RENZO FRANCABANDERA e MATTEO BRIGHENTI | MB: È la parola intraducibile più usata al mondo. Abracadabra. È la formula, meglio, che permette al mago di fare (accadere) la magia. Ovvero, di intervenire sulla realtà: modificarla, trasformarla, imprimendo sul visibile – ciò che è qui, e che vedo, adesso, davanti ai miei occhi – un mutamento, che è un passaggio di condizione, di stato, di per sé invisibile nel suo farsi. Inconoscibile. E quindi, inspiegabile a parole.
Esistono, comunque, alcune ipotesi sull’origine di questo termine. Babilonia Teatri in Abracadabra, si muove, secondo me, tra i due significati che verrebbero dall’aramaico: “Io creerò come parlo” e “Sparisci come questa parola”. Il mago Francesco Scimemi, che fa spettacoli da più di 40 anni ed è stato in tutti e cinque i continenti, agisce in un “teatro delle apparizioni” costruito per lui da Enrico Castellani e Valeria Raimondi. Un “magicomio”, per citare la sua autobiografia. Le parole gli servono per ricreare un dialogo con la sua compagna, attraverso la magia di nuove occasioni di contatto con la loro storia. Abracadabra. Ma è impossibile. È tutto quanto una grande, impetuosa finzione. Lo sa fin troppo bene: lei, adesso, non c’è più. È morta. Le parole, allora, servono a Scimemi anche, o forse soprattutto, per far sparire il suo dolore. Colmando il vuoto lasciato dall’assenza del suo “amorì” con l’incantesimo di un amore che piega il tempo e lo spazio nell’eternità del ricordo di lei, memoria viva e presente, che lascia a bocca aperta. Abracadabra.

RF: Scimemi collabora da diversi anni con Babilonia Teatri. Personalmente, lo avevo visto lanciare coltelli contro Paola Gassman e Ugo Pagliai in un Romeo e Giulietta visto nella programmazione dell’Estate Teatrale Veronese, qualche anno fa. Faceva abbastanza impressione vedere due mostri sacri del teatro italiano stare lì, appoggiati davanti alla tavola di legno, mentre il mago, illusionista e mentalista gli tirava contro i coltelli come al circo. Immagino cosa sia stato per loro, divi maturi e che avevano calcato le scene di mezzo mondo, come d’altronde ha fatto anche il mago, mettersi in quella scomodissima posizione, davanti a un lanciatore di coltelli. Certo, lui era vicino, il rischio era magari ridotto, ma non era nullo!
Questo per dire che il duo Castellani e Raimondi trova sempre modo di offrire ai propri interpreti e performer esperienze attorali nuove e sfidanti. E di certo il teatro, che assomiglia alla vita, offre davvero occasione di grandissime sfide, ma nessuna ha la potenza della vita stessa, e della sua più grande sfida e incognita: il passaggio della morte. E già dicendo passaggio, edulcoriamo e immaginiamo che esista uno stato ulteriore di vita oltre, quando il soffio emigra dallo stato incorporato che gli esseri umani conoscono. Ma non potendo noi saper nulla del dopo, né avere davvero esperienza di quello che c’è oltre, ecco che la morte resta il massimo mistero dell’esistenza umana. E Scimemi l’ha dovuta carezzare con mano, lasciando andare la persona, la donna, che lo aveva accompagnato nel lungo percorso della vita, privata e artistica – la sua compagna, da poco scomparsa per una grave malattia.
Questo è il motivo per cui lo spettacolo che Babilonia Teatri voleva realizzare con il mago intorno al tema della magia e dell’illusione è diventato un progetto per ragionare intorno alla sfida più grande, all’illusione che davvero esista qualcosa oltre. Miglior luogo per debuttare non avrebbero potuto trovare se non Prato, in quel Teatro Metastasio che già da un paio d’anni accoglie un importantissimo progetto di pensiero e ragionamento intorno al fine vita, insieme ad associazioni e realtà sanitarie del territorio che discutono e si confrontano con filosofi, artisti, pensatori, sulla morte (mi riferisco al progetto Da vivi – Il miracolo della finitezza).

MB: La magia in questo caso è un modo, l’hai detto bene, di leggere il mondo. Così, Abracadabra è un lavoro che procede per immagini incantate, che partecipano di una natura tanto simbolista, quanto surrealista. Odilon Redon incontra Salvador Dalí. Francesco Scimemi prende gli oggetti magici che vediamo in scena e, nel compiere i suoi numeri, li risignifica. Cioè, li porta ad avere un significato, un valore, che va oltre la sola esecuzione del gioco di prestigio. Assumono una funzione narrativa ed emotiva fattuale, concreta. Più precisamente: rendono l’invisibile visibile.
Penso, ad esempio, a quando inizialmente Emanuela Villagrossi entra in una scatola colorata che riproduce all’esterno la sagoma di una figura umana. Scimemi la trafigge con una lastra di metallo, con un’altra, ma l’attrice resta impassibile: il suo corpo non versa una goccia di sangue. Poi, il mago sposta una sezione della scatola, creando un buco nella struttura. Nessuna reazione, anche stavolta.
RF: In realtà, c’è un prima dell’inizio di cui parli, quando il mago fa un gioco con il pubblico, utilizzando alcune carte del mazzo francese. All’ingresso in sala, infatti, gli spettatori vengono tutti dotati di quattro carte da gioco e il mago fornisce loro alcune indicazioni, facendole prima strappare in due, e poi giocando con i pezzettini a farne dei mazzetti, a ordinarli e scomporli, fino al magico finale in cui un pezzettino messo da parte all’inizio del gioco, e quello che resta in mano dopo aver buttato via gli altri uno a uno, magicamente sono le due parti della stessa carta. Ma come è possibile, se ognuno scarta e butta via in modo diverso da chi gli sta seduto di fianco? «Coincide!» – sussurra Scimemi. «Non a tutti, ma coincide». D’altronde, la magia dell’amore, della coincidenza, del trovare l’altra metà esatta, non è una fortuna per tutti. Ma accade.

MB: Non l’ho ricordato per non compromettere la sorpresa di chi deciderà di andare a teatro! Ma hai ragione, è un’apertura fondamentale per entrare fin da subito nel codice dello spettacolo di Babilonia Teatri. Parlando di ricomposizione, Villagrossi, una volta riunita con sé stessa e liberata, esce dalla scatola esattamente così come vi era entrata. Siamo di fronte al noto trucco della “scatola magica”, certo. Ma in Abracadabra è anche la rappresentazione sublimata della malattia che, non vista, colpisce un organo, lo fa ammalare, e quindi lo “stacca” dal resto del corpo, alterandone il normale funzionamento. E non ce ne accorgiamo neanche, perché dall’esterno non vediamo niente di diverso: tutto appare uguale a sempre.
Dunque, Villagrossi è la manifestazione, l’evocazione scenica della compagna di Scimemi. E la malattia che quella “scatola magica” ci rivela è un tumore: un cancro. Castellani e Raimondi poco dopo, all’unisono, ne scandiscono la diagnosi forte e chiaro, accompagnati dai suoni lancinanti di un tomografo PET. Intanto, Scimemi mangia il referto medico e poi lo risputa sotto forma di un pezzo di carta lunghissimo, come a restituire l’enormità e la violenza di una notizia che il suo corpo, ormai ridotto a una macchina, deve processare. Uno dei momenti più forti, a mio avviso, di tutto lo spettacolo.

RF: Uno dei pochi privilegi che tocca ai critici, così come agli spettatori molto molto assidui, è quello di imparare a conoscere a fondo gli artisti della propria epoca, riuscendo a individuare gli elementi ricorrenti all’interno del codice espressivo che questi abbracciano nell’arco della loro vita artistica. Nel caso di Babilonia siamo partiti, 20 anni fa, dallo spiazzante e destabilizzante gioco del linguaggio inespressivo, dei monologhi ripetuti a mitraglia. Ma al di là di questa novità per il teatro italiano di allora, non c’è dubbio che anche altri siano gli elementi simbolici e espressivi che la compagnia ha utilizzato in questi due decenni di arte negli spazi scenici.
Penso, per esempio, al non sufficientemente enfatizzato, ma praticamente sempre presente incontro che avviene, nei loro spettacoli, fra dispositivo scenico e dispositivo ludico. Lo spettacolo non è mai un gioco nel loro codice, ma c’è sempre un gioco nello spettacolo. E se non è un vero e proprio gioco, è un elemento che scardina l’aspettativa di un’evolvere naturale della storia, per come l’abbiamo sempre tradizionalmente intesa nel teatro di prosa. Ora è un gioco di carte, come qui, ora una sfilata di razze canine, ora un gioco con in palio le cavallette fritte, come in Calcinculo, ora il basket (David è morto), ora la giostra ricostruita in scena a dimensioni naturali o a pezzi di Romeo e Giulietta, in una logica di luna park insieme al lancio di coltelli.

Sembra davvero che la vita sia un gioco (per non parlare dei tanti spettacoli dedicati al tema del rapporto familiare e all’infanzia con i suoi giochi, da Pinocchio a Baby Don’t Cry) o che la compagnia si sforzi di capire quali siano le regole del gioco della vita, e in questo giocare non manca mai l’elemento magico, la sorpresa, la macchina che inonda di schiuma il palcoscenico (Pornobboy), la pioggia di strisce brillanti, fino anche ad arrivare alla carcassa di bovino che penzola in stile Bacon dall’alto della scena e che diventa l’eye-catcher per lo spettatore in The End. Neanche gli ultimi lavori, con il cantante esule egiziano in scena in Ramy – The Voice of revolution o con il Koltès interpretato da un performer sordo con il linguaggio dei segni di Foresto, sfuggono a questa logica di impasto semiotico, in cui il linguaggio diventa, più che testo, pretesto per indagare i punti fragili del genere umano, avvicinandosi a questi pericolosi incroci della sensibilità, ogni volta con una modalità apparentemente leggera, giocosa.
La realtà, per chi conosce le basi delle tecniche chiaroscurali nel disegno, è che tanto più spargi punti di luce, di divertimento, di allegria, tanto più rendi profondi e leggibili gli abissi delle ferite, i lati oscuri e bui che vengono esaltati nel loro potenziale drammatico proprio dalla giustapposizione con il chiarore. Detto questo, rileggendomi, mi accorgo di aver visto in questi 20 anni tantissimi loro lavori, e di essermi confrontato con un teatro pensato, che pur dentro uno schema (e quale artista non ha un suo schema…) cerca di pensare, di ripensare e di ripensarsi. E non sono poche le occasioni in cui il tema del fine vita è emerso potente in queste creazioni, cercando pensieri e spiegazioni ai sentimenti che genera negli esseri umani (che ancora le sopravvivono).

MB: L’infinito piccolissimo che abbiamo dentro e che ci conduce, comunque, alla morte, rimane inspiegabile. È un mistero. Abbiamo parole per provare a tirarlo fuori, ma, spesso, queste parole più che unirci, ci dividono, più che avvicinarci, ci separano. Come e perché succeda è un trucco presto svelato: niente può per davvero riportare in vita qualcunə.
Abracadabra, allora, è l’attesa e la speranza che, in ogni momento, avvenga una magia. E, puntualmente, la magia arriva. Succede, perché crediamo che possa succedere. Perché ci affidiamo alla dolcezza e all’irruenza di Francesco Scimemi. Confidiamo in lui, nei suoi poteri di mago e di uomo innamorato. E lui conta su di noi, tanto che fonda la riuscita finale del suo racconto sulla sincerità delle nostre risposte ai suoi continui inviti a tenergli il gioco.
RF: È proprio quello che dicevo: alla fine il gioco in questa logica vale sempre la candela, perché quello che Babilonia indaga nel suo fatto artistico, e che ne ha sancito anche l’affermazione sulla scena italiana e internazionale, è proprio quanta magia ci sia intorno alla fragilità dell’essere umano. L’individuo non ha la forza di affrontare da solo questa indagine negli abissi dell’esistenza, nel suo pirandelliano guardarsi allo specchio, per arrivare, magari dopo una vita di riflessioni, a vedere il proprio naso storto prima di quello altrui. Il processo di sublimazione, di metaforizzazione, l’essere umano l’ha affidato all’arte.
Probabilmente, non siamo nemmeno l’unica specie vivente a godere della dinamica ludica. Tante volte si parla dei giochi dei delfini, del loro cantare, del loro generare sott’acqua bolle d’aria per perdercisi intorno. Non sono altro che manifestazioni simboliche in presenza di altri individui della stessa specie, per arrivare, attraverso un segno leggero, a definire il perimetro del proprio esistere, del proprio essere in quel luogo, in quel determinato momento, dando senso all’esistenza.
MB: Questo non è, in definitiva, il teatro? Babilonia non ci sta forse dicendo che la vera magia è questo nostro ritrovarci insieme nella fiducia che, se ci credi tu e ci credo anch’io, qui dentro tutto può diventare realtà, anche l’impossibile?

ABRACADABRA
di Babilonia Teatri
con Enrico Castellani, Valeria Raimondi, Francesco Scimemi, Emanuela Villagrossi
scene e costumi Babilonia Teatri
produzione Teatro Metastasio di Prato
con il sostegno di Operaestate/CSC di Bassano del Grappa e Ariateatro Ets
Prima Assoluta
Teatro Metastasio, Prato | 10 aprile 2025