RENZO FRANCABANDERA | Tante volte viene fatta considerazione del fatto che l’arte, quando ambisce veramente a essere tale, debba porre l’artista in una condizione di scomodità per costringerlo a vedere il mondo in un modo diverso, per uscire dalle proprie zone di comfort e scoprire qualcosa di ignoto in sé. E nello spettacolo dal vivo questo ancor più riguarda il rapporto fra artista, creazione e pubblico, essendo lo sguardo esterno quello che in qualche modo completa l’opera d’arte. La posizione in cui viene posto lo spettatore non è mai neutra o irrilevante.

Angélica Liddell (al secolo Angélica González) è una scrittrice, attrice e regista teatrale spagnola, nota per un codice potentemente fisico che intreccia recitazione, danza, musica, body art e che da sempre si muove all’interno di una cornice teatrale, in cui si compongono creazioni che attraverso una postura di un corpo spesso sconvolgente, violentemente presente, esposto, ha portato il suo progetto artistico a grande notorietà internazionale.
Il pubblico si spacca, la ama o la detesta, la trova messianica e potente o offensiva e dissacrante. È una artista il cui segno fa parlare.
Emilia-Romagna Teatro Fondazione da oltre un decennio, da quando Pietro Valenti e Barbara Regondi per la prima volta invitarono la performer a Vie Festival, ha negli anni sostenuto la poetica della artista spagnola, e anche il nuovo direttore Valter Malosti ha voluto continuare a programmarne gli spettacoli.

Recentissima è l’ospitalità per un weekend di metà Aprile 2023 all’Arena del Sole di Bologna di Caridad, sua ultima e ambiziosa creazione, che vede in scena un nutrito numero di interpreti che vengono da esperienze e forme di coinvolgimento e avvicinamento al suo lavoro molto diverse, e che in questo caso comprende anche un gruppo di bambini, che di solito sono coinvolti nelle piazze in cui il lavoro viene replicato.

Questa questione è rilevante sotto diverse forme, sia perché in diverse parti dello spettacolo esistono scene di nudo e di dinamiche dionisiache, sia perché uno dei temi che lo spettacolo affronta è il rapporto con il perdono e dell’esercizio della carità predicato nel Vangelo, proprio nelle sue forme più difficili e verrebbe da dire inaccettabili: in che modo è possibile perdonare o avere carità ad esempio per un pedofilo assassino? Questa domanda non è retorica perché la questione del perdono viene effettivamente affrontata nello spettacolo in una serie di capitoli e sequenze sceniche, affrontando anche un paio di casi di pedofilia che hanno a che fare proprio con la storia e che costituiscono anche parte della drammaturgia (pubblicata da Luca Sossella in una collana di testi teatrali promossa da ERT a cura di Pietrobono/Lo Gatto).
Questi scampoli di violenza tragica vengono offerti al pubblico, in alcuni casi, tramite una serie di dettagli e confessioni di persone coinvolte in violenze su vittime inermi, donne, in crimini contro i bambini, il che, come si può facilmente intuire, non lascia indifferente l’uditorio parte del quale trova ragionevole anche manifestare dissenso a voce alta e in alcuni casi anche lasciare la sala.

È il caso della vicenda, raccontata in scena del nobile francese Gilles de Montmorency-Laval, conosciuto principalmente come Gilles de Rais, impiccato a 36 anni nel 1440 dopo esser stato militare, assassino seriale e barone di Rais, capitano dell’esercito francese e compagno d’armi di Giovanna d’Arco. Il suo coinvolgimento in pratiche occulte in cui torturò, stuprò e uccise almeno 140 bambini e adolescenti lo portò alla condanna per impiccagione. A questo personaggio la Liddell affida un lungo monologo che comprende una sorta di sua autodifesa in cui l’uomo esalta la bellezza ineluttabile del suo agire violento.

Raffigurato quasi in una dimensione angelicata, l’assassino viene alla fine del monologo omaggiato e avvicinato in segno di pacificazione e di perdono dai bambini che simboleggiano le sue vittime. Un abbinamento che non riguarda solo questa vicenda criminale, ma anche altre in cui le giovani vittime si trovano a ballare con i loro assassini.

Di certo non è quello che canonicamente rientra nel concetto di gradevolezza: siamo sicuramente in un luogo di indagine dell’arte che ha a che fare con la morale, invero assai scomodo perché, per un verso, spinge chi programma questi lavori a interrogarsi su quale sia il limite, o se esista un limite, su ciò che debba essere oggetto di indagine da parte dell’arte.
Ove questo limite, che sarebbe un limite di pensiero, si ritenesse non esistere, l’interrogativo si sposta sulla domanda se esiste invece un modo o un limite sulle forme. Angélica Liddell da sempre, opera lungo questo bordo scomodo, sia per sé che per l’uditorio perché costringe sempre a ragionare sui limiti, su cosa sia la morale, su cosa significhi il perdono, su quali crimini siano imperdonabili, se sia possibile trovare il bello nel male, se la nostra società comodamente seduta in poltrona non porti con sé un senso mortifero di silenziosa accondiscendenza alla pornografia (soprattutto quella socialmediale dilagante) e invece poi si scandalizzi quando questa viene agita nello spazio teatrale. Perché il teatro ha una crudezza che nasce proprio dalla sua dimensione di  presenza incarnata e reale nel qui e ora.

Sono ambiti di indagine e riflessioni che anche Pasolini faceva propri nei suoi ultimi e più drammatici lavori, come nel finale de Le 120 giornate, in cui le rappresentazioni di violenza, corpo, amore, morte si intrecciano in un sistema di immagini che volutamente vuole creare disagio e provocare una dura reazione negli occhi di chi osserva. Ma certamente il cinema permette allo spettatore di mantenere una distanza, di non essere coinvolto nella drammatica compresenza nello stesso spazio fisico, mentre una masturbazione in scena, una nudità esplicita, un atto erotico, nella compresenza dello spazio teatrale, sicuramente hanno un contenuto conturbante assai superiore.

Lo spazio scenico di Caridad è vuoto e viene abitato dai performer che sono disposti a inizio spettacolo e poi per tutto il resto della replica ai bordi destro e sinistro del palco, in attesa di essere coinvolti.
Lo spettacolo inizia con due schermidori (due campioni paralimpici) in sedia rotelle che si affrontano a tiri di fioretto con un mazzo di rose rosse in grembo mentre una serie di sovrascritte enunciano proprio i dilemmi morali e le considerazioni su quali elementi del pensiero a noi contemporaneo possono essere considerati trasformativi e quali invece mortiferi;  su come l’invocazione biblica della carità sia facile da considerare ma poi resti complessa da mettere in pratica, specie nei casi più controversi e  dilanianti, come appunto il caso del pedofilo criminale.

Come in molti lavori della artista, anche in questo esiste ed è molto presente l’elemento musicale come richiamo ad un soave assoluto, un anelito di perfezione, rimando ad una forma spirituale per l’essere umano.
In questo caso un clavicembalo viene nell’ultima parte portato in scena, proprio a ridosso del monologo con la confessione choc del nobile pedofilo criminale, quasi a contrapporsi, a creare il cortocircuito.
Certamente l’operazione ha una sua intensità e non lascia indifferenti, sebbene dopo molti anni, il codice dell’artista si porti naturalmente in uno spazio concettuale ormai noto e che quindi in un certo qual modo atteso: tranne che per pochi ignari, siamo certi che per la gran parte il pubblico convenuto fosse assolutamente al corrente di potersi trovare dentro uno spazio della rappresentazione con caratteristiche lontane da quelle di una tranquilla messa in scena di uno spettacolo di prosa di derivazione novecentesca.

Resta, sebbene la regista abbia rassicurato che i bambini sono tenuti in uno spazio di massima tutela e non sono al corrente di tanta veemenza scenica, il dilemma su questo specifico punto relativo al teatro come spazio della consapevolezza.
Nell’idea di chi scrive chiunque in scena deve essere consapevole dell’azione e del messaggio a cui sta dando corpo e potersi esprimere quindi sull’opportunità di partecipare o meno alla generazione di un senso che potrebbe avere le caratteristiche che la Liddell ha immaginato in questo caso. Sebbene funzionali a creare un drammatico cortocircuito nell’occhio dello spettatore, è evidente che il tema resta vivo, perché i bambini chiaramente non hanno potuto essere messi nella condizione di valutare compiutamente il senso profondo della loro presenza scenica se non viverla in maniera assolutamente giocosa e fuori da qualsivoglia considerazione di opportunità: sono comparse, come pure alcuni animali che vengono portati innocentemente in scena, invero senza che sia una sconvolgente e inoppugnabile necessità.
Nessuna di queste figure evidentemente subisce alcuna forma di violenza e/o maltrattamento.


Evocazioni ghigliottinesche, processi sommari, azioni fisiche e corpi liberi avvinghiati dentro una serie di tableaux vivant dell’inconscio erotico e legato al rapporto vita morte; della prurigine; della storia dell’arte, come il rimando all’opera di Caravaggio, con la donna che allatta l’anziano, che qui diventano padre e figlia in un ulteriore rilancio sulla morale e sul tema dell’incesto, questo non nuovo alla drammaturgia occidentale anzi presentissimo da Edipo in poi: la creazione muove e smuove queste corde in alcuni casi in modo non specificatamente prevedibile ma per così dire preventivabile, se valgono le considerazioni che si facevano sopra sulla consapevolezza del pubblico.
Tanto che vien quasi da chiedersi se tutto questo “discomfort” non sia arrivato nel tempo a creare una sorta di ideale zona di comfort artistica persino per la Liddell stessa che ormai ne ammanta la persona oltre che il personaggio, ma, tant’è: dubitiamo potremmo vederla in un allestimento tranquillo de Il giardino dei ciliegi, dove tutti restino vestiti e con le mani a posto, e i colpi d’ascia finale non portino a sanguinolenze di sorta.

Per chi invece all’artista non si è mai avvicinato, la proposta artistica resta comunque una sfida sotto molti aspetti, sia visivi che di pensiero, e quindi un esercizio che male non fa e che la comunità felsinea raccoglie, riservando a tutte le repliche il sold out.
È un pubblico che si divide, che discute, che riflette, che non lascia il teatro ma anzi resta e partecipa numeroso anche agli incontri con l’artista: se alla fine tutto questo significa  vivificare il medium, sicuramente questo genere di creazioni evidentemente ha un potere che la prosa in quanto tale pare non avere più, e di questo va dato atto alla Liddell, ormai prossima ai sessant’anni ma che la trasgressione mantiene giovanissima.

 

CARIDAD

testo, scene, costumi e regia Angélica Liddell
con David Abad, Yuri Ananiev, Federico Benvenuto, Nicolas Chevallier, Guillaume Costanza, Angélica Liddell, Borja López, Sindo Puche
coro di laringectomizzati SHOUT AT CANCER Guy Vandaele, Frank Meeus e Andrew Pett
scherma paralimpica Alex Prior (Campione di Spagna in modalità sciabola) e Ayem Oskoz
e con la partecipazione di Emilia Buzzetti, Rebecca Buzzetti, Edoardo Collina, Alessandro Costa, Paolo Fazioli, Laura Gibertini, Monica Guizzardi, Martino Mancinelli, Stefano Polini con Paco, Beatrice Quinzi
luci La Cía de la Luz (Pablo R. Seoane)
paesaggio sonoro Antonio Navarro
realizzazione scene Readest Montajes, S.L.
realizzazione oggetti di scena Francisco García-Calvo Rodríguez
direttore di produzione Gumersindo Puche
traduzione sovratitoli in italiano Silvia Lavina
produzione Iaquinandi S.L, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Festival Temporada Alta Girona, CDN Orleans Centre Val de Loire, Teatros del Canal Madrid
in collaborazione con Aldo Miguel Grompone, Roma
si ringraziano Pentamodena scherma, Eurocolumbus S.p.A., Virtus Scherma Bologna

Angélica Liddell è artista associata del CDN Orleans Centro Val de Loire