RENZO FRANCABANDERA | La compagnia diretta da Marco Lorenzi prende il nome dal celebre libro Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend. Il testo, di vent’anni fa, alle origini si occupava del dibattito sullo spazio fra cultura orale e rito, tra mito e logos, appunto, in cui però si torna sul mito come forza regolatrice ed educatrice, sebbene non in uno Spazio indefinito e omogeneo bensì in un Tempo ciclico e qualitativo, segnato da scansioni quasi universali, che avvicinano l’umano all’assoluto.
Sicuramente la ricerca di uno spazio mitico nel contemporaneo è una delle sfide del teatro, anzi forse LA sfida, per un codice stravolto e mutato nelle sue pratiche dall’avvento della digitalità e dello spazio virtuale. È un momento cruciale per una pratica che ha perso il ruolo di medium di massa, ma che rimane viva e presente, con una funzione militante, oracolare, non fosse altro perché è uno dei pochi spazi in cui lo spettatore si disconnette dalla rete, a cui siamo perennemente collegati.
Trovare quindi un codice proprio, capace di utilizzare la tecnologia contemporanea, la drammaturgia del tempo presente, per far rivivere i grandi interrogativi socio-antropologici dell’ancestralità mitologica è, fin dal suo nome, la missione della compagnia, che di recente si è confrontata in Italia con l’adattamento per il teatro di una sceneggiatura cinematografica, quella di Festen, un film del 1998 diretto da Thomas Vinterberg.

foto di Giuseppe Distefano

La trama del film, qui riadattata per la scena nello spettacolo visto di recente con grandissimo successo di pubblico all’Arena del Sole di Bologna, ruota intorno a una famiglia danese che si riunisce per celebrare il 60esimo compleanno del padre. Durante la cena, il figlio maggiore, Christian, fa una rivelazione sconvolgente che mette in crisi l’equilibrio familiare. Il film esplora temi come la verità, la famiglia, i segreti e la responsabilità personale.
Il film è stato ispirato dal Manifesto Dogma 95, il movimento cinematografico danese che ha avuto grande influenza nello sviluppo delle tecniche di ripresa contemporanee, un documento scritto da Lars von Trier e Vinterberg stesso nel 1995, che definisce una serie di regole per la produzione di film.
Tra le regole più importanti ci sono: la ripresa in formato digitale, l’uso di attori non professionisti, l’eliminazione della musica composta appositamente per il film e l’uso di solo tre tipi di lenti per la ripresa. Il manifesto mira a promuovere maggiori libertà creativa e  autenticità nei film. Qualcosa di analogo a quanto pensato da Milo Rau nel teatro con il suo decalogo.

La poetica recente di Lorenzi e della sua compagnia Il mulino di Amleto si fonda, a questo punto del percorso creativo, su due elementi peculiari e distintivi che riguardano non solo il fatto estetico ma l’idea stessa della forma teatro.
In primo luogo la compagnia predilige in forma elettiva lo spazio teatrale tradizionale.
Le ragioni di questa scelta risiedono essenzialmente nell’intenso ricorso che il loro linguaggio formale fa all’elemento video, inteso tanto come proiezione di piccoli inserti filmati in dialogo con l’atto performativo, quanto come ripresa dal vivo e rielaborazione mediale della parte recitata (il loro Festen è a conti fatti un unico piano sequenza senza interruzioni). È come se due medium convivessero e uno diventasse nutrimento e base per la presenza dell’altro.
Si potrebbe dire che questa è davvero una esemplificazione efficacissima delle questioni poste da quella parte della teoria semiotica che individua in questo genere di processi creativi di ri-mediazione la natura stessa del conflitto fra medium analogici e medium digitali o elettrici, con i secondi che fagocitano, digeriscono e modificano i primi assorbendoli in sè.

foto di Giuseppe Distefano

Rimediazione (in inglese, remediation) è un neologismo coniato da Jay David Bolter e Richard Grusin che vuole descrivere la rappresentazione di un medium di massa in un altro, ovvero l’utilizzo di alcune caratteristiche tipiche del primo all’interno di un altro.
In generale si parla di rimediazione dei media analogici da parte di quelli digitali (es. la pagina di un portale web, ri-media quella di un quotidiano stampato, ma anche l’azione teatrale ripresa dalle telecamere e proiettata come segno cinematografico).
I due studiosi Bolter e Grusin definiscono la rimediazione come una caratteristica distintiva dei nuovi media digitali: interagiscono continuamente tra di loro, in un continuo processo di confronto e integrazione, facendo sì che un medium sia in realtà un ibrido di diversi elementi.
McLuhan lo aveva predetto, e questo tempo del teatro, che di suo si agisce, si riprende, si proietta e si riverbera in se stesso, appare confermare la tesi: “il contenuto di un medium è sempre un altro medium”.
Questo mediumfagia enfatizza le due logiche contraddittorie alla base della fagocitazione, ovvero l’immediatezza (in inglese, immediacy) e l’ipermediazione (in inglese, hypermediacy).

La tecnologia digitale ha profondamente cambiato la geografia dello spazio scenico, aprendo nuove possibilità per la creazione di spettacoli e offrendo agli artisti più libertà creativa e Il Mulino di Amleto e la regia di Lorenzi appaiono con Festen essere arrivati a una maturità nell’uso della forma ri-mediata che forse nessun gruppo di lavoro aveva finora raggiunto in Italia, per qualità finale dell’esito scenico, freschezza dell’allestimento, dinamiche creative e capacità di affiancare in modo così integrato le due forme, i due medium.
L’operazione del teatro che genera un film mentre viene ripreso in diretta, dal punto di vista delle arti sceniche non è nuova, perché già oltre 15 anni fa la regista inglese e a lungo basata in Germania, Kathie Mitchell aveva costruito la propria fortuna artistica sulla scelta di realizzare spettacoli originati proprio su questo presupposto: la scatola scenica ospitava sia lo spazio della recitazione sia tutto quello che era necessario per girare in presa diretta un film.
Lo spettatore assisteva così, cosa che succede anche in Festen, sia allo spettacolo sia alla proiezione del film che nasce dalla recitazione registrata in presa diretta.
Nel caso di Festen, però, il fatto semiotico particolare riguarda la questione legata all’origine stessa del testo, che in questo caso si rifà evidentemente alla sceneggiatura del film omonimo.
Si dà quindi il singolare caso di un’operazione in cui il teatro si nutre del cinema e viene poi ri-fagocitato da quello stesso medium al servizio del quale pone il proprio codice.

foto di Giuseppe Distefano

A ben guardare, dentro la regia di Marco Lorenzi e dentro il modo in cui viene ripreso e rielaborato il codice filmico, si celano numerose citazioni anche al medium televisivo, dalla commediola di British humour stile BBC, girata in interno e con evidenti elementi di ambientazione falsa e artificiale, un po’ in stile Mr. Bean, a questa particolare sfumatura, presente in certa forma anche nell’Enrico IV proposto a dicembre scorso dal regista (in un allestimento prodotto per il Teatro Italiano a Fiume in Croazia), e rimanda chiaramente a una sorta di nostalgia per il medium teatrale.

Pare di poter considerare una differenza quasi filosofica, a distanza di 15 anni, fra gli esperimenti della Mitchell e quelli della compagnia italiana che alla medesima tecnica di creazione si rifà: mentre la prima era animata dall’intenzione di tentare una coesistenza – con un esplicito riconoscimento di paternità del codice teatrale su quello cinematografico – nel caso della compagnia italiana, a distanza di una generazione, forse per il feroce e spaventoso avanzamento delle tecnologie che minano ormai la sopravvivenza stessa del teatro come forma autonoma di creazione, l’uso del film avviene in una sorta di lacerata compresenza, che seppur formalmente pulita, cerca di sancire la supremazia dello sguardo sull’atto recitato, rispetto a quello sul filmato.
Il film, nel caso della compagnia italiana, anche se in primo piano, paradossalmente fa da sfondo, come si vede nel caso dell’Enrico IV, allestimento in cui la proiezione abbraccia in modo avvolgente tutto il fondale, oppure permette in trasparenza di vedere tutto quello che c’è dietro, creando una specie di doppiofondo concettuale che rappresenta in Italia, al momento, l’espressione più alta sia dal punto di vista formale che concettuale rispetto al dialogo e alla compresenza fra ripresa filmata in diretta e atto performativo teatrale.

È quindi un pensiero, quello de Il Mulino di Amleto e di Lorenzi che, al netto di questioni estetiche specifiche che possono rendere più o meno interessante per lo spettatore un dato segno o un dato profilo recitativo, porta comunque a una serie di considerazioni ineludibili sul linguaggio del teatro, ma che nel dibattito sul post human, resta saldamente ancorato a un vitale senso del teatro come luogo dell’azione umana, del mito.
Anzi, se davvero le macchine fossero estrinsecazione di una qualche forma di super intelligenza, di divinità, come teorizzava in qualche modo Kurzweil, forse questa lotta titanica con l’elemento sovrastante chiarisce la natura stessa dell’umano: fallace, imperfetto, eppure dannatamente suggestivo, erotico, suadente, sudante, becero, opportunista, e via di seguito, per ogni declinazione e maschera che il teatro può regalare. E siccome al momento, gli algoritmi ancora imparano dall’umano, il teatro, questo teatro, è un luogo di incontro utile anche forse a insegnare qualcosa alle macchine.