MATTEO BRIGHENTI | Scena e società, adolescenti e classici, nel segno del divenire uno in molti, attraverso il coro. «Ci sta a cuore il teatro solo quando è insieme lo specchio dell’io, la psiche individuale profonda, e del noi, ovvero il mondo». Un mistero e insieme una pratica che Marco Martinelli ha racchiuso ora in un libro intitolato semplicemente Coro, e uscito per i tipi di AkropolisLibri, il progetto editoriale di Teatro Akropolis di Genova.
Dopo Farsi luogo. Varco al teatro in 101 movimenti (CuePress), il fondatore del Teatro delle Albe / Ravenna Teatro riflette sulla trentennale esperienza che ha segnato i suoi processi creativi tra palco, non-scuola e laboratori in giro per il mondo, consegnandoci una possibile mappa in 35 punti del viaggio per cui, attraverso il teatro, Dioniso si incarna in quell’«io sono noi» che lo manifesta. «Il coro di cui stiamo parlando è un coro scenico. Ma se il teatro lo separiamo da tutto ciò che ci riguarda – l’aria, le piante, gli animali, i sogni che facciamo la notte, i desideri e le paure, le storture della politica e dell’economia criminale, eccetera – smette di interessarci».

La copertina di “Coro” di Marco Martinelli edito da AkropolisLibri

Dalla carta, poi, le parole di Martinelli sono tornate al palcoscenico durante l’ultima edizione Testimonianze Ricerca Azioni, che ne ha ospitato la prima lettura pubblica nel novembre scorso. D’altronde, sono stati proprio i due direttori artistici del festival genovese, Clemente Tafuri e David Beronio, nella loro Prefazione al libro, a sottolineare come Coro non tratti di una storia, ma di “un cantare, come un’ottava di Boiardo, come ciò che esiste solo nel momento in cui è detto, che affiora come luogo di transito di mille altri racconti, di mille altri pensieri”. «Nello scrivere – afferma Martinelli – io penso sempre ad alta voce, ho necessità di figurarmi un interlocutore a cui parlare. La scrittura torna così alla sua matrice, l’oralità. Se ne nutre».

Adesso che riattraverso domande, risposte e silenzi per comporre questa intervista, mi rendo conto che quando andiamo a teatro accediamo, in un modo o nell’altro, a un coro. Il teatro è esso stesso un coro. «Così dovrebbe essere. Il coro è Dioniso, il coro è il segreto del teatro: se lo perdiamo, perdiamo l’essenza». Per questo, è sempre al presente, anche per chi è ormai solo nel passato. Chi non è più con noi, come Vincenzo Del Gaudio, il giovane professore di teatro e spettacolo all’Università degli Studi della Tuscia alla cui luminosa memoria Coro è dedicato.

Qual è stato il tuo primo, primissimo coro?

Non me lo ricordo. Non posso ricordarmelo. È il fantasma che ha fondato tutti i cori successivi, concreti e materici, brulicanti di corpi. Il fondamento è sempre invisibile, e se ti metti in grado di ascoltarne la voce, ti guida.

Chi sei tu nel coro?

La miccia che accende il fuoco. Al tempo stesso, la guida che nell’ascolto si fa guidare, il vaso concavo che riceve con gioia tutta l’energia del gruppo, la rilancia, se la fa ributtare addosso, la riprende e la rilancia di nuovo. Un poker dionisiaco.

Nel coro si entra o, piuttosto, si accede? Si tratta di intraprendere un moto a luogo oppure di trovare un’anima a luogo, cioè una disposizione a varcare una soglia che è prima di tutto dentro di sé?

Certo, la prima soglia è dentro di sé. È un’apertura, gioiosa, al possibile. Al farsi noi dell’io. A valicare le frontiere che ci dividono: non solo dagli altri esseri umani, ma dall’aria, dalle piante, dagli animali, dalla Creazione tutta.

Marco Martinelli saluta il pubblico al termine della lettura di “Coro” a Teatro Akropolis. Foto di Luca Donatiello

Cosa cerchi e cosa trovi nel coro e con il coro?

Nel coro si cerca Dioniso, la «paroletta presa a prestito dai Greci», come scriveva Nietzsche. In altri luoghi del pianeta assume altri nomi ma non è mai una questione di nomi, è questione di sostanze: Dioniso è il dio sepolto che resuscita ogni volta che viene evocato con cuore puro. È il fuoco che ci con-fonde. Che sovverte le gerarchie, abbatte i muri. Che fa ricchi i poveri, forti i fragili. Che infonde coraggio. Che dal fango fa emergere l’oro. Nel cerchio dei viventi posso convocare i morti, gli antenati che lo hanno servito con devozione, i cui versi brillano della presenza del dio: Aristofane, Dante e Beatrice, Emily Dickinson, Vladimir Majakovskij, e tante altre e altri.

Qual è il legame tra il coro e la non-scuola? Sono nati insieme oppure è nato prima l’uno e poi l’altra?

Il coro è prima della non-scuola. Il coro è stato fin dall’inizio un’ossessione delle Albe. Essere in due, io e Ermanna, litigare per un’idea, accordarsi su un’impresa, incontrarsi e scontrarsi, comprendersi nelle differenze, amarsi nelle differenze: già questo, agli esordi, significava essere coro. Che poi, etimologicamente, è parola che significa danza. Danzare in due, danzare in duemila: è solo una differenza di quantità. Certo, la non-scuola e poi le “chiamate pubbliche” con centinaia di cittadini di tutte generazioni, ci hanno mostrato negli anni un modo preciso di cavar fuori l’armonia dall’indifferenziato, ma l’origine è albesca.

Come è nata l’esigenza di mettere per iscritto questa pratica? E cosa vuol dire, per te, essere pubblicato da AkropolisLibri?

Vari soggetti me l’avevano chiesto, soprattutto dopo aver letto Farsi luogo: come si fa a creare il coro? Ho provato a raccontarlo, sapendo che la mia è solo una strada tra le altre. A tutte le guide che ho formato nella non-scuola, ravennate e non, ho sempre detto: non imitatemi. Rubate quel che potete da quello che faccio, come io ho rubato a chi mi ha preceduto, usatemi come veicolo, così come io ho usato i veicoli di altri: ma poi scendete e andate a piedi, i vostri piedi, e con quelli segnate il cammino.
Per quel che riguarda Akropolis, è una gioia essere pubblicato da loro, per la passione e la raffinatezza con cui intrecciano teatro ed editoria, ed è un onore – che spero di meritare – il saggio introduttivo di Clemente Tafuri e David Beronio.

Marco Martinelli dialoga con la giornalista Maria Dolores Pesce su e intorno a “Coro”. Foto di Lorenzo Crovetto

In che rapporto sta l’azione della scrittura con quella del coro?

Quando scrivo non sono mai solo, sono già in mezzo al cerchio: «io sono un condominio», mi ha detto Ermanna quando ci siamo conosciuti, «io sono noi», dice un proverbio senegalese imparato anni dopo. Il concetto è lo stesso. Io sono noi qui e ora, nel cerchio del coro, perché i nostri corpi sono vicini, si guardano, si toccano, si annusano, non si giudicano, si trasformano insieme nel saltare e cantare ma io sono noi anche quando mi ritrovo solo, a tremare davanti alla pagina bianca, perché in me si affollano i vivi e i morti, le epoche passate e la presente, e i tanti “coinquilini” che in me scalpitano e chiedono udienza, chiedono voce.

Prima che a Genova, hai fatto una lettura in pubblico al Teatro Rasi di Ravenna nell’ottobre 2022 in occasione degli Stati Generali della non-scuola. Coro è dunque anche un libro su una comunità di pensiero?

Allora il testo non era ancora stato pubblicato. Volevo prima leggerlo a tante amiche e amici, mosso dal desiderio di sapere cosa ne pensassero, se poteva essere utile, non come metodo da imitare ma come ispirazione per il proprio fare. E queste amiche e amici sono artisti e gruppi che, dal sud al nord della penisola, intendono il teatro in sintonia con le Albe, ognuno con la sua fisionomia, la sua poetica, ma accomunati dalla stessa pulsione dionisiaca, dentro e fuori la scena, un teatro che sul palco cerca cose antiche e sempre nuove, verità e bellezza, rovesciamenti e graffi, la «sacra materia» per dirla con Teilhard de Chardin, o con Pavel Florenski, e alla fine non si accontenta del palco, e svaglia nella città. È termine un po’ antico, si dice del fiume che rompe gli argini.

Tra loro, mi piace ricordare colui al quale il libro è dedicato: il professor Vincenzo Del Gaudio.

Vincenzo, giovane studioso, era lì in mezzo a noi per aver dedicato tanta attenzione all’argomento, apparentemente anacronistico, del coro. La sua scomparsa ci ha molto amareggiato. Il coro è la danza dei vivi e dei morti, di noi che custodiamo coloro che invisibili ci custodiscono. Vincenzo continuerà a danzare nella memoria.

Marco Martinelli, Ermanna Montanari a Ravenna per “Paradiso”. Foto di Silvia Lelli