SARA PERNIOLA | Dopo aver visto l’intenso spettacolo del Teatro dei Venti Io sono Cassandra – un altro studio per la misura umana – la cui recensione è disponibile qui – presso la Casa Circondariale Sant’Anna di Modena, abbiamo intervistato gli ideatori del lavoro: il regista e direttore artistico della compagnia Stefano Té che, insieme ad Azzura D’Agostino – anche autrice dei i testi –, ha curato la drammaturgia della pièce, e Oxana Casolari e Francesca Figini, che hanno condotto il percorso di creazione.

Come è stato costruire questo lavoro e quali sono stati gli atteggiamenti e le reazioni delle attrici?

OC: Il percorso nella sezione femminile è partito da molti anni, con non poche difficoltà, perché presenta alcune criticità, dovute all’organizzazione interna del Carcere, che finora avevano ostacolato l’esito davanti a un pubblico e la creazione di uno spettacolo. In questo caso, abbiamo incontrato un gruppo con cui, una volta stabilizzata la presenza delle attrici e avuto il permesso di provare nella Sala Teatro, si è lavorato in modo molto intenso. Le partecipanti hanno assorbito le indicazioni sempre con grande prontezza e restituito con generosità. Sono state rapidissime nell’apprendere e praticare qualcosa che non avevano mai sperimentato prima, alcune in modo davvero sorprendente.

In quale modo attraversare la figura di Cassandra, con le sue parole e la sua preveggenza, ha aiutato le attrici a dare libero sfogo alle “rivelazioni” creative?

AD: Cassandra ha risuonato da subito nel gruppo. Sia individualmente che collettivamente, infatti, questa donna che nella tradizione è di fatto una reietta, una reclusa, dotata del dono della preveggenza ma non della persuasione, ha colpito molto le partecipanti. Non solo in quanto attualmente detenute, ma forse proprio come donne, madri, mogli, sorelle, figlie. La condizione di Cassandra si è rivelata utile per esprimere qualcosa di profondo di ciascuna di noi.

Ci sono stati momenti particolarmente complessi durante la realizzazione di questo spettacolo?

FF: All’inizio del percorso erano presenti altre partecipanti, che poi per motivi diversi non hanno proseguito. Il carcere è un luogo in cui non è sempre semplice mantenere le condizioni di lavoro, sia per quanto riguarda la formazione dei gruppi (talvolta i detenuti e le detenute vengono trasferiti, o hanno provvedimenti, o questioni che impediscono una continuità), sia per quanto riguarda gli spazi e le tempistiche. Per esempio nel femminile non c’è un teatro e non è sempre possibile andare nella sezione maschile, ma naturalmente l’ambiente in cui si lavora condiziona il lavoro stesso.

ph. Chiara Ferrin

Il teatro in carcere è da molto tempo una pratica d’avanguardia. Un caposaldo consolidato di una ricerca artistica, culturale ed emotiva della condizione umana di altissimo livello. Voi, da esperte dei percorsi di creazione effettuati in carcere, cosa pensate a riguardo e quali pensate possano essere le migliorie da effettuare in questo campo? 

FF: Si possono elaborare delle “buone pratiche”, ma non esiste un metodo certo, applicabile in tutte le condizioni. Dopo quasi vent’anni d’esperienza ci rendiamo conto che c’è sempre da imparare, da ascoltare, soprattutto per cogliere i bisogni, le necessità dei gruppi e del lavoro, e le occasioni che si presentano.  Anche tra un Carcere e l’altro in cui operiamo, o tra sezioni maschili e femminili, ci sono differenze sostanziali. Il Carcere non è nato per accogliere il Teatro, al massimo lo usa come strumento, ma non è un luogo concepito per ospitare la materia incandescente della creazione artistica. Ma forse proprio per questo, paradossalmente la favorisce. Perché nelle condizioni difficili la relazione umana ed artistica si possono affinare. Questa Cassandra con le detenute del Carcere di Modena ha mosso un grande interesse all’interno dell’Istituto. Tra il pubblico abbiamo avuto tanti volontari, insegnanti, membri del personale sanitario – il Carcere è una città nella città, quindi è popolata anche da tanti lavoratori esterni che ne consentono il funzionamento – anche persone che in passato non avevano mai partecipato ai nostri spettacoli. Ciò che possiamo chiedere al nostro lavoro è di non perdere questa condizione di ascolto, non farci bloccare dai pregiudizi, affinare le proposte, senza evitare i percorsi difficoltosi. 

Alla luce della lunga esperienza di Teatro dei Venti in carcere, sempre alimentata dalla volontà promuovere il reinserimento sociale e supportare umanamente, da dove nasce, nello specifico, questo progetto e perché la scelta è ricaduta proprio sulla figura di Cassandra?

AD: L’idea da cui questo lavoro è partito è stata quella dell’oracolo, come emblema per interrogarsi sul futuro. Andare in un luogo speciale per conoscere la verità. Quello su cui lavorare non è stato quindi mettere il carcere al centro, che non è mai nelle nostre intenzioni quando lavoriamo con i detenuti, ma al contrario ragionare su cosa si può vedere e scoprire guardando oltre. Oltre la propria condizione, che è sempre un momento, qualcosa che passa, che cambia. Dentro e fuori dal carcere. Per questo Cassandra, la prigioniera, la reclusa che dice la verità e non è mai creduta, si è rivelata una buona ispirazione per ragionare sul futuro. 

Nella trasversalità e pluralità delle vostre esperienze, in che modo vedete il carcere come luogo di metafora per il vostro teatro?

ST: Lavoriamo in Carcere anche cinque giorni a settimana in alcuni periodi, ma sempre teniamo a mente che in quel luogo siamo ospiti. Credo che questo sia determinante nel definire il nostro rapporto con il contesto. La nostra presenza in Carcere crea un presidio, una possibilità, che sappiamo essere fragile, ma tenace. L’obiettivo è quello di spostare il limite, l’asticella, sempre un po’ più in là, incrementando le possibilità di creazione e di relazione. L’abbiamo fatto in passato, mantenendo la nostra presenza, da remoto, durante il difficile periodo del lockdown nel 2020, come testimonia Odissea Web, il film prodotto con i video delle prove su Skype. L’abbiamo fatto con Odissea, in cui il pubblico entrava in due Carceri, Modena e Castelfranco Emilia, con un bus navetta, in un attraversamento armonico, non interrotto dai consueti controlli di sicurezza. Questo per dire che il Carcere è anche un banco di prova, una vera e propria officina di creazione, dove è possibile confrontarsi con la purezza del mestiere, con l’umanità nella sua essenza, tra disciplina e libertà. Il nostro lavoro non è legato esclusivamente al Carcere, ma il Carcere è parte di una mappa più ampia.

Il vostro lavoro in carcere si alimenta delle emozioni più forti che si colgono in quegli spazi e tra le attrici detenute e gli attori detenuti: quali emozioni e domande sorprendenti vi colgono ogni volta che curate regia e drammaturgia di questi spettacoli teatrali? E, nello specifico, di questo, Io sono Cassandra?

ST e AD: In carcere si incontra un’umanità densa. È un luogo di sofferenza, un’istituzione disciplinata, in cui siamo in qualche modo davanti alla vita cruda, con i confini labili sul bene e il male, su cosa sia la libertà, su cosa conti davvero, un luogo in cui emergono le cose fondamentali. Fare teatro con persone che hanno tutto questo nel corpo, e in loro stesse interamente, rende molto viva e vibrante quest’arte che è fatta con e per i corpi e lo spazio e la voce. Cassandra ci ha parlato dal fondo di una cella, attraversando i secoli, e la sua voce era perfetta.

ph. Chiara Ferrin

Azzurra, tu hai scritto i testi: com’è stato questo processo? Hai preso ispirazione da del materiale già esistente, il quale poi si è ispessito in itinere, o hai impostato il lavoro ex novo?

AD: I testi sono nati a partire da suggestioni che ho condiviso con il gruppo  tramite alcuni incontri di scrittura collettiva. Quando in quello che usciva dall’esercizio trovavo un verso che mi risuonava, lo tenevo lì e quando veniva il momento lo inserivo nella poesia che stavo scrivendo in quel momento. Siccome pensavo all’oracolo e al futuro, mi sono basata su elementi di chiromanzia, arte che conosco, e che ho poi condiviso con il gruppo. Con Stefano un po’ alla volta si è pensati a un’arcata, un percorso nel quale toccare vari punti intorno a questo domandarci cosa sia la verità, il giusto, il futuro… e ho composto quindi delle poesie che poi sono state cucite in un unico copione. Ovviamente, quando scrivo poesie rielaboro sempre la poesia di altri. E mi attengo alle richieste di direzione che vengono dalla regia e dai corpi e le voci delle attrici.

Quali sono i progetti futuri Teatro dei Venti? 

ST: In questi mesi stiamo lavorando a un nuovo spettacolo di strada sul Don Chisciotte, un progetto itinerante per le strade e le piazze, che presenteremo in Festival all’estero e in Italia. Anche questo lavoro si interseca con il Carcere, infatti i costumi e le scenografie, come per Amleto, sono stati disegnati da un detenuto della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, all’interno del nostro progetto europeo AHOS, All Hands on Stage. Poi stiamo iniziando la produzione di una nuova trilogia nelle Carceri, un progetto che indaga i limiti dell’umano prendendo come pietra di paragone le vicende di alcuni dei personaggi cardinali della storia del teatro e della cultura occidentale: Edipo e i suoi figli Antigone, Polinice, Eteocle, Ismene. Il progetto drammaturgico consiste nel costruire un percorso cronologico e tematico coerente sul modello delle trilogie classiche. A Castelfranco Emilia lavoreremo su Edipo re di Sofocle. All’interno della Casa Circondariale Sant’Anna di Modena, nella sezione maschile il percorso si svilupperà a partire dai Sette contro Tebe di Eschilo, mentre nella sezione femminile il percorso si svilupperà a partire da Antigone di Sofocle. Come di consueto nella pratica del Teatro dei Venti al lavoro in sala si affiancherà un costante lavoro di riscrittura, in cui le opere classiche sono le tracce su cui lavorare e da cui partire per indagare il tema della ricerca. Ricerca nella quale entreranno non solo le opere di Eschilo e Sofocle ma anche molte delle loro ulteriori declinazioni antiche, moderne e contemporanee da Euripide a Seneca, da Brecht, a Milosz, Cocteau e altri.
La proposta così declinata risponde, tra l’altro, all’esigenza di far dialogare tra loro attraverso un percorso tematico e testuale coerente, tre strutture carcerarie separate: Castelfranco Emilia, la sezione maschile e quella femminile del Sant’Anna di Modena. Tutti gli spetttacoli in lavorazione fanno parte della grande ricerca artistica pluriennale su La Misura Umana, un progetto ambizioso, che metterà alla prova il nostro modo di intendere il teatro e il suo ruolo nella comunità.

[In questo articolo di Renzo Francabandera si parla del progetto].