ELENA SCOLARI | Quale argomento è più eterno della morte? Potremmo rispondere la vita ma – fino a prova contraria – quella nella forma che conosciamo è qualcosa di finito; il mistero inconoscibile nell’aldiqua surclassa ogni tema a mani basse. Vince sempre lei, alla fine. In Bretagna ci sono bellissimi complessi parrocchiali detti Enclos paroissiaux (recinti parrocchiali) che ospitano sempre un ossario, all’esterno, le scene scolpite nella pietra collegano il mondo dei vivi al regno celeste e ricordo un pannello in cui sotto l’immagine sinistramente trionfale della mietitrice campeggiava la massima ‘Je vous tue tous‘ (vi uccido tutti).
Comprensibilmente, della triste signora in nero si parla il meno possibile, ella non si presta a chiacchiere che mettono allegria, no. Eppure.
Eppure se la nostra cultura non fosse ormai affetta dalla sindrome dello struzzo dovremmo parlarne molto per temerla meno. Se fossimo in Messico, per esempio, la affronteremmo con uno spirito completamente diverso: Los dias de los muertos sono una festa sentita, profonda, colorata e che insegna molto sul rapporto con la morte a noi europei spaventati. In quei giorni gli spiriti dei defunti tornano a far visita ai propri familiari, e tutti (nelle case ma anche nelle piazze, nei negozi, negli alberghi, nelle edicole, in ogni più piccolo bugigattolo) allestiscono un altare, detto ofrenda, sul quale i parenti pongono tutto ciò che più amava il proprio caro trapassato: cibo, musica, fiori, oggetti preferiti, perché il suo breve soggiorno sia il più piacevole possibile e – soprattutto – perché si ravvivino la persona mancata e il suo ricordo con ciò che la rendeva felice.


I messicani entrano al campo santo con i mariachi, vendono i churros ai bambini che scorrazzano allegri tra le tombe addobbate di favolose decorazioni ritagliate nella carta colorata. Se invece di recarci nei nostri cimiteri mesti e gonfi di mancanza, ci andassimo a suon di musica, mangiando leccornie per far festa insieme a chi non è più con noi nel corpo ma lo è nella mente, non faremmo miglior cosa, per noi e per loro?

Ci manca un rito condiviso che non si consumi solo intorno all’assenza e all’inevitabile tristezza ma anche alla comunanza di un dolore che, se messo in comune, pesa meno. Teatro dei Borgia con Antigone. Cerimonia con canzoni, cerca di fare proprio questo: riunire gli spettatori proprio intorno a un rito, una cerimonia funebre familiare che è fatta anche di ricordi buffi e soprattutto di un sentire collettivo che alleggerisce il dramma di ciascuno.
Il pubblico si raduna all’ingresso del Cimitero Monumentale di Bergamo, gli attori arrivano  in fila indiana (Elena Cotugno Christian Di Domenico con i musicisti Luna D’Intino e Sabino Rociola), suonando, li seguiamo dentro al cimitero fino a un arco di legno, davanti al quale Lulù e lo zio ci invitano a partecipare alla commemorazione dei loro familiari, se vogliamo possiamo prendere una mascherina dal cesto e scriverci sopra il nome del nostro morto prima di attraversare la porta. (La mascherina spiega il motivo per cui il CTB di Brescia coproduce lo spettacolo nell’ambito di “Bergamo e Brescia capitali italiane della cultura 2023”, città nominate per essere state le più colpite dall’epidemia di Covid-19).
I quattro personaggi sono vestiti in maniera particolare (costumi curati da Elena Cotugno come la drammaturgia): lei pantaloni di pelle e un golfino a maglia celeste su cui sono cuciti all’uncinetto orecchini, bottoni, spille… come un album; lui, lo zio, indossa un cappotto e scarpe eleganti ma è senza pantaloni, si vedono i calzini; i due giovani hanno l’uno un vecchio giubbotto di jeans con il collo di pelo di alcune taglie più grande e l’altra pantofole pelose e tiene sempre in mano un unicorno di peluche. L’intenzione è dare l’idea di persone non del tutto reali, un po’ fiabesche, tranne che per lo zio Christian Di Domenico l’effetto è però di un abbigliamento tendente al trash che dà più un senso di povertà che di irrealtà.

Perché Antigone? Perché anche in questo lavoro, come nella trilogia La città dei miti con Medea, Eracle e Filottete, Teatro dei Borgia individua un’analogia tra un personaggio della mitologia classica e un suo corrispettivo contemporaneo, un’icona urbana, metropolitana, mediatica; qui Antigone rappresenta tutte le persone che non hanno potuto seppellire i parenti o gli amici morti di Covid perché i funerali erano vietati. Antigone è la sorella di Lulù, raccontata e ricordata da Elena Cotugno nella parte di Ismene mentre Di Domenico “lo zio” è Creonte.
La cerimonia di famiglia comincia con il ricordo, da parte di Ismene/Lulù, dei due fratelli, nella corrispondenza con Sofocle si tratta dei gemelli Eteocle e Polinice – nello spettacolo morti insieme in un incidente stradale, nella tragedia si danno la morte a vicenda – definiti “il buono” e “lo stronzo”. In realtà Polinice ha sì combattuto contro i suoi concittadini unendosi a chi assediava Tebe ma lo ha fatto perché Eteocle non ha rispettato il patto di alternanza “regale” che li avrebbe dovuti vedere sul trono un anno ciascuno. Polinice si è dunque sentito tradito e qualche ragione ce l’aveva. ‘Stronzo’ e ‘buono’ sono quindi una semplificazione opinabile.
In Cerimonia con canzoni per giustificare il fatto che ‘il buono’ avrà il funerale e ‘lo stronzo’ no, l’espediente è far morire i fratelli a un giorno di distanza, il secondo morirà il giorno in cui scattò il lockdown duro. La sorella di Lulù, matta, si intestardisce e come Antigone farà fuoco e fiamme, in contrasto con la ragionevole Ismene, pur di dare al fratello la giusta sepoltura. La legge di Creonte re di Tebe è arbitraria, le leggi – temporanee – emanate durante la pandemia avevano lo scopo di proteggere la comunità tutta.

Nel frattempo il pubblico è stato accompagnato e radunato sotto un porticato coperto del cimitero in cui le sedie sono disposte a semicerchio. Cotugno e Di Domenico sono guide attente, discrete, avvolgenti, gli episodi di famiglia si susseguono intervallati da canzoni per la cui esecuzione ci sono sempre motivi drammaturgici, non tutti calzanti, specialmente quelli affidati ai due giovani D’Intino e Rociola, esecutori pieni di grazia canora e musicale ma i cui personaggi non sono ancora ben definiti; la scelta dei brani va dai Cranberries a De Gregori ai Dire Straits.
Viene chiesto anche agli spettatori se vogliono condividere un loro ricordo legato alla persona scomparsa: qualcuno trova un aneddoto divertente, qualcuno descrive solo un breve momento, altri si commuovono, come è naturale che sia.

Nell’ultima parte del testo e dello spettacolo il parallelo con la tragedia sofoclea affastella le morti che mancano per concludere in maniera un po’ affrettata, con una serie di suicidi non tutti chiari e coerenti per far tornare i conti dal punto di vista dell’intreccio.
Insieme allo stile dei costumi, la scelta di mostrare la sconfitta e la vulnerabilità di Creonte rendendolo un incontinente con il pannolone (ecco cosa c’era sotto il cappotto) designa un immaginario che mette l’accento su una dimensione di squallore da ipermercato di periferia.

L’aggancio con Antigone si sostiene soprattutto sulla questione della sepoltura, divieto grave e  che durante la pandemia è stato particolarmente drammatico. E del resto è il gesto ribelle per cui tutti ricordiamo l’eroina tragica.
Quello che si ricorda invece di questa versione dei Borgia è senza dubbio il senso di vicinanza tra i convenuti, la delicatezza e la morbida confidenza con cui i quattro interpreti accompagnano e – in un certo senso – tengono per mano gli spettatori/invitati lungo un sentiero difficile, doloroso, con l’obiettivo di scioglierli da un nodo. Infatti è davvero toccante il momento conclusivo in cui, intorno  a un salice di legno (di Filippo Sarcinelli, come la porta d’ingresso), ognuno appende la mascherina con il nome per lasciar andare la persona a cui ha dedicato questa veglia. Un cerchio di sorrisi sereni, qualche lacrima, abbracci spontanei perché è una commozione collettiva. Come collettivo è stato quel lutto regionale, nazionale, mondiale.
Questa volta, forse più della similitudine con la protagonista della tragedia e grazie alla regia di Gianpiero Borgia, l’aspetto forte dello spettacolo è proprio la riflessione intorno al bisogno di un tempo e di uno spazio per il lutto, nella sua accezione laica. Antigone. Cerimonia con canzoni è una delle espressioni di umanità cui solo il teatro può dare vita: si attraversa una porta, si entra in una dimensione sospesa, si compartecipa gli uni della sfera degli altri, si lascia qualcosa di sé al di là di quella porta.

ANTIGONE. CERIMONIA CON CANZONI

drammaturgia Elena Cotugno
ideazione e regia Gianpiero Alighiero Borgia
con Elena Cotugno, Christian Di Domenico (cast italiano)
musicisti in scena Luna D’Intino (voce), Sabino Rociola (chitarra e voce)
con Isabella Keiser e Jean-Louis Mercuzot (cast francese)
coach di canto e supervisione musicale Gianni Golini
artigiano dello spazio scenico Filippo Sarcinelli
costumi Elena Cotugno con la supervisione di Giuseppe Avallone
lavori a maglia e creazioni originali di Nonna Silvana Antoncecchi
tanatologa Maria Angela Gelati
produzione Teatro dei Borgia in coproduzione con Centro Teatrale Bresciano e con Compagnie l’Eygurande (Francia), in collaborazione con Cooperativa La Rete
Si ringrazia Giulio Morittu per la collaborazione nella costruzione del progetto

Festival Il rumore del lutto, Cimitero Monumentale di Bergamo | 6 ottobre 2023