RENZO FRANCABANDERA | È un luglio ricchissimo di eventi all’aperto e anche fuori dalla città per Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse di Genova.
Innanzitutto ritorna Shakespeare by night, spettacolo a stazioni di Emanuele Conte, una produzione della Fondazione, dopo le fortunate repliche della scorsa estate al Parco Villa Duchessa di Galliera e che riparte nel mese di luglio nell’ambito del programma di Le Notti bianche di Liguria, progetto di rigenerazione e promozione dei territori organizzato e sostenuto da Regione Liguria, finalizzato a valorizzare le località dell’entroterra ligure meno frequentate dal tradizionale turismo estivo.
Lo spettacolo raggiungerà quattro borghi, uno in ciascuna delle quattro province della regione: l’ 8 luglio Arcola (SP), il 16 luglio Castelvecchio di Rocca Barbena (SV) il 21 luglio Castiglione Chiavarese (GE) e il 23 luglio Civezza (IM) con un nuovo allestimento immersivo e site-specific; una messa in scena a bassissimo impatto ambientale, nel pieno rispetto delle caratteristiche dei luoghi che ne diventano, a tutti gli effetti, scenografia naturale.

Ma c’è anche un altro progetto site specific che sta prendendo avvio proprio in questi giorni: si tratta di Orlando d’amore furioso, produzione 2023 di teatro immersivo a stazioni con testo e regia di Conte, che vede protagonista la compagnia del Teatro della Tosse.
Nell’anno di Genova Capitale del libro, uno spettacolo ispirato a uno dei più grandi capolavori della letteratura, in una lunga passeggiata notturna tra panorami e scorci del parco del tutto inconsueti, per riscoprire insieme la stupefacente modernità di Ariosto e dei suoi personaggi, smarriti nel vivere alla continua ricerca di qualcosa che forse non troveranno mai.

Abbiamo intervistato Emanuele Conte.

Emanuele, è un’estate ricca di eventi, molti dei quali all’aperto in contesti naturali. Come si inserisce questa scelta nella tradizione poetica della vostra politica teatrale?

Come diceva Emanuele Luzzati “il teatro si può fare ovunque, anche in teatro”. Così, chiuse le porte dei teatri di Sant’Agostino e del teatro del Ponente, la Tosse da molti anni abbandona lo spazio neutro delle sale teatrali per “abitare” luoghi reali: castelli, boschi, interi paesi, spiagge, fabbriche dismesse.
Una formula di teatro totalmente immersivo, in continuo mutamento, senza l’ausilio di posti a sedere né palcoscenici, dove gli spettatori, spostandosi in piccoli gruppi, seguono una narrazione fatta di monologhi o dialoghi a più voci.

Questi spettacoli, nati quarant’anni fa per “sfangare” la stagione estiva nei mesi in cui i teatri si svuotano, hanno rappresentato una fonte di incasso indispensabile per la sopravvivenza di una compagnia che nel 2025 compirà cinquant’anni di attività ma, nel tempo, ci hanno rivelato anche una nostra vocazione naturale, un tratto distintivo in continua crescita che pure per il pubblico è ormai una tradizione, un momento atteso per reincontrarsi all’aperto, per mantenere e incrementare una relazione intensa e costante.

Partiamo da Shakespeare nei borghi: in quale modo è possibile rinnovare i classici in contesti di questo genere? Quale tipo di risposta viene dal pubblico e quale tipo di coinvolgimento prevedete?

Non so se i cosiddetti classici abbiano bisogno di essere rinnovati. Lo scopo dei nostri spettacoli estivi è anche quello di raggiungere un pubblico largo ed eterogeneo, che comprenda anche spettatori meno avvezzi alle sale teatrali, con l’idea che il teatro sia un valore di tutti, che a tutti debba essere accessibile. Naturalmente, dati i contesti, i testi devono essere scritti o riadattati specificamente per questi utilizzi, quindi anche i classici devono trovare una forma nuova, in modo che possano continuare ad aiutarci a osservare il presente da un punto di vista diverso: grazie alla profondità psicologica dei personaggi scespiriani possiamo esplorare i sentimenti umani, che in fondo seguono sempre le stesse dinamiche. In Shakespeare by night abbiamo dato voce a personaggi meno conosciuti o addirittura marginali dei drammi del Bardo.
Certamente il rapporto che si crea fra l’interprete e lo spettatore, in questa formula così intima, permette un approfondimento che la presenza della quarta parete, in un teatro da 500 o 10.000 posti non consentirebbe. Recitare con un filo di voce, incontrare lo sguardo ravvicinato di un bambino rappresentano un’esperienza unica anche per gli attori.

Ma quest’anno c’è anche il progetto out-door su Ariosto che parte proprio in questi giorni. Come siete arrivati a questa scelta e in quale direzione si muovono gli allestimenti?

Mi ricordo che ero giovanissimo quando Tonino e Lele ragionavano di un allestimento dell’Orlando furioso ma era ancora troppo vivo il ricordo della messa in scena di Luca Ronconi, che certamente è uno degli antenati dei nostri spettacoli e che oggi si definiscono site-specific. Ora il tempo passato ci allontana da quell’ingombrante predecessore e ci permette di affrontare Ariosto con maggiore disinvoltura. Dopotutto, io di quello spettacolo ho solo visto la versione televisiva e la strada che abbiamo intrapreso per questo nuovo allestimento è completamente diversa.

L’Orlando ha continuato ad aleggiare per alcuni anni, senza mai palesarsi in un’idea precisa su quale lettura dare a un poema impossibile da raccontare per intero. La guerra alle porte dell’Europa è stata la scintilla.
Abbiamo cominciato a chiederci se davvero Orlando fosse impazzito per l’amore di Angelica o se, piuttosto, non fosse proprio la violenza cieca della guerra a impedire all’infelice protagonista di vivere il più naturale dei sentimenti. Cosi sono nati sette testi che, pur partendo dai versi di Ariosto, ci portano a parlare di temi fortemente contemporanei come la guerra, appunto, l’amore, che non poteva certo mancare, ma anche il desiderio della soldatessa Bradamante di vivere da uomo, o di Rodomonte di essere riconosciuto non come mostro ma come uomo che ha fatto della guerra il suo mestiere.
Quella che potrebbe sembrare una pericolosa frammentazione drammaturgica ci consente, al contrario, di usare tutti i generi, dalla commedia alla tragedia, alla farsa, al racconto per immagini, dando vita a una drammaturgia nuova, simile a un collage composto da tutte le emozioni umane.

Questi due progetti portano all’attenzione dello spettatore tematiche attuali come la sostenibilità ambientale ma anche il contesto bellico e i conflitti fra esseri umani. Pensi davvero che la cultura sia un vettore di cambiamento per le persone?

La cultura lo è certamente!
Nella nostra visione il teatro può rappresentare uno stimolo alla riflessione e al confronto.
Personalmente non amo il teatro a “tesi”, cioè che ha lo scopo di proporre una visione univoca, preferisco che uno spettacolo mi suggerisca domande piuttosto che risposte.
Per quanto riguarda il tema della sostenibilità ambientale, posso solo dire che i nostri spettacoli, non usufruendo di palcoscenici, gradinate e altri orpelli che sarebbero necessari a un teatro più convenzionale, riescono a inserirsi in qualunque contesto, con garbo, oserei dire con educazione. Dopotutto penso che la buona educazione sia la prima forma di cultura. Il luogo in cui si va a inserire una scena deve essere rispettato, valorizzato, così potrà anche lui diventare protagonista.

Pensi che questo genere di eventi sia una evoluzione progressiva della forma spettacolare? Le persone sembrano più propense a partecipare attivamente a spettacoli e manifestazioni partecipate, spesso all’aperto, in cammino. Secondo te perché?

Forse lo spettacolo dal vivo sta conoscendo una nuova giovinezza perché risponde a una atavica necessità dell’uomo: la socialità, la condivisione. Il rapporto ravvicinato performer/spettatore credo sia la vera novità. Il teatro, ridisegnandosi in luoghi alternativi riprende la sua natura di rito collettivo, quasi primordiale.

E poi questo fare teatro nelle aie e nei cortili non è una cosa nuova: le avanguardie degli anni ’60 e ’70 avevano tracciato una via. Negli ultimi anni però, uno spasmodico ricorso alla tecnologia, ad allestimenti sempre più complessi, talvolta pomposi rischiano di allontanare gli spettatori. Io stesso, che per molti anni ho utilizzato spesso le videoproiezioni, ora sento il bisogno di un teatro fatto di corpi, voci e testo. Un teatro più umano, più reale, di cui anche gli spettatori si sentano parte, non solo osservatori.

Cosa deve fare un teatro della contemporaneità nel progettare politiche culturali per il domani?

Innanzitutto dovrebbe essere sostenuto da una riforma dei criteri ministeriali che non premiasse solo i più forti e che tenesse conto delle diverse caratteristiche dei territori in cui i teatri operano. Che ascoltasse le istanze del presente e stimolasse la crescita di nuovi talenti e professionalità.
Dal canto nostro cerchiamo di essere ricettivi ai cambiamenti della società, evitando di rincorrere le mode del momento e mantenendo la nostra unicità.
Il conformismo culturale è lo spettro che da sempre il Teatro della Tosse cerca di evitare, anche facendo scelte coraggiose, a volte al limite della ragionevolezza, senza fermarsi davanti alle difficoltà, ma anzi traendone nuovi stimoli.
Ricordandoci sempre che il nostro primo azionista è il pubblico, sia quello consolidato nel tempo sia quello che ancora in un teatro non ci è mai entrato.