ELENA SCOLARI | Dopo l’edizione zero dell’autunno 2021, il Centro di Produzione Accademia Perduta/Romagna Teatri e ATER Fondazione confermano l’interesse per la nuova drammaturgia italiana e hanno appena realizzato la seconda edizione di Colpi di scena – Sguardo nel Contemporaneo: una proposta culturale che si alterna allo storico Festival dedicato al Teatro Ragazzi. Dal 26 al 29 settembre, 19 compagnie ospiti, affermate ed emergenti, hanno presentato a Forlì i loro lavori, anteprime, studi e prime nazionali. PAC ha presenziato alla ricca prima metà di festival e qui comincia il diario di un viaggio teatrale tra molte novità, qualche conferma e alcune sorprese.

Andare a un festival per due giorni e vedere dieci spettacoli è un po’ come mettersi alla finestra e vedere passare idee, linguaggi, correnti, si guarda il panorama e si sente l’aria che tira. E con buona pace dei senior cartacei che periodicamente annunciano la morte dello spettacolo dal vivo, i parametri vitali del teatro italiano sono invece incoraggianti. Per inciso, è in effetti abbastanza curioso che l’ultimo dibattito acceso si sia svolto su carta (vd. La lettura del Corriere della Sera), luogo che ormai da anni dedica sempre meno spazio al teatro ma se si tratta di un necrologio le colonne si trovano. Certo le malattie, in scena, ci sono, ma confidiamo che siano malanni passeggeri e che la salute di molti contagi e batta gli acciacchi di alcuni.

E proprio intorno a una malattia ragionano due degli spettacoli più interessanti visti a Colpi di scena: Album di Kepler-452 e Il grande vuoto di Cranpi parlano del morbo di Alzheimer, in modo colloquiale e confidenziale il primo, in maniera più metaforizzante il secondo. Sono spettacoli tristi? Sì e no. Entrambi trovano una via salvifica per offrire allo spettatore una profondità di pensiero che solleva e non affossa.


Album vede Nicola Borghesi in scena, solo, aggirarsi tra i cerchi concentrici irregolari in cui il pubblico è stato disposto, su sgabelli, poltrone, divani; è una disposizione che favorisce la sensazione di essere stretti intorno a qualcosa, un nucleo che percepiamo ma che continua a sfuggire così come non è fissa la posizione dell’attore, che àncora il suo monologo ad alcuni elementi: uno scaffale di libreria, una televisione, una lavagna luminosa, una tavola apparecchiata, un giradischi. I Kepler sanno come catturare l’attenzione dello spettatore e la storia comincia come una favola, nel Mar dei Sargassi: tutte le anguille del mondo nascono, si riproducono e muoiono lì, nelle acque tra le Bermuda e le Azzorre. Durante la vita migrano, fanno viaggi di decine di migliaia di chilometri per raggiungere fiumi e torrenti ma quando raggiungono la maturità sessuale (ci mettono 15/20 anni) riprendono la via marina per i Sargassi, lì si accoppiano e lì muoiono. È un gran bell’inizio di racconto.
Qui il primo gancio: noi umani siamo sempre in grado di ritrovare la strada di casa? In tarda età, se ci colpisce quel male, può darsi di no.
Le pagine di Album si sfogliano poi secondo una geografia di città italiane ed estere toccate dalla compagnia dove sono state raccolte storie, opinioni, memorie. La memoria è ovviamente un punto centrale: come funziona, come si allena, come si recupera, cosa succede quando la si perde. Una domanda particolarmente bella: dove finiscono i ricordi dimenticati?
Il testo – scritto da Borghesi con Enrico Baraldi e la collaborazione di Riccardo Tabilio – si snoda alternando momenti di narrazione più distaccati – la faccenda delle anguille, la recente alluvione in Romagna, le domande dei test medici per indagare i sintomi della malattia – ad altri in cui prevale la tensione emotiva legata a interrogativi personali posti ad alcuni spettatori: qual è il tuo primo ricordo d’infanzia, la canzone preferita da tuo padre… È giusto che in uno spettacolo sui ricordi e sullo sgretolarsi di questi ci si commuova, le emozioni non vanno sopravvalutate ma nemmeno trascurate, e in Album gli autori costruiscono per gradi una griglia di ragionamento, costituita anche dal modo in cui il discorso procede, che equilibra i picchi sensibili.
Altri ganci tematici sono il paragone tra i ricordi dei malati che man mano vengono sommersi da un fango di oblio e il fango che ha travolto gli oggetti degli alluvionati; oppure ancora lo sgomberare le case delle persone care fino a vuotarle: le case vuote hanno un suono e quel suono diventa la musica della canzone preferita da un padre  – Le plat pays di Jacques Brel o Dance me to the end of love di Leonard Cohen – o il liscio ballato nella festa allestita in palestra per gli abitanti colpiti dall’alluvione. Questi collegamenti mantengono una struttura razionale che “salva” dal rischio dell’eccesso di sentimento. Borghesi è parte di questa struttura ed è esso stesso un perno, un po’ la regge e un po’ si fa reggere.


Lo spettacolo ha debuttato al festival di Pergine nello scorso luglio ed è dunque alle prime repliche, serve sfoltire qualcosa, soprattutto nella seconda parte in cui si sommano alcuni finali aggiungendo materiale non sempre necessario a un carico già sostanzioso.
La scrittura è fluida e ben montata nei passaggi che si inanellano in maniera naturale, benché pensatissimi; caratteristica peculiare del gruppo: lo stile recitativo simula lo sgorgare ‘in diretta’ di pensieri e concatenamenti. Teatralmente c’è ancora qualche nodo da sciogliere ma Album è forse lo spettacolo più “adulto” dei Kepler, che trovano un modo maturo di indagare questioni delicate e dolorose con una consapevolezza piana, intelligente proprio perchè problematica.

Fabiana Iacozzilli con la dramaturg Linda Dalisi firma per Cranpi la regia di un lavoro il cui maggior pregio è l’idea poetica e teatrale forte intorno a cui gira Il grande vuoto: l’anziana donna protagonista è stata un’attrice, ora è malata di Alzheimer e l’unica cosa che ricorda precisamente è l’aneddoto che continua a ripetere ai figli estenuati, durante un pranzo piuttosto complicato: (cito a memoria) “Portami la mia matrioska, quella dorata. È bella, vero? L’ho comprata a San Pietroburgo, quando la mia compagnia venne invitata dal grande teatro della città per mettere in scena il mio cavallo di battaglia, Re Lear, insieme a Ciro Immobile”. La signora fa un po’ di confusione con i nomi degli interpreti ma ricorda perfettamente il monologo dell’opera che comincia con Soffiate, venti, fino a farvi scoppiare le guance! E allora Iacozzilli la fa diventare Lear.
I figli allestiscono una scena casalinga, si mettono i costumi (il figlio maschio Piero Lanzellotti veste la maglia di Immobile), avviano grandi ventilatori per il vento, fanno sedere la madre su un trono e le fanno recitare quei versi.

ph. Tiziana Tomasulo

È un finale che unisce l’amore per una madre che si sta perdendo e l’amore per il teatro. La tragedia forse più cupa di Shakespeare, in cui si parla di un padre che impazzisce, ripudiato dalle figlie, è qui ribaltata per diventare un atto di gratitudine proprio da parte dei figli, un regalo di rappresentazione con lo scopo di dare corpo alla memoria rimasta più cara,  quella legata a una finzione.

Il grande vuoto è uno spettacolo che dispiega mezzi non indifferenti, scenografie imponenti (a cura di Paola Villani), tantissimi oggetti e uno schermo/striscia posto in alto, sul quale viene proiettato il titolo gigante due volte (forse una di troppo) e che servono a mostrare le immagini raccolte da telecamere poste all’interno della casa dove vive la donna, per poterla controllare.
Vado a ritroso nell’analisi perché conta molto l’immagine della chiusa, che mette una luce particolare su tutto il tempo precedente. L’inizio, infatti, è molto spassoso: intorno a una piccola vecchia utilitaria trafficano marito e moglie, Ermanno De Biagi e Giusi Merli, entrambi ironici, scanzonati, vecchi compagni complici di distrazione e sbadataggine, tra arance che rotolano giù dal palco e pasticcini vietati per il diabete. Dopo questo prologo l’uomo scompare (muore ma non viene detto esplicitamente) e la scena diventa la sala da pranzo di casa, i figli Francesca Farcomeni e Piero Lanzellotti – la prima giustamente nervosa ma un po’ spigolosa nei toni, il secondo condiscendente ma poco incisivo – fanno visita alla madre e su una lunga tavolata che segna la distanza emotiva che si creerà tra i tre si svolge un pasto che man mano rivela sempre più chiaramente l’offuscarsi della mente della donna nella ripetizione continua di quel fatto accaduto in Russia. Il racconto del ricordo si ripete come si ripetono le battute nelle prove, altro rimando interno al teatro. La non autosufficienza è ufficialmente provata dalla presenza della badante Mona Abokhatwa, sul palco per la prima volta ma convincente e sicura. Il pranzo, scena centrale nello sviluppo temporale dello spettacolo, è un poco dilatata e in qualche momento la mano della regia non è lucida nel guidare gli attori.

La sovrabbondanza di cose, di oggetti, qui come in Album, è il rimando più diretto a tutto quello che agli oggetti si appiccica: idee, ricordi, sorrisi, persone, momenti, suoni, azioni. Quando le cose si buttano si crea uno spazio, ma si butta sempre anche un granello di significato che quella cosa portava su di sè.
Quel vuoto non si potrà colmare e forse nemmeno si potrà trasformare rabbia e dolore in bellezza, come è dichiarato nello spettacolo di Iacozzilli. Ma in arte sì.

ALBUM

a cura di Kepler-452 (Nicola Borghesi e Enrico Baraldi)
in scena Nicola Borghesi
con la collaborazione di Riccardo Tabilio
ideazione tecnica Andrea Bovaia
coordinamento Roberta Gabriele
progetto vincitore del bando Daily Bread nell’ambito del progetto europeo Stronger Peripheries: a Southern Coalition
in coproduzione con Pergine FestivalPro Progressione L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino
con il sostegno di IntercettAzioni – Centro di Residenza Artistica della Lombardia
Residenza Artisti nei Territori Masque Teatro

IL GRANDE VUOTO – anteprima

uno spettacolo di Fabiana Iacozzilli
dramaturg Linda Dalisi
performer Ermanno De Biagi, Francesca Farcomeni,
Piero Lanzellotti, Giusi Merli 
e con Mona Abokhatwa per la prima volta in scena
progettazione e realizzazione scene Paola Villani
luci Raffaella Vitiello – musiche originali Tommy Grieco
suono Hubert Westkemper – video Lorenzo Letizia
fonico Jacopo Ruben Dell’Abate
aiuto regia Francesco Meloni
collaborazione artistica Marta Meneghetti, Cesare Santiago Del Beato
foto di scena Laila Pozzo
produzione CranpiLa Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello,
La Corte Ospitale, Romaeuropa Festival
con il contributo di MiC – Ministero della Cultura
con il sostegno di Accademia Perduta/Romagna Teatri, Carrozzerie n.o.tFivizzano 27, Residenza della Bassa Sabina, Teatro Biblioteca Quarticciolo