ELENA SCOLARI | Posa, cenere, il tuo manto sopra ogni cosa. Nel 1816 una enorme quantità di cenere offuscò il globo (terracqueo) e cancellò l’estate. Una cortina grigia che coprì il sole si diffuse dall’Indonesia al resto del mondo in seguito alla storica eruzione del vulcano Tambora. In quell’anno, in Svizzera, sul lago di Ginevra, si ritrovano intorno al fuoco Mary Wollstonecraft e il marito Percy Shelley, ospiti nella villa di Lord George Gordon Byron con John Polidori, lo scrittore capostipite di tutte le storie di vampiri. Cose che capitavano, tra letterati.
Si annoiano, anche questo capitava spesso ai letterati. E così Byron lancia la sfida a scrivere un racconto dell’orrore, una storia de paura. Pare poi che questi intrattenne una conversazione con Percy Shelley intorno a una teoria scientifica di Erasmus Darwin (nonno del naturalista Charles) sui protozoi e la loro presunta capacità di vivere dopo la morte dell’organismo ospite; questo dialogo ha influenzato il sonno di Mary che in un sogno avrebbe cominciato a tratteggiare la figura di quello che sarebbe diventato Frankenstein o il moderno Prometeo nell’inchiostro della sua penna.

ph. Margherita Caprilli

Il romanzo è costruito con un filtro narrativo perché è un’opera epistolare basata sulle lettere che Robert Walton scrive alla sorella durante la spedizione al Polo Nord raccontandole di aver conosciuto il dottor Viktor, il quale lo mette a parte dell’esito delle sue ricerche per scoprire l’origine del principio vitale.

I Motus affrontano questa storia tramite un triangolo: in Frankenstein (A love story) in scena ci sono il dottor Viktor Frankenstein (Silvia Calderoni), Mary Shelley (Alexia Sarantopoulou) e la Creatura (Enrico Casagrande). Questi sono i tre poli sui quali Daniela Nicolò & Enrico Casagrande con la drammaturgia di Ilenia Caleo poggiano la struttura del lavoro. I tre elementi sono ovviamente correlati ma il senso è un po’ più sottile: la storia biografica di Mary Shelley si intreccia con il rapporto che lei avrà come autrice con il suo romanzo; nelle lettere di Walton c’è la storia del dottor Viktor; e la storia del medico contiene il monologo esistenziale della Creatura e il suo destino.
I tre interpreti interagiscono poco fra loro, le tre storie scorrono parallele in scena e parzialmente si sovrappongono. Silvia Calderoni, Alexia Sarantopoulou ed Enrico Casagrande si muovono tra grandi e alti teloni semitrasparenti (forse a ricordare le tende della villa dove gli scrittori erano ospiti?) di cui uno di simil-plastica che funge da diaframma per separare dalla dimensione reale. Ci scorre sopra la pioggia del temporale, i tuoni corrispondono a pugni che Calderoni sferra contro la pellicola scuotendo sè e la situazione. Al centro, a fondo scena, uno schermo su cui sono proiettati titoli di capitoli, in inglese, che scandiscono una progressione narrativa senza renderla esplicita.

L’impianto del lavoro soffre un po’ della stessa sindrome su cui impernia la scelta: le tre strade impediscono di individuare un centro, non c’è un fulcro forte e lo spettacolo procede in maniera slegata, tra alcune belle immagini – come Calderoni che in una luce blu (piano luci curato da Theo Longuemare) incede parodiando l’andatura rigida del mostro con le braccia alzate donandogli una grazia delicata che intenerisce – e altri momenti in cui è quasi sempre il corpo a essere al centro: nudo, sofferente, invecchiato, oppure giovane e pronto a ricevere segni e pitture ma sempre un po’ tendente al dramma.
Lo spettatore è chiamato a un lavoro di ricucitura – come nelle evidenti suture che tengono insieme il rozzo assemblaggio delle membra per l’essere nuovo – dei brandelli che compongono la vicenda: sono impressioni, stati d’animo, morceaux de vie da rammendare.

L’invenzione di Shelley rappresenta un punto di rottura in letteratura perché descrive un nuovo atteggiamento dell’uomo di fronte al progresso: sostituirsi a Dio per creare la vita grazie alla scienza è l’atto di superomismo estremo. Se non abbiamo più bisogno di Dio serve però che diventiamo autonomi in tutto, disfacendoci di ciò che abbiamo inventato per spiegarci il mondo, direbbe Nietzsche. Shelley denuncia la scienza che rischia di diventare scientismo, l’idolatria dei lumi che porterà invece oscurità e chiusura: la realtà conoscibile non sta solo in laboratorio! Quest’uomo nuovo non si cura della persona ma vuole battere la natura e sovvertirne le leggi.
Ma non ci salviamo dallo smarrimento: Viktor è ossessionato dai suoi esperimenti e “non dormo più, non mangio più, non scopo più”, Shelley soffre per la perdita dei suoi primi due figli e proietta la sua angoscia sulla creatura letteraria, il povero mostro senza nome si aggira sotto il peso di una solitudine insopportabile perché il suo aspetto spaventa la gente. Ed è proprio lui a porsi gli interrogativi più profondi, più stringenti, più intrisi di sofferenza. Lui con il suo testone sproporzionato che sovrasta un corpo patchwork.

Nella scena in assoluto più suggestiva dello spettacolo, Casagrande si spoglia della mascherona di lattice, la lascia floscia a terra e seduto, solo in scena, dà voce, sommessa, alle domande gravi che lo attanagliano, quelle che si preoccupano dello spirito, del senso dell’umanità e del procreare. Se le creature impareranno a riprodursi da sole che fine faremo noi? Ed è questione terribilmente attuale, se si pensa ai robot, agli umanoidi, all’intelligenza artificiale. Questo collegamento è il punto tematico più originale: l’I.A., ad oggi, crea, ma lo fa solo assemblando e cucendo idee e materiali già esistenti, inventati da qualcuno, proprio come il dottor Frankenstein cuce pezzi di cadaveri; non c’è quindi vera e viva creatività, lo scarto improvvisativo è ancora appannaggio dell’umano.
Una delle scritte proiettate è “Uno spettro si aggira per l’Europa”, una volta era il comunismo, negli anni di Mary Shelley poteva essere proprio la presa del potere da parte dei primi automi. Come forse oggi.
Frankenstein (A love story). A proposito: una storia d’amore tra chi? Tra la scrittrice e la creatura, un figlio di carta; tra Viktor F. e il suo puzzle in-umano ri-animato; tra il mostro e la vita, ché quando comincia a capirla ha il desiderio di viverla appieno.
Questo spettacolo – visto nella stagione FOG di Triennale Milano – è la prima metà di un dittico che si concluderà nel 2024 con un film: Frankenstein (A history of hate), e il lavoro teatrale pesca anche dal patrimonio di immagini gotiche prodotte dal cinema, per idee di ambientazione e oggetti, con un ragnone telecomandato di troppo.

Le tre linee attorali sfumano una nell’altra, si annebbiano a vicenda, lasciando la sensazione che la cenere non si sia ancora dissolta del tutto, non solo intorno alla villa di Ginevra ma anche nelle intenzioni creative del gruppo: è come se quel grande occhio giallo sbarrato che incombe dal centro del telo volesse vederci più chiaro. Come noi.

 

FRANKENSTEIN
(A Love Story)

produzione Motus
ideazione e regia di Daniela Nicolò & Enrico Casagrande
con Silvia CalderoniAlexia Sarantopoulou ed Enrico Casagrande
drammaturgia Ilenia Caleo
adattamento e cura dei sottotitoli Daniela Nicolò
traduzione Ilaria Patano
assistenza alla regia Eduard Popescu
disegno luci Theo Longuemare
ambienti sonori Enrico Casagrande
fonica Martina Ciavatta
grafica Federico Magli
video Vladimir Bertozzi

Triennale Teatro, Milano | 22 novembre 2023