MATTEO BRIGHENTI | Quando il teatro le è parso fermo sulle sue posizioni, mentre la società intorno cambiava volto, linguaggio, ritmo, Carla Peirolero ha capito che fare l’attrice non bastava più. Per un moto di ribellione, quindi, ha dato vita con Valentina Arcuri a Suq Festival. «E poi – aggiunge l’ideatrice e direttrice artistica – c’era l’esigenza di avere più autonomia. Il periodo al Teatro della Tosse (ne ho fatto parte dal 1987 al 2000) è stato fondamentale per la mia crescita professionale, ma era giusto inseguire il sogno che mi aveva di fatto conquistata».
Quel sogno di una festa mediterranea, di un bazar dei popoli, dove le culture si incontrano, quest’anno ha compiuto 25 anni. Ogni estate, dal 1999, il Porto Antico di Genova vive per una decina di giorni di spettacoli, concerti, incontri, artigianato, cucine del mondo e buone pratiche per l’ambiente. «Al Suq si sta bene. Potrei anche dire, con Don Andrea Gallo, che ci unisce – afferma Peirolero – la consapevolezza di andare “in direzione ostinata e contraria” rispetto a un certo pensiero che vede nell’altro un nemico da cui difendersi».

La copertina de “Le voci del Suq. Dal 1999 l’intercultura in scena” edito da Altreconomia in collaborazione con Suq festival

Ora Suq Festival parla anche attraverso un libro: Le voci del Suq. Dal 1999 l’intercultura in scena (edito da Altreconomia in collaborazione con Suq Festival), a cura di Giulia Alonzo Oliviero Ponte di Pino, con Alberto Lasso e la stessa Peirolero. «Il tratto distintivo di una “persona del Suq” – dice – è la curiosità, l’interesse a conoscere, la voglia di mettersi in gioco e in relazione, per i teatranti la spinta a uscire da certi luoghi rassicuranti, e a volte altrettanto spenti, del teatro». Un esperimento artistico e sociale unico, guidato da uno staff quasi interamente di donne. Un modo di ripensare il teatro e le sue funzioni, riconosciuto a livello internazionale, ma che con l’amministrazione genovese, per come si è delineato in questa intervista, ha qualche difficoltà.

Sūq è una parola araba che sta per mercato, luogo di mercato; strada ricca di bazar e di negozi. Come si lega questa definizione a un evento prettamente culturale come Suq Festival?

Scrive Lucy Ladikoff, docente di arabo, nel libro Le voci del Suq: «Chiunque avesse qualcosa da esibire, da scambiare o vendere, lo portava al sūq: commercianti di cammelli, venditori di stoffe, di spezie, orafi, cantastorie e poeti». Si riferisce al sūq preislamico, centro di potere economico e culturale. Quando con Valentina Arcuri e con lo scenografo Luca Antonucci abbiamo dato vita al festival, ci interessava creare uno spazio teatrale che potesse essere simbolico di scambi e incroci di genti e culture, e che fosse affascinante, in grado di portarci in un’altra dimensione, più fortemente mediterranea e anche esotica. Nelle radici del sūq abbiamo quindi trovato coincidenze con quanto stavamo realizzando.

Quale comunità si riunisce, rappresenta e riconosce in Suq Festival?

È una comunità variegata, di cui fanno parte artisti, scrittori, gli ospiti del festival, ma anche ristoratori e artigiani, comunità di immigrati, giovani associazioni ambientaliste, i visitatori, gli spettatori. Prendo a prestito le parole di Antonucci, sempre da Le voci del Suq: «E noi che lo abitiamo, nel tempo del Suq che è anche il tempo della sua rappresentazione, complici inconsapevoli di questa vertiginosa mise en abyme, immaginandoci sia ai confini del mare, sia ai confini del deserto, ci lasciamo “entrare in scena” per diventare suoi personaggi, spettatori, attori, narratori delle nostre storie e delle infinite storie del mondo».

“Madri Clandestine”, Compagnia Suq, 2015. Foto di Max Valle

Parliamo proprio de Le voci del Suq. Il libro vuole essere un «Suq di carta». Così, la prima parte è dedicata alla composizione di un dizionario che unisce alle persone del Suq le parole del Suq. Si susseguono 37 tra autrici e autori, tra cui ci sei anche tu. Perché hai scelto proprio la parola Impresa?

Per chiarire che è possibile che a un certo punto della vita una persona come me, che aveva scelto di fare l’attrice, si ritrovi a imparare un nuovo mestiere, diventando “manager culturale”. La spinta è stata il desiderio di dare continuità a un’idea, mantenendo uno spirito indipendente. Le risorse erano poche e quindi bisognava mettersi a disposizione a più livelli. E comunque, ci sono state nel teatro celebri donne impresarie, ogni tanto mi piace pensare di seguirne le orme.

Quali economie muove il Suq?

Il budget del 25° Suq Festival è stato di circa 150.000 euro, per dieci giorni di programmazione, con vari luoghi da attrezzare e multiformi attività da garantire: dalla ristorazione al teatro, dai laboratori ai concerti, alle presentazioni di libri, alle buone pratiche ambientali. Nel report sul sito del Suq diamo tutti i numeri: ad esempio, le percentuali di entrate, solo il 38% arriva da contributi pubblici: Ministero Cultura, Regione Liguria, Comune di Genova. Il resto da sponsorizzazioni, donazioni, entrate di progetto, quali le quote di artigiani e ristoratori, bigliettazione, Suq card annuali.

Com’è nata l’idea?

È nata da un corso per animatori interculturali lanciato dalla Provincia di Genova nel 1998 – in anticipo sui tempi! – dove io e Valentina Arcuri eravamo state chiamate come docenti sulle tecniche teatrali. Nel saggio finale è maturata l’idea di creare un mercato interculturale, in quanto luogo di comunicazione e scambio per eccellenza, ma in una cornice scenografica che ne esaltasse la teatralità.

L’essere donna ha fatto sì che la strada fosse ancora più in salita?

Per le donne, a volte, è più difficile farsi prendere sul serio, sia nel rapporto con i decisori, sia nel team di lavoro. Ma, d’altra parte, ritengo che al Suq, che ha uno staff quasi interamente al femminile, abbia giovato una certa morbidezza. Abbiamo da subito voluto che fosse accogliente, e non ci siamo mai dotate di security. Nonostante, a volte, ci sia un grande affollamento, non è mai successo nulla di spiacevole.

Il pubblico al Suq, 2016. Foto di Giovanna Cavallo

Ci sono stati incontri che quella strada, se non discesa, l’hanno riportata almeno in piano?

Tanti incontri hanno reso la salita meno faticosa, le relazioni che negli anni si sono stabilite con molte realtà del territorio, per cui la co-progettazione è diventata abituale, non una parola di cui vantarsi, ma una pratica concreta e molto positiva per noi e per il pubblico. I confronti con altri operatori culturali, con compagnie e artisti con cui abbiamo sentito affinità, progetti come Performing Italy che, da Londra, ci venivano proposti perché la nostra coerenza di ricerca era riconosciuta. E l’affetto del pubblico, il Suq entra nel cuore di chi lo frequenta.

Dopo le persone, affrontiamo adesso della città. Come dialoga Genova con Suq Festival?

Genova intesa come cittadinanza dialoga splendidamente con il Suq. Altra cosa è Genova come amministrazione. Non posso dire che non ci sia dialogo, ma se penso che negli anni abbiamo fatto almeno tre progetti per l’utilizzo di spazi non utilizzati, o male utilizzati, al fine di trovare una sede permanente per il Suq, che potesse dare vita a un laboratorio permanente sulle tematiche interculturali, senza ricevere alcuna risposta, allora mi viene da pensare che non ci sia stato un dialogo vero e profondo. Molti complimenti, ma poco interesse a fare di un festival riuscito, anche rispetto a temi sensibili, una risorsa continuativa per la città.

E viceversa, come dialoga Suq Festival con Genova?

Il dialogo è sempre aperto da parte nostra, e Genova lo sa. Un dialogo che continua anche fuori dai confini del Festival, con spettacoli e progetti che hanno sempre una bella risposta e che servono a tenere vivo il discorso.

Il Suq di notte. Foto di Giovanna Cavallo

Che cosa ha portato Suq Festival a Genova che prima non c’era?

Ha creato uno spazio dove dare rappresentazione al bello del viaggio che gli altri ci portano (che tra l’altro è anche il titolo di un progetto editoriale fatto nel 2004). Nel 1999 erano già molte le persone migranti che erano arrivate in città, convivevano con noi, ci aiutavano nelle case per la cura di anziani e bambini, lavoravano nei cantieri, sedevano accanto a noi sugli autobus, ma non si conoscevano le loro tradizioni, l’arte, la cultura dei Paesi da cui provenivano. Il Suq ha reso visibile ciò che non lo era. Ha dato l’opportunità di considerare le culture diverse dalle nostre attraenti e interessanti, ci ha fatto sedere intorno alla stessa tavola condividendo piatti diversi e creando nuovi legami.

L’obiettivo, quindi, è far capire che «confondersi con gli altri è il solo modo per fare umanità», per dirla con Marco Aime?

È una riflessione che condivido profondamente, non c’è alternativa se vogliamo salvarci dalla deriva di violenza e di scontro che pare permeare l’oggi, ma non ho una formula magica perché diventi patrimonio comune. So che esperienze come la nostra hanno saputo, nel loro piccolo, offrire un esempio di come stare insieme agli altri, rispettandosi reciprocamente, aumenti la qualità della vita. Continueremo a difendere e a promuovere il messaggio che contiene il Suq, non a caso riconosciuto best practice d’Europa per il dialogo tra culture e la promozione delle diversità.

Don Andrea Gallo al Suq, 2011. Foto di Max Valle

Per concludere, Le voci del Suq è dedicato a Don Andrea Gallo e a Roberta Alloisio. C’è anche un’altra “persona del Suq” che non c’è più e che voglio ricordare: Emanuele Luzzati. Quale loro discorso Suq Festival porta avanti? Quale loro viaggio continua?

Emanuele Luzzati è stato il primo nel 1999 a entrare al Suq, Luca Antonucci era suo collaboratore, era nostro amico, oltre a essere il mio direttore artistico al Teatro della Tosse. Volevamo il suo parere, e lui ne fu entusiasta. Legatissimo a Genova era aperto e curioso verso tutte le culture, un artista internazionale, il Suq ha recepito questo spirito. Forse, anche quello di trovare soluzioni ai problemi degli allestimenti con la fantasia, più che con le risorse economiche. Raccontava spesso di quante volte si trovava a cercare soluzioni poco costose, agli inizi della carriera, per le sue scenografie, anche tra i rifiuti. Lui non sprecava nulla, da buon genovese, e sapeva trasformare in oro quanto toccava. La nostra scenografia originale del primo Suq è ancora la stessa, ogni anno con cura ne vengono sistemate alcune parti, Luca Antonucci viene da Parigi a sovrintendere all’allestimento, questa cura credo sia un modo di onorare l’insegnamento del maestro.
Roberta Alloisio è stata con noi da subito, colonna di questa avventura, sorella artistica, e Don Andrea Gallo è stato un compagno appassionato del nostro «viaggio meraviglioso tra la gente di tutti i continenti», come lui definiva il Suq. È anche stato in scena con noi nello spettacolo Esistenza soffio che ha fame.
Ne sentiamo le voci e camminano al nostro fianco. Il viaggio continua con loro.