EUGENIO MIRONE | C’è stato un periodo nella storia del nostro paese in cui l’ora della fine, la fine dello Stato e della democrazia, sembrava essere ormai scoccata nell’orologio dell’apocalisse. Diversi epiteti sono stati coniati per cercare di definire un’epoca in cui, a partire dalla Strage di Piazza Fontana, per un trentennio “ogni giorno se ne sentiva una” e “non si poteva uscire di casa per il rischio di morire ammazzati”. D’altra parte, ce lo insegnano le Sacre Scritture, siamo figli di Caino, il fratello sopravvissuto da cui il seme della violenza è disceso fino a noi. E in quegli anni la violenza era all’ordine del giorno.
Eppure, può capitare che sia Abele il fratello rimasto in vita e che abiti in un piccolo villaggio disperso nella campagna italica come migliaia se ne trovano nel nostro territorio.  Patria. Il paese di Caino e Abele è un luogo verghiano popolato da piccole esistenze quotidiane che presto verranno sconvolte dal grande corso della storia e in prima fila c’è proprio Abele, chiamato a difendere la memoria del fratello, morto in seguito all’esplosione di una bomba in quella che è passata alla storia come la strage dell’Italicus.
Ancora una volta Eco di Fondo sceglie di lavorare con grandi metafore per mettere in dialogo i miti del nostro patrimonio culturale con la microstoria di personaggi quotidiani. Nella regia di Giacomo Ferraù la storia di Caino e Abele diviene lo strumento attraverso cui Fabio Banfo, curatore della drammaturgia nonché incisivo interprete del testo, rilegge in scena un’altra grande storia, quella del secondo Novecento italiano.

Foto di Nicolò Degl’Incerti Tocci

In scena è scoppiato un ordigno. Le pareti sono frastagliate da schegge di luce riflessa, un tappeto di vetri rotti copre le assi di legno del pavimento. Sparsi sul palco, si trovano gli oggetti più disparati: una sedia capovolta, una lampada, un megafono, una valigia. Sono proprio questi oggetti di scena, insieme alla bravura attoriale di Fabio Banfo, a far rivivere i luoghi e i personaggi della storia. È un ambiente volutamente disorganico che funge, in successione continua, da casa dei due fratelli, da bar di paese, da municipio del sindaco e anche da stazione dei treni.
Questo è il paese dove vivono Caino e Abele o, meglio, solo Abele, perché Caino se n’è andato presto: si è imbarcato su un treno, l’Italicus, dal quale non è mai più sceso. I loro veri nomi non li conosciamo, sappiamo però che sono stati soprannominati in questo modo in seguito all’incidente che ha portato Abele a diventare “scemo”, e Rosso Malpelo, novella manifesto della visone pessimista di Giovanni Verga, ci insegna quanto sia pesante portare un soprannome in queste piccole realtà locali. Galeotta fu una bomba, anche in questo incidente, che infatti è originato dal classico gioco tra fratelli spintosi troppo oltre, fino al maneggiamento errato di un ordigno finito in tragedia.

Caino e Abele sembrano uniti nel segno delle bombe, ma per quest’ultimo la questione è semplice: se il corpo di suo fratello non è stato ritrovato vuol dire che è ancora vivo; dunque, vale la pena cercarlo o aspettarne il ritorno. Questa è la missione con la quale Abele, attraversando gli anni del secondo Novecento, verrà portato a diventare membro di una simpatica combriccola di rivoluzionari formata da “ragazzi speciali”, poi a incontrare un professore pasoliniano, a lavorare per la mafia di Licio Liggio (crasi strategica per riferirsi a  Luciano Liggio e a Licio Gelli), a sconfiggere il comunismo insieme a papa Giovanni II e ad autorapirsi perché, come insegna la vicenda Moro, “chi rapisce può chiedere ciò che vuole”, anche se non è affatto detto che lo si ottenga.
Poi arriva il giorno in cui il bar e le altre attività commerciali sono costrette a chiudere in seguito all’inaugurazione del nuovo supermercato; la modernità è arrivata anche nel paese di Caino e Abele, e lo ha fatto entrando prepotentemente dalla porta principale. Un nuovo mondo è alle porte, Abele è stanco, sa di avere fallito. Un nuovo mondo è l’unico dove poter ritrovare il fratello, ma il modo di accedervi è uno solo e ancora una volta ha a che fare con un’esplosione.

Schegge, ordigni ed esplosioni sono il fil rouge di uno spettacolo il cui ritmo è scandito, come un ticchettio, dai grandi eventi della storia. A dare corpo e voce all’azione della vicenda è un ottimo Fabio Banfo, cui bastano pochi gesti conditi con una variopinta modulazione vocale per gestire efficacemente la polifonia di personaggi che colorano la trama. L’attore abita uno spazio scenico, progettato da Stefano Zullo in collaborazione con Maria Paola Di Francesco, votato al simbolismo e alla parsimonia che consentono di far brillare le doti recitative di Banfo. A completare il quadro si aggiunge un disegno luci vario e coraggioso che risalta e fa risaltare la scena nell’angusta sala di Campo Teatrale.
Patria. Il paese di Caino e Abele, però, è un bell’ordigno a cui non è stata accesa la miccia: la potenzialità dell’opera, infatti, è disinnescata dalla drammaturgia che risulta l’elemento debole della pièce. Lo spettacolo condensa in un’ora cinquant’anni di storia d’Italia e tiene lo spettatore incollato sulla sedia dall’apertura alla chiusura del sipario. Ciò che risulta essere un buon pregio presto però si trasforma anche in un grosso limite. È una storia biblica quella che Eco di Fondo cerca di affrontare solamente attraverso l’utilizzo di un breviario. L’obiettivo nobile e dichiarato di cercare di incuriosire un pubblico giovane che non conosce (o conosce poco) gli eventi narrati contribuisce a far posare sul testo una patina troppo pesante di propedeuticità; ne risulta una storia senz’altro emozionante, basata tuttavia su una panoramica storica non abbastanza graffiante per discostarsi dalla formula di bollettino storico.
A ciò si aggiunge un punto di vista un po’ abusato che consiste nell’esplorare la grande storia attraverso le avventure di un giovane protagonista portatore di deficit cognitivi sul modello Forrest Gump. La partitura drammaturgica così congegnata consente solamente di accennare, quando un atto di coraggio in più avrebbe consentito di andare più a fondo delle questioni.

La nebbia che confonde lo sguardo di Abele rappresenta l’ostacolo al ricordo, ma soprattutto il senso di confusione e incertezza di chi ha vissuto gli anni di piombo, il periodo delle stragi e della trattativa Stato-mafia. È lecito chiedersi quanto la popolazione dell’epoca fosse consapevole del fatto che era in corso un vero e proprio tentativo di sovversione del modo di vivere democratico.
Ecco che allora l’intervento salvifico a fine spettacolo di Ilaria Moroni, direttrice dell’Archivio Flamigni, in compagnia di Benedetta Tobagi e Paolo Silva, aiuta a far chiarezza sui fatti storici (e non misteri!) che soprattutto a causa della poderosa mole di omissioni di verità e di depistaggi nelle procedure di ricostruzione storico-giudiziaria, risultano ancora oggi tutt’altro che nitidi. Completamente oscuri, invece, appaiono questi temi agli studenti liceali, come afferma con ragione Silva denunciando la scandalosa mancanza di una trattazione del secondo Novecento nelle scuole superiori. Tutto ciò è significativo di quanto si diceva soprani relazione a Patria perché purtroppo un meraviglioso dibattito di questo genere non può accompagnare ogni sera lo spettacolo.
Per un’opera che aspira a raccontare anni così densi e difficili non è un dato che può passare inosservato. Soprattutto quando si parla di un secolo, il Novecento, che forse è stato dato per morto troppo presto e che, come vediamo chiaramente in questi giorni, ancora ci parla ed esige che si facciano i conti con tutte quelle questioni che per convenienza sono state lasciate a lungo sotto la polvere del tempo.


PATRIA. IL PAESE DI CAINO E ABELE

ideato da Fabio Banfo, Giacomo Ferraù e Giulia Viana
regia Giacomo Ferraù
drammaturgia Fabio Banfo
con Fabio Banfo
scene Stefano Zullo in collaborazione con Maria Paola Di Francesco
aiuto regia Giulia Viana
assistente alla regia Maria Francesca Rossi
co-produzione Centro Teatrale MaMiMò / Eco di fondo
foto Nicolò Degl’Incerti Tocci
Campo Teatrale, Milano | 3 novembre 2023