MATTEO BRIGHENTI | Una via crucis rifiuto dopo rifiuto, un atto psicoanalitico collettivo nello specchio della scena. Per restituire una voce, un senso, una vita e un destino a chi non ha, o pensa di non avere, più niente da dare e da dire. Questo fa La Luna e il teatro secondo Davide Iodice. «Se non credessi in quell’assunto – afferma il regista e drammaturgo – smetterei».

È la terza, ideale tappa di una ricerca sulla crisi del contemporaneo iniziata con La Fabbrica dei Sogni e proseguita con Un giorno tutto questo sarà tuo. Materia di indagine, dopo il sogno e l’eredità spirituale, è lo scarto, nella sua accezione simbolica, affettiva, emotiva, poetica: ciò di cui ci si vuole liberare, o che si è messo da parte e, estendendo il senso, il rifiuto, cioè l’atto del rifiutare. «È come esplicitare – prosegue Iodice – il correlativo oggettivo che sta dietro i miei lavori da tempo: le cose, le persone, le storie ultime». Sogno ed eredità guardano al futuro, mentre scarto e rifiuto si rivolgono al passato. E il presente? «Direi con T. S. Eliot – risponde – che tutto il tempo è eternamente presente e tutto il tempo è irredimibile. Lo scarto è una piccola possibilità di redenzione del passato, un modo per risignificarlo, liberandolo, nel presente».

Courtesy of Sala Assoli

L’ambito di indagine è la pòlis, la comunità cittadina, chiamata a essere “drammaturga” del processo creativo. Attraverso una chiamata pubblica, infatti, Davide Iodice ha raccolto oltre duecento reperti, per altrettante tragedie personali, ma anche collettive. Il lavoro è iniziato nel 2018 per il Napoli Teatro Festival Italia con un laboratorio presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli: un materiale umano e narrativo incandescente per una scrittura polifonica che ha portata alla Luna, Premio ANCT (Associazione Nazionale Critici di Teatro) nel 2019.

Dopo il debutto a Palazzo Fondi, lo spettacolo è sceso nelle “viscere” di Napoli con una messinscena ripensata per lo spazio di Sala Assoli. Qui ho visto prendere vita, tra le altre cose, messaggi lasciati prima di un addio, denunce di abusi inconfessati, l’abito per il funerale di un padre o quello di un matrimonio finito. Parlarne con Davide Iodice per questa intervista mi ha dato la possibilità di ripercorrere il progetto, di indagarne le scelte e di interrogarci se liberarci dei e dai rifiuti sia un possibile primo passo per ritrovare il senno. Come Astolfo dell’Orlando furioso di Ariosto, ma su un’altra Luna, quella di «un rimosso-irremovibile che noi collochiamo nel corpo della città, come un cuore lacerato e pulsante. Violenza, amore, malattia, morte, lacrime, infanzia, identità, ne costituiscono la sostanza».

Come hai scelto tra gli oltre duecento reperti per comporre la drammaturgia della Luna?

Il mio lavoro si articola sempre per accumulo. Qui i segni si sono ammassati per oltre un anno ed è stato proprio uno degli ultimi oggetti consegnatimi, un atto di morte tenuto custodito per anni, e la testimonianza a esso legata, che mi hanno fatto tornare indietro a sequenziare il materiale.

C’è differenza tra scarto e rifiuto? Ci sono scarti che non diventano rifiuti?

Abbiamo raccolto gli oggetti più diversi. Alcuni rappresentano un rifiuto in senso psicologico agito o subito, un rimosso difficile da rimuovere, ma ci sono anche oggetti dimenticati, che hanno ritrovato un senso proprio grazie alla chiamata pubblica che abbiamo attivato. Tutti, in ultima analisi, sono reperti di un’archeologia umana del sommerso che ci pareva importante riportare alla luce.

Courtesy of Sala Assoli

Che cosa rifiutano i rifiuti che avete scelto? A cosa o a chi, cioè, dicono “no”?

Non c’è una risposta univoca: a una parte di sé, ci dicono alcuni oggetti, a un’idea della felicità astratta altri o, ancora, alle convenzioni e, infine, al dolore.

Quale energia ha attraversato, nutrito, guardato questa Luna nuova a Sala Assoli?

Il lavoro con il gruppo è stato di messa a disposizione totale e trasparente delle testimonianze, un lavoro di destrutturazione profonda dell’interpretazione intesa come rappresentazione. L’azione performativa si compie più come una messa in corpo delle identità e delle voci, una mediazione espressiva. In questa ripresa, poi, abbiamo provato ad accogliere nelle repliche anche reperti consegnati un’ora prima: è stato un esperimento molto interessante, che richiede empatia e sospensione del giudizio, ma anche un’idea della messa in forma più libera.

La scena è ingombra di sacchetti di plastica, che restano impigliati a figure fatte come di fango rappreso. In questo mondo che ha cancellato, distrutto la natura, gli oggetti e i racconti si mescolano gli uni con gli altri. Per cercare di liberarli l’uno attraverso l’altro?

Vengo da una terra, l’area vesuviana, dove i rituali, per quanto sempre più compromessi dalla modernità e dal consumo, sono ancora parte attiva della rappresentazione sociale di alcuni nuclei. Derivo da lì le mie carnevalate e le mie processioni, che percorrono il mio teatro da oltre trent’anni. Anche le maschere, l’argilla, la materia viene da lì e dal mio interesse antropologico. Questa stessa terra magica è anche terra depredata, discarica abusiva del centro città. La visione lirica si innesca su quella testimoniale, le visioni si sovrappongono, la ricomposizione e il senso ultimo sta solo nell’atto percettivo del pubblico.

Courtesy of Sala Assoli

Tra tutte le figure rischiarate dalla Luna ce n’è una che mi ha colpito particolarmente: quella in nero. Toglie e dà: ti toglie quello che hai e ti dà quello che non hai. Chi è? Chi rappresenta?

Io la chiamo Ombra. È una figura che mi accompagna da tempo e che, come altre, fa parte di un mio alfabeto che ritorna in frasi mutate nei miei lavori. Nasconde e partorisce la luce in fasi diverse, ci cancella, ma ci rivela anche e poi, se proprio vogliamo essere sinceri e didascalici, è anche la depressione.

Restano le scarpe per terra, le impronte del passaggio delle storie, in uno spazio che da esterno si fa interiore, e ti graffia dentro. E poi? Che cosa rimane una volta sfogate tutte le lacrime?

Rimane la luna, la nostra volontà di accenderla in noi come luce certamente più malinconica, ma potente, che governa il ciclo delle fioriture e delle maree.

 

LA LUNA
un percorso di ricerca e creazione a partire dai rifiuti, gli scarti, il rimosso di una collettività

ideazione, drammaturgia e regia Davide Iodice
aiuto regia Ilaria Scarano
training e studi sul movimento Fabrizio Varriale
spazio scenico e maschere Tiziano Fario
costruzioni scenotecniche Luciano Di Rosa
costumi Daniela Salernitano
assistente ai costumi Ilaria Barbato
direzione tecnica Antonio Minichini
luce e suono Sebastiano Mazzillo
allestimento Fabio Cosimo
foto di scena Cristina Ferraiuolo
con Francesca Romana Bergamo, Veronica D’Elia (Annamaria Palomba), Fabio Faliero, Lia Gusein Zade (Alice Conti), Biagio Musella, Damiano Rossi, Ilaria Scarano, Fabrizio Varriale
produzione Interno 5 in collaborazione con Teatri Associati di Napoli
co-produzione Casa del Contemporaneo
direttrice di produzione Hilenia De Falco

Un ringraziamento particolare va a tutte le persone che, consegnando i propri oggetti, hanno reso la compagnia partecipe di una parte della propria vita.

Sala Assoli, Napoli | 19 novembre 2023