ILENA AMBROSIO | Sono passati quasi dieci anni dall’uscita de La ferocia. È stato un libro determinante per me, di sicuro è per ora il più controverso e fuori formato. Sin dall’inizio è stato divisivo: ha trovato lettrici e lettori che lo hanno amato moltissimo e altri che l’hanno subito detestato. Con il premio Strega la divisività toccò livelli interessanti. All’epoca pensai che un po’ di scompiglio andava benissimo. Oggi guardo a tutto con gratitudine.

Con un post su Instagram del 25 ottobre scorso, Nicola Lagioia ha preannunciato il debutto della versione teatrale del suo romanzo (Premio Strega nel 2015) firmata da Michele Altamura e Gabriele Paolocà, alias VicoQuartoMazzini, che debutterà il 31 ottobre al Teatro Vascello di Roma nell’ambito di Romaeuropa Festival.

La ferocia è davvero un romanzo controverso, nel quale l’altezza letteraria di una scrittura capace di creare mondi sposa l’orrore di una intricata vicenda a metà tra il giallo e la cronaca nera. Al centro di tutto la figura, ma sarebbe meglio dire il corpo, di una giovane donna, Clara, apparentemente morta suicida. Attorno, una galleria di personaggi, realistici eppure spaventosi, che raccontano le dinamiche familiari, sociali e politiche di un sud Italia in cui la legalità arranca nella morsa del ricatto, della corruzione, finanche della criminalità.  

Una “grande storia”, “materiale scottante” del quale Altamura e Paolocà si sono innamorati alla prima lettura e che hanno voluto fortemente portare a teatro. In attesa di vedere gli esiti abbiamo chiesto loro di parlarci dell’operazione di riscrittura e messa in scena.

Michele, Gabriele, prima di tutto, come è nata e da quali vostri bisogni creativi è scaturita l’idea di una messa in scena de La ferocia?

MA: È stata una cosa che ci è venuta in mente già dall’uscita del romanzo, nel 2015. Abbiamo sempre avuto il desiderio di raccontare grandi storie a teatro e quando abbiamo letto La ferocia ci siamo detti che lo era davvero. L’idea di mettere in scena il romanzo è rimasta in mente per un po’ come desiderata; poi abbiamo incontrato Lagioia a Bari e così, in maniera informale gli abbiamo chiesto se avesse mai immaginato la possibilità di trasportare quella storia in teatro.

GP: Dietro c’è anche una riflessione sulla drammaturgia italiana che portiamo avanti da sempre e che ci ha fatto mettere in scena testi nostri e non; una riflessione che può essere condotta ad ampio raggio e che riguarda principalmente l’incapacità di scrivere del presente a teatro. Quando lavori sul classico, sia da attore che da regista, e cerchi di riadattarlo, rimane sempre l’impressione di fare un lavoro “sporco”, non davvero aderente al sentire di oggi e, al contempo, se affronti drammaturgie straniere ti chiedi perché non c’è la possibilità di usare parole che parlino del presente quando si tratta di teatro italiano. La letteratura di oggi, invece, ci pare riesca a raccontare il presente.

Cosa avete rintracciato di interessante e utile nella storia scritta da Lagioia?

GP: In La ferocia abbiamo trovato una storia di una bellezza assoluta, che trasporta il lettore nella dimensione della tragedia. Lagioia ha lavorato in senso tragico sul linguaggio, le relazioni, i personaggi.
Ma poi questo romanzo viene incontro anche alla nostra esigenza di riflettere intorno al pubblico e alle sue aspettative. Lagioia stesso è una figura intrigante di intellettuale pop che si pone molto il problema di come comunicare al grande pubblico

MA: Che poi è lo stesso che ci poniamo noi: come faccio a parlare a un pubblico non teatrale? A parlare di lui e di me?

GP: Oramai lo spettacolo di semplice intrattenimento sta entrando sempre di più a teatro e gli spettatori prediligono un linguaggio semplice, di facile accesso. Per noi invece è necessario alzare l’asticella della comunicazione ma rimanendo sempre in contatto con lo spettatore. Per farlo abbiamo pensato che sarebbe stato utile e bellissimo parlare di qualcosa che ci appartiene, che appartiene al nostro presente, come accade nel racconto di Lagioia.

Un racconto intricatissimo, con molti personaggi, una trama articolata. A livello di drammaturgia, cosa vi ha guidato nella riscrittura? Quale idea drammaturgica avete seguito?

MA: Insieme a Linda Dalisi abbiamo pensato alle linee drammaturgiche fondamentali su cui investire. In primis è emerso il tema della famiglia come luogo della ferocia che è centrale nell’opera e volevamo che lo fosse anche nello spettacolo. La famiglia come luogo del ricatto e luogo da cui fuggire, da cui emanciparsi ma spesso vanamente perché ci resti comunque legato. Poi il ritratto di un sud raccontato come specchio di ciò che appartiene a tutta la nazione. Tutti i tagli hanno seguito queste direttrici.
Anche il personaggio narrante, che è un omaggio a tutti i grandi narratori, a Lagioia stesso, ci serviva per creare questo filo interno.

GP: Poi c’è stata la scelta di eliminare il personaggio della protagonista, Clara. Da subito questo è stato l’escamotage che ci ha permesso di trovare la chiave drammaturgica perché la sua assenza diventa motivo di confessioni personali da parte degli altri personaggi: per la famiglia un misto tra ammissione di colpa e tentativo di tirarsi fuori dalle proprie responsabilità; per il fratello Michele un ritorno a questo rapporto di amore controverso che gli fa trovare la forza di cercare la verità. Ci siamo detti che questa donna stupenda che tutti ricordano e tutti rimpiangono forse, nella sua assenza, diventa molto più oggetto amplificando il livello tragico. 

Per la scena, invece, quali immagini vi hanno ispirato? 

MA: Da subito abbiamo lavorato, con Daniele Spanò, sull’immagine della casa dei Salvemini come luogo della catastrofe e della ciclicità della storia.

GP: E poi l’dea della ferocia come componente emotiva che collega il mondo umano a quello animale è stata un’idea che ci guidati anche scenicamente.

Infatti avete mantenuto molte di quelle immagini naturali che Lagioia descrive con estrema minuzia ma anche molte delle descrizioni gastronomiche del romanzo.

GP: Quelle sono legate a tutto il modo di raccontare il sud. Noi abbiamo anche uno sguardo oggettivo che ci permette di tirare fuori la polpa di ciò che ci serve per raccontare il sud. Questa opulenza ne è un tratto fondamentale. Anche il tema dell’arricchimento: i personaggi del romanzo sono figli di un benessere economico che ha dato possibilità a tutti ma che al sud si è perpetrato anche con meccanismi criminali. Per noi sono cose palesi ma è interessante raccontarlo fuori, al di là di tutti i luoghi comuni e con la giusta oggettività. 

A livello attoriale come vi siete mossi? Che tipo di richieste avete fatto agli attori?

MA: Innanzi tutto abbiamo scelto degli attori che avessero connessioni sia fisiche che emotive con i personaggi. Ci abbiamo pensato tanto… Noi non abbiamo un team fisso, cerchiamo in ogni progetto di lavorare con persone che stimiamo e che siano giuste per quel ruolo e che abbiano il cuore adatto a farlo. Siamo molto contenti, perché ci piace lavorare con gli attori anche accogliendo le loro proposte.

La ferocia di cui narra Lagioia è qualcosa di molto forte e anche cruento. Perché ha senso, per voi, metterla in scena?

GP: Spesso mi è capitato di parlare con lettori del romanzo che pensavano alle situazioni descritte come esagerate, non verosimili. E invece sono, sì, assurde ma vere. Il racconto del sud, il modo in cui le dinamiche malavitose entrano nella vita familiare; la corruzione, anche la violenza. C’è anche il nostro retaggio cattolico a non permetterci mai di raccontare la ferocia cruda e invece la ferocia cruda ci appartiene, appartiene al nostro tempo. Anche se vuoi avere un approccio metaforico questo tipo di storie le devi raccontare. Anche perché non si può avere paura di raccontarle, soprattutto se si vuole rivolgere attenzione al nuovo pubblico: se non c’è uno “spavento”, i ragazzi di 20 anni, abituati alle serie tv e a non essere spaventati da nulla, non verranno a teatro, perché penseranno di annoiarsi. In noi c’è attenzione verso di loro e la speranza che questa storia possa incontrarli.

MA: Approcciarsi a storie di questo tipo ci dà la possibilità di restare nella prosa, cosa che in Italia sembra quasi osceno da dire. Ma fare la prosa non deve significare per forza fare un teatro polveroso. Abbiamo avuto la fortuna e l’ambizione di maneggiare un materiale che scotta e che ci offe l’occasione di entrare nel canale della prosa però con una regia, una recitazione e una drammaturgia che stanno davvero nel presente.

 

LA FEROCIA
dal romanzo di Nicola Lagioia

ideazione VicoQuartoMazzini
regia Michele Altamura, Gabriele Paolocà
adattamento Linda Dalisi
con Roberto Alinghieri, Michele Altamura, Leonardo Capuano, Enrico Casale, Gaetano Colella, Francesca Mazza, Gabriele Paolocà, Andrea Volpetti
scenografie Daniele Spanò
disegno luci Giulia Pastore
musiche Pino Basile
costumi Lilian Indraccolo
aiuto regia Jonathan Lazzini
realizzazione scenografie Officina Scenotecnica Gli Scarti
direttore di scena Daniele Corsetti
progetto audio Niccolò Menegazzo
datore luci Marco Piazze
cura della produzione Francesca d’Ippolito
ufficio stampa Maddalena Peluso
foto Valerio Polici
grafica Leonardo Mazzi
consulenza artistica Gioia Salvatori

Romaeuropa Festival
31 ottobre – 2 novembre 2023