LEONARDO DELFANTI | È giunto alla sua XIX edizione il festival Opera Prima, dedicato quest’anno alle generazioni in mutazione, guerra e in ricerca di sé stesse,    ospitato dal 15 al 18 giugno a Rovigo. Lungi dal voler giudicare un mondo che sempre più si mostra nella sua frammentata complessità, la direzione artistica di Massimo Munaro ha concentrato tutti i suoi sforzi nella ricerca della consapevolezza, primo e fondamentale passo per la comprensione di un problema. Come da tradizione, l’insieme degli slanci creativi e delle riflessioni sulla contemporaneità è affidata alle carte dei tarocchi, quest’anno quella del Sole.

Creando un ponte generazionale tra chi il teatro ha appena iniziato a farlo e coloro i quali oramai conoscono il sistema nella sua interezza, Opera Prima stimola il dibattito sul senso dello spettacolo attraverso una tavola rotonda diretta dalla rivista La Falena.
Allo stesso tempo, grazie a un insieme di performance diffuse e incontri pubblici, la cittadinanza è stata attivamente invitata a prender parte a quella che Munaro definisce “una festa piena di vita” e che PAC ha seguito nelle giornate di venerdì, sabato e domenica.

La giornata del 17 giugno si apre in Piazza Vittorio Emanuele II con Dunajna del coreografo Roland Géczy. Un gruppo di quattro ballerini mescola musiche del folklore ungherese e dinamiche dell’hip hop riuscendo a coinvolgere il pubblico in una danza tribale dal forte impatto visivo: contact dance, acrobatica e floor work si mischiano a echi tribali in un gioco il cui premio è l’attenzione degli spettatori. I quattro neodiplomati alla Sead-Salzburg experimental dance academy, grazie a un’ottima tecnica e a una solida esperienza nell’uso degli spazi pubblici, riescono a lasciare un segno con una performance che indaga le dinamiche di un’amicizia in scena e riflette sul potere della collettività nelle relazioni umane.

Dalla piazza al teatro tout-court, F I C T I O N S, della coreografa israelo-georgiana Annabelle Dvir, volge lo sguardo alla ricerca di un’autentica definizione di femminilità. Tre streghe in abiti tradizionali, infatti, vivono su un palco vuoto. In un mondo nel quale immaginazione e realtà si mescolano nel tonfo sordo dei corpi, che mai smettono di gettarsi sul pavimento per i trenta minuti dello spettacolo, le donne recitano formule in ebraico, cantano il pop inglese ed emanano suoni gutturali estranianti. Un’esplorazione del corpo performativo femminile intensificata dal sapiente uso dell’illuminotecnica, capace di evocare un’estetica allucinatoria in una drammaturgia solo apparentemente caotica.

Donne che (si) creano e donne che (si) distruggono sono infatti il contenitore dell’esperienza artistica del Women of sounds ensemble. Un tappeto sonoro che fa da tracciato per una scalata verso l’irrazionale il cui obiettivo finale è la tensione – solo a prima vista casuale – di un gruppo che a tratti sembra una band e a momenti stupisce per la prova fisica dimostrata in questo spettacolo panico.

Dall’istinto alla perfezione estetica, la performance-grido del collettivo Motus indaga l’ingiustizia della violenza nell’opera Of the nightingale I envy the fate (Dell’usignolo invidio la sorte). Pensato per uno spazio chiuso, ma in questa sede presentato nel chiostro degli Olivetani, il grido inascoltato di Cassandra, ingiustamente uccisa perché straniera, schiava e adultera muta in una metamorfosi che nulla lascia al caso.
Il lavoro, di cui è possibile leggere una recensione completa, forza la ballerina Stefania Tansini ad abitare la dimensione animalesca dell’usignolo all’interno di una distopica sfilata di moda perfettamente regolata. Luci stroboscopiche, musica elettronica e corpetto su misura sono infatti pensati per offrire agli spettatori, collocati ai due lati della passerella, lo spettacolo di un essere ibrido che vive in una gabbia post-punk in cui il gioco tra chi osserva e chi è osservato si mescola a una drammaturgia in continuo divenire.

L’assoluta artigianalità, ricreando l’immagine dell’usignolo nel gesto e nella voce, abita lo spazio del chiostro nella sua totalità, creando così un effetto estraniante nello spettatore. Dalla contemplazione estetica si passa così all’orrore per la violenza, via via che il sangue si mescola al mucchio di piume da cui sorge un volatile meccanizzato. L’animale politico di Cassandra, che nella tradizione classica affida le sue profezie inascoltate al verso dell’usignolo, fugge da questa macchina perfettamente pensata per anestetizzare. Di lei rimane solo una forma originaria, un canto insurrezionista testimonianza della bellezza poco prima di fronte a noi.

Unico spettacolo di prosa nel corso della giornata, RAP (Requiem Al Poeta) di Cartocci Sonori indaga la rottura generazionale nel segno dell’individualismo del presente. Questo spettacolo-concerto portato avanti da moderni becchini amletici (Pouria Jashn Tirgan e Emanule Fantini) è attraversato dall’ossessiva domanda che molti giovanissimi si pongono: “è possible che noi siamo lo sbaglio in un tempo sbagliato?”.
Due uomini in tuta da tennis si scambiano rime, battute sferzanti e aneddoti di storia della repubblica italiana mescolando sacro e profano in un torrente di frasi che lascia il pubblico senza fiato per schiettezza e maestria.

Per indagare le modalità di un lavoro coraggioso e folgorante, tanto da riuscire ad attrarre lo spontaneo interesse degli adolescenti che passavano casualmente per i Giardini due Torri, abbiamo deciso di intervistare i due autori, Tirgan e Fantini.

Nel vostro lavoro musica rap, spokenworld e spokemusic si mescolano per dare vita a una comunicazione trasversale, in cui il dramma di generazioni diverse si rispecchia attraverso stili differenti, senza mai perderne la cifra comune. Perché vi preme così tanto la commistione di linguaggi?

T. Sicuramente parlare a più generazioni per noi è importante. Noi ci interroghiamo sulle speranze che cambiano nel corso degli anni mantenendo fisso il problema dei nostri coetanei, per poterli riavvicinare al teatro. Ormai viviamo nel tempo delle esperienze mediate, invece il teatro richiede tempo per poter essere elaborato. Questo spettacolo, che si basa su linguaggi poco utilizzati in Italia, cerca di creare un ponte anche grazie alla presenza di un prossimo album (RAP – Requiem Ad Personam) che verrà pubblicato sul web. La speranza è che questo lavoro sia un passo verso la trasversalità e il dialogo tra le generazioni a teatro.

In questo senso colpisce anche la vostra scelta di dare un’altra vita al vostro lavoro. Un’operazione che passa dal teatro al web ma che potrebbe anche essere fruita in forma opposta. Chi è il vostro spettatore ideale?

T. A noi piace pensare a due progetti paralleli, capaci di una loro unicità e unità di pensiero all’interno del formato. Il fatto che non siamo dal vivo ci permette di fare sonoramente cose diverse nello spettacolo. Il tipo di bit che andiamo a utilizzare in scena è volutamente molto essenziale mentre nell’album si possono fare cose più complesse. Sono progetti che hanno una linea comune e allo stesso tempo una loro vita propria. C’è un grosso salto tra la versione registrata e quello sul palco perché lì le cose prendono vita.

F. Anzi, ci piacerebbe riuscire a portare in scena una versione concertistica (RAP – Requiem Ai Posteri) che comprenda alcuni pezzi dello spettacolo e alcuni pezzi dell’album. A noi piacerebbe portarlo sia in spazi pubblici, nei bar e nelle piazze, sia in realtà più trasversali, quali un teatro vero e proprio. Questa performance è nata in formato orale e in quanto tale se una funziona bene in studio e non funziona bene live, allora c’è un problema.

Il fil rouge è comunque capace di affrontare un tema onnipresente nella contemporaneità quale il disagio giovanile, proponendone una lettura non banale. Qual è stato il processo drammaturgico?

T. Per quanto riguarda drammaturgia e regia me ne occupo io, invece la musica è curata da Emanuele. L’idea è nata da alcuni pezzi brevi della durata di tre minuti ciascuno. Io li ho scritti con l’intenzione di creare un canzoniere a cui poi dare una logica e quindi, attraverso l’uso della regia, dare un senso unico alle cose. Quindi drammaturgia e regia si sono un po’ completate a vicenda nel corso della creazione, all’interno delle cinque residenze ottenute col bando Cura. Per noi è stata un’esperienza di montaggio per prova ed errore intorno al concetto di vuoto generazionale.

F. Quello che vogliamo esprimere è questo senso di vuoto che abbiamo davanti, che poi è la vera rottura generazionale per noi.

DUNAJNA

coreografie Roland Géczy
con  Miriam Budzáková, Debora Posada Sanchez, Marlett Araújo, Roland Géczy
musica  Obadu – Betyárleves, Danheim – Tyrfing, Dakha Brakha – Nad Dunaem

F I C T I O N S

coreografie, testo, composizione vocale e progettazione colonna sonora Annabelle Dvir
Creative performers  Layil Goren, Dana Naim – Hafouta, Annabelle Dvir
makeup  Annabelle Dvir
light design  Rotem Elroy, Annabelle Dvir

OF THE NIGHTNGALE I ENVY THE FATE dell’usignolo invidio la sorte

ideazione e regia Daniela Nicolò, Enrico Casagrande
con Stefania Tansini
drammaturgia Daniela Nicolò
suono dal vivo Enrico Casagrande
ambienti sonori Demetrio Cecchitelli
direzione tecnica e disegno luci Theo Longuemare
brano musicale R.Y.F. (Francesca Morello)
props in lattice _vvxxii
abito Boboutic Firenze
una produzione Motus con TPE / Festival delle Colline Torinesi

RAP (REQUIEM AL POETA)

con Pouria Jashn Tirgan, Emanuele Fantini
drammaturgia e regia Pouria Jashn Tirgan
musiche originali  Emanuele Fantini
con il sostegno di Teatro del Lemming, Ilinixarium, Archvio Zeta
produzione Cartocci Sonori
coproduzione Teatro del Lemming