GILDA TENTORIO | Ha scritto per il teatro testi brucianti, in un linguaggio lucido e asciutto che fa poesia con il frammento e lancia interrogativi ancora oggi attuali. Si tratta di Heiner Müller (1929-1995), grandissimo drammaturgo e regista tedesco, sperimentatore e controverso interprete della tormentata storia tedesca prima e dopo il 1989, diviso fra pessimismo e slanci provocatori. Questo “erede eretico di Brecht” si dedica a un teatro postmoderno e post-drammatico, politico e filosofico, poetico e corrosivo, visionario ed espressionista. Aggirando la morsa della censura della DDR, scava in vertiginose profondità verticali, riscrive la tradizione (rivisita Shakespeare, come nel celeberrimo Hamletmachine, 1977) e rielabora figure mitiche e tragiche per farle esplodere in nuovi sensi.

È quanto succede anche nell’Orazio (Die Horatier, 1968, rappresentato qualche anno dopo), parte di una trilogia di “drammi didattici” che comprende i più noti Filottete e Mauser, parabole tragiche che pongono laceranti interrogativi. Lo abbiamo visto a Pacta dei teatri a Milano per la regia di Giovanni Battista Storti, un veterano del teatro: attore (ha lavorato anche con maestri del calibro di Kantor e Bob Wilson), docente all’Accademia di Udine e regista dal tocco delicato e meditativo.
L’opera rappresenta un episodio dell’antichissima storia romana, il leggendario duello fra Orazi e Curiazi che dovrà decidere della guerra fra Roma e Albalonga. Sulla vicenda si era già concentrato Brecht nel 1934, ma Müller, che scrive all’indomani della Primavera di Praga, scompagina le carte e con il suo magma verbale vuole suscitare nel pubblico il dilemma del dubbio.
Nel duello fatale trionfa l’ultimo campione romano degli Orazi che, ancora lordo del sangue nemico, affonda poi la spada nel petto della propria sorella, rea di piangere il promesso sposo (uno dei Curiazi uccisi). Mentre l’atmosfera è tesa perché stanno per calare gli Etruschi (è quindi un momento emergenziale), l’assemblea del popolo si riunisce per dibattere: l’Orazio va celebrato come vincitore perché ha ucciso i guerrieri nemici per il bene della comunità oppure dovrà essere condannato come assassino perché ha violato con prepotenza le leggi che vietano di uccidere un consanguineo? Le due posizioni si sintetizzano nell’immagine dell’alloro, simbolo di vittoria, e della scure, simbolo di giustizia.

ph. Flavio Bruno

Le parole sono affilate e scorrono come un flusso incandescente attraverso le voci dei tre interpreti (lo stesso Storti, affiancato da Lorena Nocera e Gilberto Colla) che si alternano come corpo tricefalo a esprimere i sussulti del popolo, in una sorta di staffetta complementare di costruzione condivisa. La recitazione è frontale, quasi straniata e impersonale. Gli attori sono ritti e statuari, come sentinelle di un linguaggio icastico e scandito secondo un ritmo spezzato o fluido. Le parole si inseguono e ritornano, uguali ma diverse (“mano”, “spada”, “sangue”, “alloro”, “scure”). E come in una partitura sono fondamentali anche i respiri del silenzio, illuminati da fasci di luce e fumo, e ricamati dalle musiche dal vivo di Thomas Umbaca, evocative di atmosfere ancestrali.
Nulla è superfluo: la scenografia minimale invita all’astrazione (due secchi di sabbia e fazzoletti rossi indicano poeticamente il sangue che irriga la terra), mentre sullo sfondo si staglia una splendida installazione (Marcello Chiarenza e Marco Muzzolon), costituita da lunghi e nudi rami di nocciolo, che attraverso un sistema di invisibili contrappesi, stanno ritti in verticale, magicamente sospesi o inclinati e manovrati dagli attori con delicatezza disegnano tre pause narrative con le forme di un intreccio caotico (come fossero i bastoncini del gioco Shanghai), oppure si uniscono compatti o ancora creano un bosco labirintico. L’impressione è di un rito arcaico che a poco a poco ci assorbe con forza magnetica, mentre le parole hanno il tempo di depositarsi.

ph. Flavio Bruno

Qual è il messaggio del testo? Müller ci vuole mostrare la contraddizione insanabile della verità: l’Orazio è vincitore e assassino, il suo merito non può cancellare la colpa né viceversa. Una logica di aut aut divarica le opzioni, ha in sé la sicurezza del discrimine, imbevuto della tragicità di una scelta. Müller mette in primo piano il valore ambiguo e paradossale dell’et et, che apparenta ma anche sancisce l’unione nella differenza: “ci sono molti uomini in un uomo”. L’Orazio viene infatti celebrato dai suoi concittadini con l’alloro e subito dopo giustiziato, il suo cadavere riceve gli onori del vincitore ma viene poi smembrato e gettato in pasto ai cani. Una convivenza di opposti esplosiva e per nulla pacificante, eppure condivisa, fin nella prospettiva linguistica dei posteri, che dovranno ricordare l’Orazio come salvatore e feroce assassino, perché “le parole devono restare pure, senza alcuna paura verso la verità impura”.

La filigrana politica ci fa intravedere la critica allo stalinismo (vincitore contro Hitler, ma sterminatore dei propri fratelli) e pure all’adulterazione del linguaggio nel clima asfittico della DDR: il regime preferisce occultare, sposando piuttosto la logica netta dell’aut aut.
La verità però non è lineare o nitida, bensì gravida di complessità. L’assemblea popolare di Roma potrebbe piegarsi al campione vittorioso, farlo dittatore obliterando i suoi atti privati, e invece sceglie il rigore e la paradossale conciliazione degli opposti, offrendoci così l’esempio di un esercizio democratico, seppur doloroso, del dubbio.

Come mi suggerisce Storti in un incontro dopo lo spettacolo, è possibile fare un passo ulteriore nelle pieghe del testo. Il dibattito avviene in uno stato d’eccezione (la minaccia dei nemici Etruschi), una situazione non troppo dissimile dalla nostra attuale: l’emergenza è diventata la nostra quotidianità, prima con la pandemia e poi con la guerra, e sperimentiamo la difficoltà di dire la contraddizione. Quanti talk show e discorsi, che tentano di definire o al contrario di occultare la verità! Quanto è faticoso accettare un principio di compresenza (et et), che disegna i labili confini di un mondo complesso!

ph. Flavio Bruno

Un testo denso e difficile, ipnotico e vertiginoso, che riesce a parlare all’oggi grazie alla delicata regia di Storti, attento alla tessitura di voci, ritmi, simboli poetici. Se ne esce con un senso di inquietudine e con la necessità di riflettere. È questo il compito “terapeutico” del buon teatro.

 

L’ORAZIO
di Heiner Müller

traduzione Saverio Vertone e Mario Missiroli
regia Giovanni Battista Storti
con Lorena Nocera, Gilberto Colla, Giovanni Battista Storti
musiche Thomas Umbaca 
installazione Marcello Chiarenza e Marco Muzzolon
disegno e partitura luci Fulvio Michelazzi
costumi Caterina Villa
produzione Teatro Alkaest – coproduzione PACTA dei Teatri

Pacta Salone, Milano | 28 gennaio 2022