ELENA SCOLARI | “30, 55, 110, 28, 24″… Come in un’estrazione del lotto Lino Musella comincia il suo L’ammore nun’è ammore elencando i numeri dei trenta sonetti di Shakespeare che comporranno lo spettacolo. È una cabala poetica, questa, anzi una ‘smorfia’. Già, perché i sonetti sono tradotti (e ‘traditi’, secondo il sottotitolo) in napoletano da Dario Jacobelli, compositore scomparso nel 2013 che ha scritto versi per vari artisti napoletani, tra i quali 99 Posse, Almamegretta, Peppe Barra, tra i tanti.
Il capitolo shakespeariano fa parte della Trilogia della parola di Musella insieme a Come un animale senza nome dedicato a Pasolini e Tavola tavola chiodo chiodo su Eduardo de Filippo.

Lo spazio scenico è segnato da tre zone: al centro una scaletta come quelle che servono a salire sul palcoscenico, una scrivania ricoperta di oggetti teatrali a sinistra, e a destra siede Marco Vidino tra le percussioni. Musella entra da una porta sul fondo, sciorina la serie di numeri a mo’ di presentazione poi indossa una vestaglia, è la vestaglia dell’attore, che entra dentro i versi. O meglio: fa entrare i versi dentro di lui, come se li avessi mangiati e li restituisse assimilati nella sua lingua.

ph. Manuela Giusto

Non so quanti spettatori milanesi dell’Elfo Puccini abbiano davvero seguito tutti i testi (io ho riconosciuto solo ciò che già conoscevo) ma, al di là della retorica sempreverde sulla ‘meravigliosa musicalità del napoletano’, è indubbio che le idee teatrali di cui Musella dissemina il lavoro rendano un’atmosfera, dipingano personaggi e tratteggino uno schizzo di odori, colori, sussurri che posano nuova luce sulle parole di Shakespeare.
Sentire il più noto dei suoi sonetti, ‘o diciotto (Shall I compare thee to a summer day…) – in napoletano fa immaginare un’estate tutta diversa da quella inglese. La lingua originale disegna aria tiepida, sole limpido, molto verde e l’aria trasognata dell’amato, sfiorato dalla brezza britannica; basta dire iurnata e il clima cambia, il caldo aumenta, la luce è più gialla e più forte, l’aria si fa rovente.
Musella vuol far entrare anche il pubblico dentro il carnale tradimento linguistico cui sta dando voce e corpo, e allora si benda, copre gli occhi con una cravatta nera annodata dietro la nuca e passa tra le file cercando sostegno per la temporanea cecità; e a ogni mano tesa recita una poesia. Poi soffierà le parole in un tubo di gomma, insufflando i versi nell’orecchio di qualche fortunato.

ph. Manuela Giusto

La scaletta su cui siede, quei pochi gradini sono l’accesso al teatro, mentre li sali ancora non ci sei dentro del tutto, l’ammore nun’è ammore finchè non lo hai vissuto, sofferto, consumato, cercato di nuovo. Sulla scrivania in scena c’è anche un teschio, forse l’oggetto teatrale per eccellenza, lo prendi in mano e diventa una sineddoche che tutti comprendono. Quando Lino Musella si siede a quel tavolo indossa una lunga parrucca bionda, diventa dunque simbolo della trasformazione, muta in personaggio. Come la scrivania con il teschio sopra non è più un mobile ma un oggetto di scena.
Mentre ascoltavo, senza tutto capire, pensavo che la traduzione delle parole in un’altra lingua, dialettale per giunta, trasforma il senso come il contesto trasforma la funzione delle cose: l’attore con le labbra truccate è una bella di notte dei bassi, in canotta bianca è un guappo tra i vicoli.
Musella sollecita Vidino all’interazione, si lasciano andare a qualche breve battuta, i suoni e le musiche del musicista ricreano con lui il dialogo che c’è tra l’autore dei versi e il suo destinatario/a.

Nel sonetto 130 Shakespeare scrive di non aver mai visto una dea camminare, la sua donna, quando cammina, calpesta la terra ma non per questo il suo amore è meno speciale. Musella cammina invece sopra di noi, è sparito dietro la gradinata senza smettere di recitare ed è salito in graticcia, calpesta il pavimento a rete metallica che ci fa da soffitto e così capiamo che da ogni direzione può arrivare il respiro poetico: finché c’è fiato, le parole suonano per chi le ha ispirate.

…Ma ‘a staggiona pe tte nun po’ ffernì
nè ‘a bellezza se n’ ha dda  fujì
e nnè ‘a morte ombra te po’ fà
si  dint’ ê pparole pe ssempe tu starraje.
Nfino a cquanno rummane ‘nu sciato,
e dduje uocchie ca ponno guardà,
campa ‘a poesia e vvita te dà.

 

L’AMMORE NUN’È AMMORE
30 sonetti di Shakespeare traditi e tradotti in napoletano da Dario Jacobelli

regia Lino Musella
con Lino Musella e Marco Vidino ai cordofoni e percussioni
produzione Cadmo associazione culturale
foto Manuela Giusto

Teatro Elfo Puccini, Milano | 13 giugno 2024