ELENA SCOLARI | Una vernice dorata sul viso, sul collo e sulle mani. È l’oro di cui sono ricoperti gli idoli? Se ti avvicini per toccarli il brillio ti resterà sulle dita. Oppure è l’oro della corona? L’agognato traguardo di potere del mostruoso Riccardo. O invece è il bagliore del sole di York che fa scintillare la spietatezza del feroce monarca?
Francesco Montanari placca d’oro il suo personaggio, lo fa distrattamente ma con destrezza, attingendo a quella luce fasulla senza che noi ce ne accorgiamo, da una fonte nascosta. Può solo cercare di velare le sue nefandezze, le uniche cose che in lui brillano davvero sono la capacità diabolica di seduzione e l’abilità di tessere intrighi a proprio favore. Riesce addirittura a far innamorare di sè la donna cui ha da poco ucciso marito e padre, qualche numero fascinoso ce l’aveva. E questo nonostante la natura sia stata avara con lui: è nato prematuro e deforme, ha subíto un’ingiustizia di cui non aveva colpa e passa la vita a meritarselo, quel torto.

La sua è una vita di menzogne, raggiri, inganni, falsità insinuate e disseminate per distruggere tutti quelli che si frappongono fra lui e il trono. E una vita di finzione è anche quella dell’attore, come il personaggio di Montanari che non è mai riuscito a ottenere una parte importante fino a questa occasione in cui gli è stato offerto il ruolo di Riccardo III nell’omonima tragedia di Shakespeare. Ed ecco il teatro nel teatro di Gabriel Calderón: nel centro del Piccolo Studio Melato – un Globe milanese secondo lo stile dell’architetto Zanuso – si solleva il tendone bianco sopra a un altro teatrino, fatto di tutti quegli elementi romantici che raramente si vedono in scena, oggidì: corde, tiri, carrucole, tanto legno, fondalini dipinti, contrappesi, zavorre, doppi fondi… Le luci di Manuel Frenda accendono morbidamente il calore del legno, quel teatrino è un focolare in cui si raccontano storie di ogni tipo, e c’è sempre qualcuno disposto ad ascoltarle.
Per Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III (in scena fino al 6 aprile), lo scenografo Paolo Di Benedetto ha costruito un secondo piccolo mondo dentro al quale Montanari/Riccardo vive, ed è bravissimo a muovere, arrotolare, sciogliere, nascondere, alzare e abbassare cose continuamente, mentre recita un testo difficile, abbondante, ricco, spesso in versi e che fa girar la testa. I capogiri li crea prima di tutti il Bardo, con la sua sempre mirabile inventiva verbale, ma anche la scrittura di Calderòn (entrambe tradotte benissimo da Teresa Vila) e l’impetuosa recitazione di Montanari, mai domo, che ora è Riccardo, ora l’attore che lamenta la mediocrità del cast, ora Lady Anna, ora la regina Elisabetta Woodville. Tutti interpretati con una veemenza irresistibile, con la quale l’interprete unico gioca, invitando il pubblico a respirare, qua e là, a riposare il cervello da un ascolto tanto ininterrotto.

Il cinghiale del titolo è nello stemma araldico dei Gloucester ed è l’animale che Shakespeare sceglie come gemello zoologico di Riccardo, compare nei sogni di Stanley Conte di Derby mentre gli strappa l’elmo e nella tragedia la sua storia è quella di un nobile storpio che di sè dice “Il mio corpo asimmetrico è una canzone stonata. Il ricordo di me sarà piccolo e storto”. Rivoltando – con effetto sorpresa – il costume della madre Elisabetta (costumi di Gianluca Sbicca), dopo il monologo in cui ripudia il frutto delle proprie viscere, Montanari riappare, come espulso dal ventre della regina, in forma di cinghiale, ed è bianco, come la conoscenza che simboleggia.
La vicenda di Riccardo non è sempre centrale, la drammaturgia privilegia spesso le meta-questioni parallele, infatti anche la postura sgraziata che ricorda la deformità del reale è accennata solo brevemente; questo rende un po’ più pallida la ragione di aver scelto proprio Riccardo III per dare corpo (sbilenco) all’idea teatrale espressa.
La scatola teatrale inserita dentro alla scatola del Teatro Studio ha poi anche un terzo livello: l’attore protagonista ha la sua da dire anche sul mondo delle scene di oggi, e qui ci sono alcuni paradossi insiti nel testo. Per esempio le critiche ai registi, quelli che scelgono le attrici in base all’avvenenza e quelli che non rispettano il ritmo del verso shakespeariano perché lo traducono (come avviene anche qui, del resto), la presa in giro dei light designer, i finanziamenti dati in maniera iniqua… Invettive un po’ convenzionali, no? Il contrasto con la sede prestigiosa in cui si pronunciano è ormai privo di mordente. E, nella fattispecie, qualcosa non gira anche perché, nel gioco drammaturgico, Montanari combatte proprio per ottenere “la corona” di regista.
E quando sarà sua, Calderon gli regala una bellissima tirata sul coraggio di fare teatro: forse che Shakespeare si scoraggiò davanti al pubblico che gozzovigliava durante le rappresentazioni dei suoi spettacoli? O forse si fermò dopo due anni di chiusura dei teatri londinesi per la peste? O quando era senza soldi? No. E allora avanti! Il personaggio si ribella alle sue stesse lamentele e, con vigore, incita gli spettatori a sposare la sua causa. Dopo un’arringa così la tentazione di alzarsi e unirsi alla lotta per il fuoco del teatro è forte, ma è chiaro che l’attore chiama senza aspettarsi risposta, offre il suo regno “per uno spettatore intelligente” e il tendone cala su di lui, ricostituendo quella forma scenica primigenia: un circo bianco di uomini e animali, di attori e personaggi, di funamboli e spettatori. Così, da millenni, tutti insieme combattiamo gli inverni del nostro scontento.
STORIA DI UN CINGHIALE. QUALCOSA SU RICCARDO III
liberamente ispirato a Riccardo III di William Shakespeare
scritto e diretto da Gabriel Calderón
traduzione Teresa Vila
scene Paolo Di Benedetto
costumi Gianluca Sbicca
luci Manuel Frenda
con Francesco Montanari
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Carnezzeria
foto di scena Masiar Pasquali
Teatro Studio Melato, Milano | 29 marzo 2025