RENZO FRANCABANDERA | Ha preso il via a ottobre e proseguirà fino a maggio 2024 presso il Teatro Metastasio di Prato il progetto Da vivi – Il Miracolo della Finitezza, curato da Elisa Sirianni e Mario Biagini, con la consulenza di Carlo Biagini e Marcella Gostinelli, e sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Prato e con la collaborazione di una grande rete di partner.
Si tratta di un progetto aperto dedicato al tema della mortalità e in cui il teatro svolge il ruolo di spazio di dialogo per le tematiche più trasversali e delicate. A latere del progetto principale, l’idea si sviluppa poi in una serie di ulteriori iniziative, con assemblee cittadine e la proposta di un Patto di ospitalità, un laboratorio teatrale dedicato alla cittadinanza che si concluderà con la presentazione di uno spettacolo collettivo. Oltre che spazio di confronto fisico, Da vivi è anche uno spazio digitale, un Gruppo Facebook nato per scambiarsi opinioni e materiali sul tema, oltre che informazioni sulle tappe del progetto. Il prossimo appuntamento dal vivo dal titolo Anziano sarai tu. La vecchiaia negata che genera infelicità è previsto venerdì 15 dicembre. Dialogheranno sul tema Lidia Ravera, scrittrice, Maia Cornacchia, analista biografica a orientamento filosofico, Guido Gori, medico geriatra e psichiatra, ex responsabile U.O. Complessa di Geriatria (ASL Toscana centro), fondatore e conduttore del Centro Diurno Alzheimer “Le Civette”. Modera Elisa Sirianni.

Meglio far finta di essere eternamente giovani o imparare ad accettare il ciclo della vita, che in ogni fase riserva sorprese, a saperle vedere? Meglio non invecchiare, dicono in tanti. «Se non invecchi, di solito sei morto prima», fa notare Carlo Biagini.

Su questi e altri temi abbiamo intervistato proprio Lidia Ravera.

Perché ha accettato l’invito a questo evento? Cosa la incuriosiva, cosa l’ha spinta a confrontarsi con il tema in questione?

Sì, mi è sembrato un tema interessante: è un grande tabù nella nostra cultura, ma è qualcosa con cui facciamo i conti. Soprattutto oltre una certa età: io in particolar modo li ho fatti da subito, ma in questo sono io quella patologica. Nella norma, si comincia a fare i conti con il limite quando hai un passato più lungo, molto più lungo del futuro che ti aspetta.

La copertina del libro di Lidia Ravera “Age Pride” edito da Einaudi

L’idea, invece, del libro Age Pride come le è venuta? Perchè buttare giù questi appunti sull’orgoglio dell’età matura?

È perché la stavo attraversando. E poi, perché ho avuto il problema dell’invecchiamento, che poi è il problema più che altro della condizione umana, del fatto che hai una vita sola e quella vita è a termine.
È un problema che io ho sentito in maniera particolarmente dolorosa fin da quando ero una ragazzina di 12-13 anni.
Così, si è trasformato poi nel mio mondo poetico. Quasi tutti i miei romanzi parlano di questo e ne ho pubblicati una trentina. Sì, sicuramente negli ultimi 6. Infatti, proprio negli ultimi anni questo tema è diventato una sorta di leitmotiv da terzo tempo.
Sono tutti lavori e libri in cui comunque questo tema in qualche modo ritorna. Sì, sì.

E il punto di vista rispetto a questa tematica in questi anni è cambiato in qualcosa?

Diciamo che le mie protagoniste sono cresciute con me.
Io ho scritto l’autobiografia collettiva della mia generazione a partire da quando avevamo 16 anni, ai tempi di Porci con le ali, poi i 20 anni, Ammazzare il tempo, poi Grandi, poi Nessuno al suo posto, Due volte vent’anni a 40 anni, poi Eterna ragazza a 50 anni, e poi Piangi pure, La donna gigante.
È un tema che mi appassiona l’età. Mi ha sempre appassionata, anche in tempi non sospetti, quando ero una donna giovane, una scrittrice giovane.
Pensi che sono stata a lungo l’unica scrittrice pubblicata, essendo nata nella seconda metà degli anni Cinquanta. Molto a lungo.

La questione anagrafica è un invito a riflettere anche sul tema di come le donne vivono il rapporto con l’età. Ciò raccoglie un’ulteriore sfumatura, mi pare di poter dire, no?

Beh, noi siamo valorizzate finché siamo oggetti di desiderio; poi quando siamo nell’età fertile, perché siamo madri, e poi fine della festa: dovremmo scomparire, diventiamo trasparenti. E questo è qualcosa che le donne soffrono molto e gli uomini no. Il nostro sguardo su di voi è molto più generoso: nessuno vi chiede di avere 23 anni tutta la vita.
Mentre, invece, a noi lo chiedono, e quindi l’invecchiare delle donne diventa centrale, adesso che, insomma, il terzo tempo della vita dura 30 anni, se vogliamo farlo partire dai canonici 60/65: una ventina/trentina d’anni di vita davanti li abbiamo ancora. Non è poco e noi siamo una maggioranza. Il tempo è lungo, la vecchiaia è lunga ormai.
Adesso si campa, quindi bisogna attrezzarsi.
Ho scritto questo comizio (perché è più che altro un comizio, una requisitoria, ben argomentata per carità, però, insomma, la forma è quella del comizio), perché mi sono resa conto che persino io, che ho riflettuto, ragionato e scritto su questo tema per 47 anni, persino io mi vergognavo di dire la mia età.
Ho detto: “Aiuto!”.
E ho scritto questo libro che, devo dire, è stato molto amato, tuttora lo sto presentando in giro, perché continuano a invitarmi. Mi portano in trionfo tipo “Santa Subito”, perché ho messo un dito in una piaga, un gomito anzi. E la piaga è il fatto che questa società senile e giovanilista ci ammazza di stereotipi, per un verso.

Per altro verso, però, c’è invece anche una grande nuova letteratura che parla della sessualità dell’età matura, dell’affettività dell’età matura. Cioè, contestualmente all’invecchiamento della popolazione, c’è anche un nuovo parlare e anche una libertà di costumi che 30 anni fa non esisteva e che riguarda la popolazione di età avanzata, non trova?

Perchè 30 anni fa non c’era, la popolazione matura. Questi 30 anni di vita in più sono abbastanza recenti e quindi adesso si sta cominciando a fare i conti, però bisogna stare attenti ai falsi amici: girano tante fandonie consolatorie, tanto sfruttamento consumistico, tutti i prodotti su cui c’è stampata la parola anti-aging che sono un business pazzesco.
Cioè, si è capito che c’è questa vita in più, che lì ci sono consumatori che si possono cooptare, si può fargli spendere un sacco di soldi in creme anti-aging, pasta, cibo, profumi, vestiti, qualsiasi cosa abbia il marchio anti-aging. Un’offerta incredibile si rivolge a questo segmento della popolazione che oggi conta 14 milioni di esponenti, abbondanti, 14 milioni! Sono il 23,8% della popolazione italiana, sono grosse cifre. Siamo tanti.
E quindi bisognerà incominciare a considerarci un problema politico importante.

Lidia Ravera

E se quindi non è una crema la ricetta per la felicità dell’età matura, secondo lei quali sono gli ingredienti per approcciare serenamente questo tempo della vita? Quali sono i nutrimenti veri che dovrebbero alimentarla?

Innanzitutto, si è quello che si è.
La vecchiaia non ti fa diventare qualcun altro. È una fase della vita come l’infanzia, l’adolescenza, la maturità. Quindi, sei quello che sei.
Puoi essere una persona aperta, capace di migliorare ogni giorno, generosa, oppure puoi essere ripiegata su te stessa, ipocondriaca, taccagna. Quello che sei, sei.
Non è che esiste la vecchiaia. È una fase della vita.
Allora: io penso alla vita umana come un viaggio e ogni età è un paese straniero. E sono tutti interessanti da attraversare. Se, invece, si fa come certi turisti, che quando partono hanno già il biglietto di ritorno e si annoiano di tutto e vogliono mangiare dappertutto solo la pasta come gliela fa la nonna, invece di sperimentare nuovi cibi, ecco, quelle sono le vecchiaie della gente girata indietro, voltata indietro. E sono asfissianti e asfittiche. Ma se, invece, continui a vivere con la curiosità del viaggiatore, a viaggiare nella vita con la curiosità e l’apertura mentale, puoi ancora fare mille scoperte e mille investimenti. James Hillman dice che la patologia più grave della vecchiaia è l’idea che se ne ha. E questa è una frase da scrivere sui muri.

Questi pensieri che lei faceva, l’hanno anche aiutata a considerare sotto un’altra luce il tema della morte? Per lei è stato, fin da molto giovane, presente nella sua vita. Che cosa è stato e che cosa è adesso questo tema per lei?

Io sono d’accordo con Montaigne, il grande filosofo, che diceva che bisogna parlare continuamente della morte. È l’argomento più interessante per qualsiasi conversazione. Bisogna farci i conti, guardarla in faccia, commentarla, dissacrarla o analizzarla. Bisogna comunque guardarla. E io guardo alla morte come si guarda alle cose importanti, ma anche quella è una parte della vita. La maggior parte delle persone non ha tanto la paura di morire, ma non riesce a immaginare di non esserci più. Non riesci a immaginare il mondo senza te stesso dentro. Bisogna esercitarsi.
Abbiamo questi 30 anni di vita in più, sono un buon momento per esercitarsi e imparare a morire.

Pensa che la spiritualità sia una ricetta per favorire l’attraversamento?

Non lo so. Io credo che ricette non ce ne siano. C’è un modo di porsi “giovanile”, cioè aperto e disposto al cambiamento e anche al rischio. E c’è un modo di guardare, invece, incancrenito, attento solo al proprio ombelico, che non ti porta da nessuna parte. Però, non esiste una ricetta. E poi, non è che la spiritualità stia tutta tra i religiosi, tra i cattolici.

No, certo, è chiaro. In assoluto dico, come pensiero…

In assoluto, il corpo è quello che ci condanna. E quello che non è corpo, che è mente, anima, chiamalo come vuoi, dura di più.

Dura di più o dura oltre?

Dura di più. Non dura oltre. Io non credo alla vita dopo la vita.
Invidio molto i cattolici, ma mi sembra una favoletta. Io penso che si finisce rosicchiati dai vermi e va bene così.

E quell’energia vitale dove va a finire? Anche solo a volerla leggere materialisticamente, alla Einstein, secondo lei dove va a finire quell’energia vitale?

Il corpo nasce e cresce in vecchia e muore.
Finisce. Si esaurisce.

È come una stella che si spegne, per così dire…

Melancholia I – Albrecht Dürer

Ma sì, io penso di sì. Naturalmente nessuno ha nessuna certezza, perché nessuno è tornato indietro a raccontarcelo. Quindi, non sappiamo. È l’unica parte dell’esistenza di cui non puoi fare esperienza, perché nel momento in cui la esperisci, finisci. Quindi nessuno sa. Mi viene da sorridere quando sento le omelie in chiesa con questa favoletta della vita dopo la morte, in cui saremo tutti insieme e ritroveremo i nostri cari defunti. Deve essere bellissimo crederci. È un ascensore che ti allontana dal patibolo, scrivo nel mio libro. C’è un film che si chiama Ascensore per il patibolo. Allora, io facevo questo giochino di parole, che la religione è un ascensore che ti allontana dal patibolo, perché è consolatoria. La favoletta cattolica è consolatoria e quindi riduce la fatica e anche la malinconia degli ultimi giorni, degli ultimi mesi, degli ultimi anni. Io non ci sono ancora arrivata, ma insomma…

Alla malinconia?

No, beh, io non sono portata. Sono una combattente, quindi vado avanti. Non sono ancora arrivata all’età degli acciacchi. Ho fatto una gara ancora domenica mattina di 10 km in campagna.

E questa cosa l’aiuta? La fa sentire, come dire, viva?

Beh, sto ancora in relazione con il resto del mondo, ho appena consegnato un romanzo che esce a febbraio, ero in radio poco fa a parlare della povera Giulia (Cecchettin, ndr) e della violenza sulle donne.
Corro, viaggio, lavoro. Non ho la pensione, quindi, lavorerò fino all’ultimo respiro e… basta. Non mi immagino senza scrittura nemmeno un minuto. Il giorno che non riuscirò più a scrivere accetterò volentieri la fine, perché la vita diventerebbe molto noiosa.

La scrittura è stata per lei una sorta di pratica. Oltre quello che ha scritto, è proprio l’atto dello scrivere che mi pare abbia connotato la sua esistenza: è possibile dirlo?

Beh, da quando ho cominciato a scrivere alle elementari non ho mai smesso, ed è l’unico luogo in cui riesco a ricostruire un ordine, un quadro completo, la sensazione di non essere preda della realtà, ma di modificarla, maneggiarla, raccontarla. Raccontare è molto più divertente che vivere.

Trova?

Sì. Lo vedi anche quando sei ragazzina che hai il fidanzatino: il momento più divertente è quando lo racconti alle tue amiche, mica quando lo vivi. Io nel racconto della vita ho trovato un appagamento continuo. Quindi, sono contenta della mia vita, perché l’ho raccontata.
Mi dispiace che finisca. però va bene così, nel senso che deve essere molto brutto quando ti guardi indietro e non ti piace quello che hai fatto; a me piace. Ho scritto una trentina di romanzi onesti, cercando di raccontare bene, usando la scrittura per capire.
E quindi, è diventata una ricetta molto importante anche per me, anche per la mia vita personale. Per esempio: quando scrivi un romanzo hai tanti personaggi e devi metterti dal punto di vista di tutti i personaggi. Questo ti rende una persona più empatica, meno giudicante, mai razzista, e più aperta; è un esercizio che consiglio a chiunque. È come un esercizio spirituale, quello sì.

Telemaco Signorini – Bambina che scrive

Non è che poi a volte diventa quasi un’ossessione? Non pensa che sia un modo per scampare al vuoto?

Beh, è uno dei migliori! C’è chi scappa dal vuoto prendendo psicofarmaci o antidepressivi, o si fa le pere, o s’ubriaca, o scopa compulsivamente. Tra i vari modi in cui uno sfugge all’horror vacui quello della scrittura è uno dei più eleganti e dei più formidabili, anche perché tu cerchi una cosa e non la trovi e però ne scopri un’altra che non avresti trovato. Quindi, sono degli sgambetti del destino che ti arricchiscono molto: non mi viene in mente nessun modo migliore per vivere anche altre forme d’arte. Mi è piaciuto molto essere una musicista, invidio i pittori, ma, insomma, vivere creando è il modo migliore di vivere.

E come si decide che un libro è finito?

Ah, te lo dice lui. Te lo dice chiaramente e, se non te lo dice, butta tutto! Vuol dire che il romanzo non è ben costruito, oppure non è onesto, non è autentico, insomma c’è una falla. A me ormai succede sempre questo piccolo miracolo: i miei personaggi mi portano giù per la discesa dopo che ho scavallato. Le prime 150 pagine sono in salita e poi parlano loro quando il libro è finito, quindi è la fase più allegra. La prima è più faticosa.

Dunque una buona fine è un elemento necessario dell’atto creativo, finanche della vita, no?

Le storie finiscono sempre aperte: io ho sempre dei finali aperti, perché la letteratura consente di non giudicare e io approfitto di questo privilegio, quindi non c’è giudizio, non c’è tesi da dimostrare.

Ma lasciare sempre l’idea che possa ancora succedere qualcosa è anche quello un modo per esorcizzare la morte, mentre poi la morte, la morte vera, sarà un finale senza doppia possibilità.

Con la morte bisogna farci amicizia, e non è semplice. Scrivere aiuta.

Lei è fra coloro che hanno avuto la fortuna di scoprire la propria àncora di salvezza, la scrittura, e a restarci aggrappata per tutto il tempo della vita con una meticolosità e un impegno a suo modo spirituale. Immagino che quasi tutti i giorni si svegli, si alzi, e poi dopo un po’ decida che è tempo di riprendere la pratica, la sua “preghiera quotidiana”. È stata a suo modo religiosa, ha trovato una divinità che comunque l’ha accompagnata, c’è poco da fare… Si è scelta una divinità pagana. Questo le avrà dato una maggior consolazione.

Ah, mica tanto…

No?

È molto difficile essere non credenti, perché ti devi arrangiare da solo.

Però, è anche vero che questo nel suo caso le ha favorito comunque una vita piena di incontri, di relazioni…

È un mestiere molto solitario scrivere. Stai seduta su una sedia con il tuo iPad (io lavoro con l’iPad), con il tuo device davanti, e sei lì, chiusa in una stanza, con le tue parole. È una vita zero-socievole, e come diceva Cesare Pavese è un soliloquio che parla con tutto il mondo. Sei sempre sola (o solo), e se non hai un penchant per la solitudine è meglio che lasci perdere, perché non sarai mai un bravo scrittore o una brava scrittrice. Ti deve piacere stare sola. Però, è indubbiamente così: stai sola, ma parli con tutto il mondo e quindi è una solitudine “pregiata”.

Esatto: da questo punto di vista lei si è messa in clausura da sola, e poi alla fine dei libri c’è un tempo in cui lei si dedica agli incontri, alle presentazioni…

Ho anche cresciuto due figli… nel monachesimo c’è stato anche quello.

E come è stato scrivere e fare la scrittrice, essendo genitrice?

Ho generato uno scrittore, così si è chiuso il cerchio!
Simone de Beauvoir diceva che le donne si dividono in donne che fanno figli e donne che fanno libri.
Io volevo fare libri, ma volevo fare anche figli: allora ho fatto un figlio che fa libri e una figlia che insegna filosofia politica negli Stati Uniti e quindi, evidentemente, la mia passione per la letteratura è tracimata… perché la passione, se è autentica, la condividi con le persone che ami.

 

DA VIVI – Il miracolo della finitezza
Conferenze – Un Laboratorio Teatrale – Assemblee – Gruppo di ricerca e Interviste – Spettacoli
Uno spazio di dialogo e creazione sul tema della morte 

un progetto di Elisa Sirianni sviluppato e curato con Mario Biagini e Accademia dell’Incompiuto
con la consulenza di Carlo Biagini e Marcella Gostinelli
prodotto dal Teatro Metastasio di Prato
con il sostegno di Fondazione Cassa di Risparmio di Prato
partner del progetto (in aggiornamento): AFT Campi Bisenzio – Aggregazione Funzionale Territoriale; Associazione islamica Firenze e Toscana; Associazione La Stanza Accanto; Azienda USL Prato – Cure palliative Prato e Pistoia; Azienda USL Prato – Hospice Fiore di primavera; CNAI Toscana – Consociazione Nazionale delle Associazioni Infermiere/i; FILE – Fondazione Italiana di Leniterapia; Fondazione Sandro Pitigliani; Fraternita di Misericordia di Carmignano; LILT Prato – Lega Italiana Lotta ai Tumori; Mechrí – Laboratorio di filosofia e cultura; Ospedale Santo Stefano di Prato – Reparto di Oncologia; PIN-Prato Università degli Studi di Firenze/Scuola di Architettura/Corso di laurea di Pianificazione della città, del territorio e del paesaggio/corso di Antropologia urbana e rurale; Pubblica Assistenza di Signa
squadra artistica Accademia dell’Incompiuto (in ordine alfabetico): Felicita Marcelli – attrice, cantante, regista teatrale, compositrice musicale, pedagoga; Franco Pavan – liutista, musicologo, pedagogo; Jorge Romero Mora – attore, cantante, regista teatrale, pedagogo; Mario Biagini – attore, cantante, regista teatrale, pedagogo; Pei Hwee Tan – attrice, cantante, pedagoga, mediatrice culturale; Sambou Diarra – attore, facilitatore, mediatore culturale; Silvia Rubes – attrice, pedagoga, scrittrice; Valerio Mazzoni – trombettista, compositore musicale, pedagogo; Vicente Cabrera – attore, musicista, regista teatrale, operatore sociale; Viviana Marino – cantante, attrice