VALENTINA SORTE | Eccoci al quarto capitolo di HISTOIRE(S) DU THÉÂTRE, letteralmente Storia(e) del Teatro, un progetto che Milo Rau con NTGent ha commissionato, oltre che a se stesso, ad altri artisti – tre finora – e che ruota attorno alla domanda: «Che cos’è per te il teatro?» o meglio «Qual è la tua storia come artista teatrale?».

Per Milo Rau, nel primissimo capitolo intitolato La Reprise legato a un fatto di cronaca nera avvenuto a Liegi nel 2012, si è trattato di indagare la stretta relazione tra realtà e rappresentazione. Secondo l’artista svizzero la rappresentazione non è imitazione del reale, ma, al contrario, attinge al reale, come fosse un enorme cantiere di lavoro, per dargli un senso, ovvero risignificarlo. Per usare le parole di Kierkegaard: «Se il ricordo ripete il suo movimento all’indietro, la ripetizione ricorda il suo oggetto in avanti. Nella ripetizione c’è l’irrompere di un nuovo che spezza il piano immanente del ricordo, per aprire al passato una dimensione altra». 

Con Faustin Linyekula, coreografo congolese coinvolto nella seconda parte progetto, la riflessione si è spostata sul rapporto tra l’arte performativa e la società che l’ha prodotta e di cui è espressione, tra l’arte e la costruzione di un’identità nazionale, in un intricato e delicato crocevia tra intimità e collettività.  

Liebestod © Christophe Raynaud de Lage

Altrettanto radicale e personale la risposta di Angelica Liddell. In Liebestod, terzo capitolo di questa serie, l’artista spagnola ha esplorato ciò che è all’origine dei suoi lavori – i suoi abissi – e ha costruito “un canto di fulgida sovversione”. Lo spazio scenico viene trasformato in un’arena in cui l’artista (come Juan Belmonte) non deve far altro che toreare, cioè morire. 

L’artista visiva Miet Warlop ha proposto, invece, una sorta di “stress-test” altamente performativo ed emotivo, ovvero una performance che attraverso il meccanismo esasperato della ripetizione fa deflagrare lo spazio scenico, o perlomeno ne misura i limiti. In ONE SONG è vero che non c’è più l’arena di Angelica Liddell, ma il luogo in cui prende forma lo spettacolo, a metà strada fra una palestra attrezzata e un palco da concerto, è come se lo fosse. È uno spazio dove gli artisti come atleti non si risparmiano, dove letteralmente la performance si consuma e li consuma.  

ONE SONG © Michiel Devijver

Già nel 2005 in SPORTBAND/Afgetrainde Klanken l’artista belga aveva sviluppato l’idea di un gruppo di musicisti-atleti con il desiderio e l’urgenza di creare un requiem per il fratello morto, ma questa volta il lavoro scava più a fondo e assume uno sguardo più universale. 

Fin da subito la cornice narrativa è molto leggibile dagli spettatori, ancora prima che inizi lo spettacolo, mentre prendono posto in sala. Ci sono tutti gli elementi della rappresentazione. Nessun assente: degli spalti per il pubblico e un pubblico partecipante, una commentatrice con megafono seduta in cima agli spalti, un cheerleader, gli attrezzi della palestra/gli strumenti musicali e, ovviamente, un gruppo di musicisti-atleti. C’è anche un altro elemento, che si perde in questo quadro iniziale, ma che si rivelerà essenziale lungo tutta la performance: un metronomo. 

Dopo una prima fase di riscaldamento, gli artisti si posizionano: la violinista (Elisabeth Klinck) sale sulla trave e suona il suo strumento, il frontman (Wietse Tanghe) corre sul tapis roulant mentre canta, il tastierista (Willem Lenaerts) si sistema ai piedi della spalliera svedese e saltando suona la tastiera, il contrabbassista (Simon Beeckaert) si stende, supino, su un materasso e pizzica le corde eseguendo faticosi addominali. Infine, il batterista (Melvin Slabbinck) in piedi al centro del palco, suona la batteria, i cui pezzi sono disseminati qua e là. Alle loro spalle, in tribuna, ci sono alcuni supporter che indossano delle sciarpe con slogan olimpici come “citius, altius, fortius” e, infine, in cima siede l’arbitro/cronista (Karin Tanghe). A incorniciare lo spazio dell’esibizione, dentro, ma allo stesso tempo fuori dalla performance, le coreografie del cheerleader (Milan Schudel). Il dispositivo teatrale è fatto. 

ONE SONG © Michiel Devijver

ONE SONG si presenta come una potente metafora emotiva, costruita attorno alla canzone da cui prende il nome. Assume la forma di un match sportivo-concerto dal vivo per parlarci del teatro (e del reale) come di un processo complesso, dove ogni elemento trova il suo posto all’interno di una cornice, la collettività. Parla, in altre parole, di posizionamenti, del proprio posizionamento.

Lo stress-test a cui viene sottoposto questo sistema non sono altro che le prove della vita, i dolori e le perdite che ci segnano più profondamente e ci accompagnano per sempre. Nel caso dell’artista: la morte del fratello. È di questo che parla in modo esplicito il testo della canzone, scritto dalla stessa Warlop: 

Il dolore è sempre qua / Il dolore è come un sasso, nella testa / Muta forma (…) diventa un chicco d’uva. / Nel preciso istante, in cui gli altri tacciono, il chicco esplode eppure (…) resta un frutto. / Il dolore non se ne va (…) si spezza, si rompe, esplode, si piega, si propaga. / Il dolore è come un liquido (…) ci basta che trovi una strada. 

ONE SONG © Michiel Devijver

La canzone si ripete uguale e in modo estenuante per tutta la durata della performance. A dettare il ritmo dell’esecuzione è il metronomo che di volta in volta viene accelerato o rallentato. Gli artisti sono così chiamati a oltrepassare i propri limiti, a immergersi in un bagno di sudore – fisico e metaforico – a trascendere loro stessi, per prendere consapevolezza di sé. Dall’estrema accelerazione si passa all’estrema lentezza: la distorsione regna sovrana e mette alla prova i performer. A un certo punto, dall’alto inizia a gocciolare dell’acqua, rendendo ancora più difficile e pericolosa la loro esecuzione. L’immagine del dolore come un liquido che scorre lungo i muri diventa tangibile. Si potrebbe dire, allora, che anche lo sforzo fisico e il dolore regnano sovrani. Ma non si tratta di un processo autodistruttivo o implosivo, non c’è nessun sacrificio da consumarsi in scena. «Non c’è perversione, non c’è distruzione fisica» – afferma la stessa Warlop.

Il parossismo è nella cornice teatrale e non esce assolutamente da questa. C’è, piuttosto, un senso di comunità che emerge forte: una coralità. ONE SONG è un canto d’addio, è un canto di grande dolore che contiene, però, una voce di speranza. Il gruppo di performer non solo è molto coeso, ma riesce a trasformare il particolare in universale, il personale in collettivo. Quando uno alla volta gli artisti cedono poiché sfiniti e si accasciano sul pavimento, il gruppo viene subito in supporto. L’uno sostiene l’altro in questo ciclo infinito e universale del dolore.  

Senz’altro questo lavoro si inserisce in modo originale nel progetto enciclopedico che Milo Rau ha iniziato a imbastire. Ne arricchisce trama e ordito. Come già per altri artisti, la riflessione sul rapporto tra la realtà e la rappresentazione è centrale. In questo caso, la scena esorcizza il reale, accelera certi processi, ne misura i limiti e le possibilità, e così facendo li porta all’evidenza. Fa deflagrare ciò che nel reale rimane latente e lo fa diventare un atto collettivo, cosciente. Non è un caso che al termine della performance sia proprio il cheerleader – che per tutto il tempo si è mosso sulla soglia della scena, dentro e fuori – a comporre con dei calchi in gesso delle frasi dal senso frammentario. Frammenti di senso.

Dopo tanto rumore, dopo tanta fatica, la voce spezzata, le corde spezzate, gli attori ormai esausti, qualcosa affiora. 

 

ONE SONG – HISTOIRE(S) DU THÉÂTRE IV
concept, regia e scenografia Miet Warlop
con Simon Beeckaert, Elisabeth Klinck, Willem Lenaerts, Milan Schudel, Melvin Slabbinck, Joppe Tanghe, Karin Tanghe, Wietse Tanghe e con Stanislas Bruynseels, Marius Lefever, Luka Mariën
musica Maarten Van Cauwenberghe
testo della canzone Miet Warlop
con la consulenza artistica di Jeroen Olyslaegers
drammaturgia Giacomo Bisordi
costumi Carol Piron & Filles à Papa
suono Bart Van Hoydonck
luci Dennis Diels
produzione NTGent, Miet Warlop / Irene Wool vzw
coproduzione Festival d’Avignon, DE SINGEL (Anversa), Tandem Scène Nationale (Arras-Douai), Théâtre Dijon BourgogneCentre dramatique national (Dijon), HAU Hebbel am Ufer (Berlino), La Comédie de ValenceCentre dramatique national DrômeArdèche (Valenza), Teatre Lliure (Barcellona)
con il supporto di Governo delle Fiandre, Città di Ghent, Tax Shelter del governo federale del Belgio
con l’aiuto di Frans Brood Productions

Visto al Piccolo Teatro Strehler, Milano
giovedì 8 giugno 2023