ELENA SCOLARI | La Biennale Teatro 2023 si è composta di numerose performance anche diffuse per la città di Venezia, di varie letture – aristocraticamente chiamate mise en lecture – dedicate ai selezionati della sezione College e di alcuni spettacoli veri e propri. In questo capitolo del reportage di PAC rendiamo conto di due di questi: Hamlet dello svizzero Boris Nikitin e En abyme di Fabiana Iacozzilli.

Nikitin è stato in scena personalmente (e sobriamente) con Sul morire e se ne trova racconto qui, in Hamlet è invece autore e regista di un lavoro che vede sul palco Julia*n Meding (l’asterisco in mezzo al nome non è scelta di chi scrive) con l’ensemble barocco Der musikalische Garten. Scarpe da ginnastica (ormai frequentissime), felpa nera, jeans attillati, t-shirt nera della popband tedesca Die Heiterkeit, unghie color puffo, maschera di lupo, Meding recita (in tedesco) con un’affettazione talmente marcata da risultare prima volutamente insistita poi irritante. Si rivolge direttamente alla platea e dichiara “Questo non è uno spettacolo teatrale. Non è neanche una performance. Questo non è un concerto. Questa non è la vita vera. E questa non è la realtà”. Ecco. Ci siamo, provocatorie affermazioni-manifesto che di provocatorio non hanno niente ma chiariscono le posizioni: io non definisco quello che sono qui a fare, in un teatro, nego uno stato di cose, dico che non mi interessa cosa pensiate e comincio un gioco tanto frusto quanto compiaciuto.


Per fortuna Nikitin dice anche che “Hamlet non riadatta il testo shakespeariano ma se ne appropria”. Sulla prima metà dello statement il regista può stare sereno: mai – nelle sfiancanti due ore passate nel Teatro alle Tese – ci ha sfiorato il pensiero di essere davanti a una riscrittura di Amleto. Sulla seconda metà, invece, dovrebbe essere il testo originale – se potesse parlare – a dire la sua.
Il flebile aggancio si riduce a una pretestuosa riflessione su cosa sia realtà e su come si possa, forse, ribaltare; così come Amleto si finge pazzo per poter dire il vero e rifiuta la situazione, così Meding la contesta. Contesta i piccoli paesi svizzeri rovinati dai centri commerciali e da architetture nefaste, contesta il luogo dove si trova, lo sguardo altrui, contesta i concetti di vecchiaia e malattia della contemporaneità. Ma, in buona sostanza, questo atteggiamento rimane nelle intenzioni teoriche dell’autore, non basta certo dire questo non è uno spettacolo per porsi in una contro-realtà. Senza scomodare il sottile ed elegante surrealismo di Magritte.
“Il protagonista si impegna in un tour de force in cui mette a nudo se stesso, il proprio corpo, la sua biografia agli occhi del pubblico. È Amleto? O è anche Meding? O è tutto soltanto un gioco?”, afferma Nikitin. Il tour de force è anche nostro, ma il problema vero è che purtroppo la risposta più sincera alle domande di cui sopra è Chi se ne importa? Questa deriva autobiografica che sta invadendo il teatro degli ultimi anni, trascura completamente di considerare se tutte queste vite personali – esibite, riscritte, raccontate, rimestate – possano svegliare un qualunque interesse per lo spettatore.
La iattura dell’autofiction, a cui si è arrivati anche grazie alla sovralimentazione narcisistica che dobbiamo ai social media, ha prodotto la convinzione che i fatti propri debbano essere avvincenti come un thriller di Stephen King anche quando si riferisce di essersi rasati capelli e sopracciglia. Lo zeitgeist di oggi non è più nemmeno quello del tinello di casa – dove poteva capitare l’accidente di incontrare qualcuno – ma è ormai ridotto al ripostiglio.

Il performer autonegantesi tale, Meding, è anche musicista elettronico e durante il non-spettacolo esegue alcune non-canzoni di Uzrukki Schmidt alla chitarra, che qua e là potrebbero anche essere spiritose, tra il punk e il demenziale: “invitami nel tuo congelatore”, cose così. Meno spiritosi sono invece i lunghissimi filmini di famiglia proiettati su grande schermo con la mamma che gioca a baseball sotto lo sguardo dei bambini, e un altro straziante video (curati da Georg Lendorff, Kai Mayer) di vecchi malconci ricoverati in un istituto. Mentre non succede null’altro in scena. E ogni volta ho creduto che si trattasse del finale ma no: Nikitin ce ne regala almeno un terzo, una ermetica parabola su una coppia rinchiusa in una torre intorno alla quale volano corvi.
La presenza dell’Ensemble barocco Der musikalische Garten è poco sfruttata, nemmeno per creare un contrasto formal-musicale che avrebbe potuto poco poco rianimare la circostanza. L’Amleto di Elsinore aveva un problema universale su cui ancora oggi ragioniamo, dopo secoli. Non scherziamo.

Nonostante l’immersione, con En abyme invece ci si solleva. Nonostante nel testo di Tolja Djoković si respiri – sott’acqua – un’aria un po’ angosciantella, comunque si gode dell’idea registica di Iacozzilli, che può apparire “in costruzione” ma è invece rigorosa – dopo lo sfortunato Una cosa enorme, presentato ancora a Venezia nel 2020 – e soprattutto della esperta recitazione dei quattro interpreti Simone Barraco, Oscar De Summa, Francesca Farcomeni, Evelina Rosselli, cui si aggiunge la giovanissima Aurora Occhiuzzi.
Djoković è cresciuta a Roma ma vive a Milano e lavora nel teatro come attrice e autrice dal 2009, nel 2019 fonda la compagnia tostacarusa per cui è drammaturga e regista. Il testo messo in scena alla Biennale è un collage di quadri in cui si ispirano sensazioni, il tratto comune – metaforico  o meno – è la discesa negli abissi: quella vera del documentario girato da James Cameron sceso fino alla Fossa delle Marianne, raccontato da Rosselli e suggerito da immagini sub in un vecchio televisore; quelle simboliche di una coppia padre-figlia (De Summa, Occhiuzzi) che fatica a scalfire la superficie del loro rapporto e di una donna che nuota, in una piscina che vediamo proiettata sul grande schermo/diaframma, entrando in contatto con la propria profondità.
Schermo/diaframma anche perché squarciato da un taglio fontanesco che rompe l’unidimenzionalità.


La metafora dell’immersione non è sconvolgente però la simultaneità dei piani narrativi, cui si aggiunge quello descrittivo rappresentato dalle parti di copione scritte proprio con l’idea che le situazioni siano delineate tramite la lettura delle stesse, crea una geometria ordinata e rassicurante, anche dal punto di vista visivo nella divisione degli spazi sulla scena. Le linee che gli attori tratteggiano entrando nel fuoco centrale o mettendosi di lato, a fare da perimetro, con presenza ‘laterale’ formano un reticolo che ha una sua armonia ritmica. E avere le idee chiare su come muovere gli attori già è molto.
Le situazioni si susseguono ma una non segue causalmente l’altra. In questi abissi anche il testo fluttua tra momenti troppo teorici per essere vivi e altri più intensi per liricità e ben resi dalla sicura recitazione di tutti; Farcomeni, per via del ruolo a metà tra personaggio e voce narrante, può incarnare con maggior forza i pensieri che più affondano nella comprensione di sé.

Non saprei dire se – al momento – vadano più di moda le cuffie o le videoproiezioni, in teatro. Alle prime non paghi la busta paga e le seconde “arredano”, come avrebbe detto la mia nonna. Però più ne metti sulle orecchie e ne vedi più risulta chiaro quando hanno un senso drammaturgico e quando no. Nel caso di En abyme il video (regia Raffaele Rossi, Nicolas Spatarella e Fabiana Iacozzilli) girato nella piscina facilita senz’altro la creazione di un’impressione ovattata, porta lo spettatore in una scatola acquatica trasparente dove si può scegliere, di sequenza in sequenza, da quale parte stare.

Vedremo quale sarà la direzione che prenderà la prossima Biennale Teatro, nell’auspicio che torni a portare a Venezia registi e spettacoli non ancora avvistati in altre più deste programmazioni italiane (l’Istituzione Biennale ne ha senz’altro i mezzi) e tornando a essere un’occasione di scoperta teatrale, che superi la piacevolezza della cornice lagunare, quella sì, sempre spettacolare.

HAMLET

di Boris Nikitin
ideazione, testo, regia Boris Nikitin
con Julia*n Meding
canzoni Uzrukki Schmidt
ensemble barocco Der musikalische Garten
disegno sonoro Adolfina Fuck
video Georg Lendorff, Kai Mayer
scene e costumi Nadia Fistarol
disegno luci Benjamin Hauser
direzione tecnica Anahi Perez e Benny Hauser
produzione It’s The Real Thing Studios
commissionato da Kaserne Basel, Gessnerallee Zürich, La Vilette Paris, Onassis Center Athens, Ringlokschuppen Ruhr, Münchner Kammerspiele, HAU – Hebbel am Ufer Berlin
con il supporto di Theatre/Dance Committee of the Cantons of Basel-Land and Basel-Stadt, Ernst Göhner Foundation, Pro Helvetia, Migros Kulturprozent, Kunststiftung NRW

 

EN ABYME

di Tolja Djoković
regia Fabiana Iacozzilli
con Simone Barraco, Oscar De Summa, Francesca Farcomeni, Evelina Rosselli
e con Aurora Occhiuzzi
spazio scenico Giuseppe Stellato
costumi Chiara Aversano
disegno luci Omar Scala
musica e disegno sonoro Tommy Grieco
regista assistente Cesare Del Beato
assistenti ai costumi Valentina Cerasuolo, Fabiana Amato
regia video Raffaele Rossi, Nicolas Spatarella e Fabiana Iacozzilli
crediti del video direttore della fotografia Francesco Savaglia
fonico video Alberto Mancini
assistente operatore Fiamma Olivieri
assistenti scene set Francesco Pepe, Fabio Cosimo
attrezzeria set Maria Esposito, Maria Pia Esposito Papa
trucco Cristina Correra
con Oscar De Summa, Francesca Farcomeni, Aurora Occhiuzzi e con Rino De Martino, Sofia Rumolo, Annachiara Salzano, Virginia Puzo
produzione La Biennale di Venezia, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Lac – Lugano Arte e Cultura, Cranpi, Elsinor
produzione esecutiva Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini con il supporto di carrozzerie n.o.t.; Fivizzano27
si ringrazia A. S. D. Scuola Nuoto Vomero; Casa Donelli
Vincitrice del Bando Biennale College Teatro Drammaturgia Under 40 (2021-2022)

Biennale Teatro, Venezia | 28-29 giugno 2023