatre Company e Le criard, (coproduzione Segni d’infanzia e Theatre du Gros Mecano, Canada), si concentrano sulla libertà di esprimersi, sulla consapevolezza delle proprie emozioni; Unter huden (KompaniTO, Norvegia) è una spinta alla cooperazione; l’installazione Arcipelago di Teatro Telaio (Brescia) lavora sul concetto di scoperta e Paloma. Ballata controtempo di Factory Compagnia Transadriatica sull’importanza di coltivare la memoria. Sono tutti esempi di un teatro che pensa alla relazione e si porta dietro un corollario fatto di interazione, dialogo, confronto e poesia.


How to become super happy in 50 minutes (recitato in inglese e rivolto agli adolescenti) si presenta come il titolo di uno di quei manuali che abbiamo appreso costituire la categoria dei self help books che promettono di insegnare l’autostima, o come ottenere una linea perfetta in mezz’ora ma anche come cucinare una crostata perfetta o come trovare la via per raggiungere la pace dei sensi, ecc.
In realtà lo spettacolo vuole dimostrare proprio la vacuità di questi illusori vademecum,  partendo dal dramma personale della narratrice/protagonista, vedova di un uomo che si è tolto la vita. Ingvild Lien è una donna piena di energia e che racconta con grande sincerità come è riuscita a sostenere il peso emotivo di un fatto così grave; qualche massima c’è ma è frutto di un’esperienza vera e profonda: “Non importa quello che ti succede ma come tu reagisci”.
In una bella sequenza del testo si racconta di come, dopo un lutto, si presentino alla porta diversi sentimenti, in fila come per entrare a una festa: rabbia, dolore, senso di colpa, smarrimento e infine sollievo, tutti ti attraversano ed entrano a far parte di te creando dapprima una gran confusione, ma ogni sensazione ha il suo spazio e serve a ritrovare un equilibrio.
Drammaturgicamente queste riflessioni sono però sempre puntualmente contrappuntate da battute di spirito (più o meno riuscite) che finiscono per lasciare molte note in superficie, facendo emergere conclusioni un po’ spicce, in luogo di lasciarsi andare a qualche vuoto di malinconia che regalerebbe un respiro meno affannato alla narrazione. La presenza di Ingvild Lien sulla scena si rivolge sempre direttamente al pubblico, (anche con una mini lezione su come si respira), privilegiando un tono interlocutorio rispetto alla costruzione di una cornice teatrale.


L’espressione di sé è anche il cuore di Le criard (Il grido), con Sara Zoia e Steve Hamel alla batteria: il grido come sfogo, un grido che la ragazzina protagonista sente come stimolo fisico impellente che deve riuscire a buttar fuori. La società lo reprime ma lei deve trovare come liberarsene: in un cuscino, in un tronco cavo, in una gola lontana dal paese…
Il punto teatrale più interessante è il connubio tra recitazione e musica, il dialogo tra l’attrice e il percussionista tesse una tela fatta di rimandi e di accentazione ritmica che diventa scrittura di scena; meno convincente è lo scheletro narrativo dello spettacolo, in cui non si cerca il motivo di questa rabbia continua che – quotidianamente – deve trovare valvola di uscita. C’è una specie di ‘istigazione’ al gesto liberatorio ma senza che sia ben chiarito da cosa ci si debba liberare. Esprimersi è un diritto, certo, ma gridare non è il contrario di tacere. C’è una donna/madre/dea, fusa con il mare, che temporaneamente acquieta la figlia ma la propria natura non si può vincere. (E c’è anche l’urlo collettivo d’ordinanza).
Interessante la lettura che il gruppo dei teens chiamato a seguire gli spettacoli ha dato di questo lavoro interrogandosi sulla pressione che la società esercita sui giovani in particolare, inducendoli a modificare o smussare le inclinazioni naturali.
E sottolineiamo l’acutezza delle osservazioni di questi giovani spettatori, capaci di guardare a tutti gli elementi che compongono uno spettacolo, cogliendo ciò che in loro risuona con capacità limpida e consapevole.

Ai bambini più piccoli è dedicato invece Unter huden del gruppo norvegese KompaniTO: tre ragazze compongono un sentiero con grandi tessere di legno chiaro a incastro, lo abitano e lo percorrono con i propri corpi, trovando man mano soluzioni per andare sempre un po’ più in là, grazie alla cooperazione e all’ingegno di un gruppo che vale più dei singoli elementi che lo formano. Si sfida la fisica sfruttandola.
Hunter huden è abilità tecnica senza racconto formale, costruzione e modifica di uno spazio per occuparlo con la fantasia. C’è la tensione per il  numero acrobatico, c’è la sorpresa per l’idea che verrà, per il puzzle che si va delineando ma poi anche cancellando, simbolo delle tante strade che insieme si possono imboccare anche solo per il semplice e vitale divertimento.

Anche Arcipelago è un gioco, un insieme di isole, in ogni isola una piccola prova. Teatro Telaio – cura e ideazione del progetto Angelo Facchetti e Francesca Franzé – ha immaginato un’esplorazione in cui i bambini (soli o accompagnati dai genitori) navigano tra una tenda e l’altra, piccoli coni bianchi illuminati e sparsi su un pavimento-mondo, scoprendo cosa c’è in ogni misterioso teepee ma scoprendo anche qualcosa di sé, e questa è la gemma lucente di Arcipelago: i bambini sono chiamati prima a capire cosa è loro chiesto (sfida d’ingegno) – scostare una tavola, aprire un cassettino, innaffiare una piantina nascosta… – e poi a decidere se accettare la richiesta, se stare al gioco o ritrarsi fino alla prossima prova. Ci sono domande su questioni molto intime e si può sussurrare la risposta dentro un microfono, è un segreto, puoi dire quello che vuoi; e ci sono domande aperte al mondo, che ti fanno guardare fuori e pensare a te in collegamento con gli altri e con l’ambiente, amici, famiglia, insegnanti, alberi, animali.


In una delle tende più belle c’è una corda con un nodo: se vuoi fare pace con una persona cui tieni sciogli il nodo e la lite sarà svanita. Già, perché il rancore ti tiene legato.
E per questa giusta attenzione all’interiorità crediamo che sia ancora da valutare l’idea di ‘spifferare’ i sussurri dei bambini a fine percorso. Bambini di altri luoghi e altri giorni, sconosciuti, sì, ma un segreto è un segreto.
Arcipelago è un’installazione che vive anche del luogo in cui è calata, qui l’allestimento ideato da Giuseppe Luzzi è stato collocato in una sala di Palazzo Ducale con alti soffitti, PAC la ha visitata anche all’aperto di un parco estivo (non possibile a novembre), all’imbrunire, e la connessione tra il sussurro e il grande spazio è assai più significativa quando il contesto rimanda all’apertura.

Chi tra i lettori ha avuto la fortuna di fare un viaggio in Messico saprà che i loro Dias de los muertos sono una festa sentita, profonda, colorata e che insegna molto sul rapporto con la morte a noi europei spaventati. In questi giorni gli spiriti dei defunti tornano a far visita ai propri familiari, e tutti (tutti vuol dire tutti, non solo nelle case e nelle piazze ma anche nei negozi, negli alberghi, nelle edicole, in ogni più piccolo bugigattolo) allestiscono un altare, detto ofrenda, sul quale i parenti pongono tutto ciò che più piaceva al proprio caro trapassato: cibo, musica, fiori, oggetti preferiti, perché il suo breve soggiorno sia il più piacevole possibile e – soprattutto – perché si ravvivi la persona mancata con ciò che la rendeva felice.

ph. Gabriele Albergo

Ecco, Paloma di Factory è un’opera dalla grana poetica struggente, è un inno alla vita, all’amore, alla malinconia sorridente. Michela Marrazzi (sua l’idea dello spettacolo, regia e drammaturgia di Tonio De Nitto) è in scena con il fisarmonicista Rocco Nigro e naturalmente con Paloma, l’anziana pupazzo – animata da Marrazzi (cura dell’animazione Nadia Milani) con infinita grazia e ironia – che ricorda il suo perduto amore e la passione di gioventù. Dalle sue valigie dei ricordi si aprono tante ofrendas che raccontano, solo per gesti e immagini, episodi, buffi aneddoti di una vita scandita dalla musica, dal canto, dal ritmo del tempo che si può far scorrere a rovescio, con la memoria.
Tra le pieghe rugose del viso tondo e sereno della vecchia Paloma passa anche la figura folcloristica sudamericana della Llorona (la piagnucolona, più o meno, dal spagnolo llorar, piangere), lo spettro di una donna che si aggira da secoli perché mai liberata dal suo dolore. Lo spettacolo mostra, con i piccoli passi di un’anziana tremolante solo nell’incedere, come tenere vivo il ricordo sia tenere vive le persone e le loro risate.

Festival Segni d’infanzia – Mantova, novembre 2023