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mercoledì, Aprile 30, 2025
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Quel che resta dell’ingegno: Margaret Edson e l’invincibile fragilità dei viventi

OLINDO RAMPIN | Wit, il testo di Margaret Edson messo in scena e ripreso a un anno dal debutto dal Teatro Due di Parma con la cura di Paola Donati, nel breve volgere di qualche settimana ci ha messo di fronte per la terza volta a quella forma particolare di intelligenza che ha il suo equivalente possibile, ma non perfetto, nei termini italiani arguzia, acutezza. In tutte e tre le occasioni, oltre che una espressione dell’ingegno e della capacità argomentativa, esso ci è parso soprattutto un mezzo per smussare e superare le asperità della vita e, dietro la superficie smaltata, uno strumento di distinzione e di potere nelle relazioni umane. Nei primi due spettacoli, L’avventuriero dell’autrice inglese seicentesca Aphra Behn diretto da Giacomo Giuntini e Boston Marriage di David Mamet con la regia di Giorgio Sangati, attraverso il potere della parola e dell’arguzia il protagonista risulta vittorioso. Nel terzo, che al wit – il pensiero – dedica il titolo stesso, la protagonista è destinata a soccombere.

Valentina Banci – ph Andrea Morgillo

Tanto esperta di acutezza d’ingegno, di sottili metafore e di argute connessioni da farne la specializzazione della sua vita di infaticabile studiosa delle liriche sacre del poeta metafisico inglese John Donne, la professoressa universitaria Vivian Bearing, a cui Valentina Banci ha saputo comunicare forza e dolcezza, incontra sulla sua strada un avversario contro cui la sagacia mentale e il prestigio sociale non possono nulla. Wit è, infatti, una riflessione sulla malattia e sulla morte come esperienze rivelatrici, ma amaramente tardive, della mancanza di significato e di autenticità della vita.
Nel 1886 questa riflessione aveva trovato la sua massima espressione letteraria in un racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič. In quegli stessi anni un altro grande russo, Anton Čechov, aveva scritto pagine mirabili su questo argomento nel racconto Una storia noiosa, il cui protagonista è anch’egli un intellettuale, un professore universitario, proprio come la protagonista di Wit.

Valentina Banci e Massimiliano Sbarsi – ph Andrea Morgillo

Margaret Edson ha avuto presenti questi due grandi modelli? Probabile, anche se quel che emerge nel suo lavoro è la scoperta della propria fragilità e di un nuovo senso di sé non solo al cospetto della malattia e della morte, ma anche dello sguardo che su di esse getta la medicina. La studiosa di Donne, la severa filologa che con lo studio e la carriera accademica si era costruita una forte immagine di sé per difendersi dalla vita e dalla sua imprevedibile mutevolezza, si trova improvvisamente inghiottita da quell’istituzione totale che è l’ospedale, dalla fredda implacabilità dello “sguardo clinico” di cui parlava Michel Foucault.
Quello sguardo oggettivante, che punta a misurare e classificare, trasferisce la protagonista dalle aule universitarie dove si era corazzata con l’autorità del sapere nelle raggelanti corsie di un’ospedale, in cui il denudamento e la vestizione sono fin dal ricovero i simboli di un processo di decostruzione dell’identità. Lo sguardo reificante, che disumanizza il rapporto tra medico e malato, è indagato e incarnato con persuasiva prensilità da Massimiliano Sbarsi e da Davide Gagliardini.

Davide Gagliardini – ph Andrea Morgillo

Se i due personaggi maschili rappresentano l’aridità nomenclatoria dello “sguardo clinico”, le due figure femminili sono il tramite che aiutano la professoressa Bearing a vincere, troppo tardi, la sua riluttanza alle relazioni e alle emozioni. Laura Cleri dona all’infermiera Susie la sorridente umanità, la immediata solidarietà che sanno far breccia nella solitudine di Vivian. Cristina Cattellani conferisce credibilità di toni accorati alla professoressa Ashford, suo nume tutelare, l’unica persona a farle visita. E non era mancato un valore di ammonimento, vero nella sua semplicità, nello scambio con uno studente, il persuasivo Salvo Pappalardo.

La vita della professoressa Bearing, come quella di Ivan Il’ič, acquista dunque rilievo e consistenza attraverso la malattia. Con essa prende coscienza delle illusioni di cui si era nutrita: la professione e il prestigio sociale. Il pensiero della morte dà autenticità alla sua esistenza. Ma non è proprio dalla lirica amorosa del suo idolatrato Donne che avrebbe potuto apprendere già prima il ruolo delle emozioni, dell’eros contrapposto a thanatos? Non avrebbe dovuto trovare in quelle poesie d’amore una delle sue maggiori novità, l’espressione dell’intera gamma del sentimento amoroso, quindi anche del desiderio fisico?
Forse, la professoressa Bearing aveva rinunciato all’amore perché esso, non certo quello regolarizzato nel matrimonio o istituzionalizzato nella famiglia, è spesso un’esperienza rischiosa, di “declassamento”, che comporta perdita di potere, di autocontrollo, di equilibrio. Per questo la professoressa Bearing si è indurita, si è immunizzata con il wit dal dolore che inevitabilmente l’eros porta con sé. Ma nulla ha potuto contro la morte, contro thanatos, l’avversario di eros, né contro la malattia, tramite di una breve, lucida, dolorosa consapevolezza.

WIT
di Margaret Edson

traduzione Valentina Martino Ghiglia
con (in o. a.) Valentina Banci, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Davide Gagliardini, Salvo Pappalardo, Massimiliano Sbarsi
musiche Alessandro Nidi
costumi Elisabetta Zinelli
luci Luca Bronzo
a cura di Paola Donati
produzione Fondazione Teatro Due

Teatro Due, Parma | 15 aprile 2025

Too late: perturbazioni esistenziali da Ibsen secondo Jon Fosse

Too late

ENRICO PASTORE | Too late. È la scritta che campeggia all’apertura del sipario nella penombra della scena. Non è tanto un ammonimento quanto una sentenza. O un epitaffio su una lapide. Non c’è scampo a qualcosa di filato e reciso dalle Moire. La sensazione che si prova di fronte a questa insegna luminosa, pur accattivante nella sua ineludibilità, è di perturbante spaesamento. È strano che all’inizio di uno spettacolo si dica apertamente che è ormai troppo tardi. Di solito si comincia lasciando ai personaggi tutte le strade aperte allo sviluppo, anche quando si è nel tragico laddove all’eroe non è dato scampo, oppure, quando si tratta di una trappola per topi, si lascia l’illusione che qualcosa si possa pur fare. Qui no. È troppo tardi. Ed è strano.
La stranezza di cui si parla pertiene a quello che Mark Fisher definisce come weirdness, ossia quella qualità che identifica qualcosa che non dovrebbe essere come appare, qualcosa che è fuori posto o addirittura non dovrebbe esistere, qualcosa che: «segnala il nuovo, quello che non torna, quello che necessita di nuovi strumenti di interpretazione». Quest’ultimo aspetto è il più importante per ottenere una chiave di lettura per Too late di Jon Fosse, spettacolo andato in scena prima al Teatro Nazionale di Genova e in seguito al Teatro Astra di Torino, magistralmente diretto da Thea Dellavalle e ottimamente interpretato da Anna Bonaiuto, Irene Petris, Roberta Ricciardi, Emanuele Righi, Giuseppe Sartori.

Too late, nella foto Anna Bonaiuto, Giuseppe-Sartori e Irene Petris –  ph. FedericoPitto

Tre grezze mura. Un letto, una panca, qualche tela. È questa la scena su cui si svolge una vicenda il cui esito è già dato. Too late. Ma se il finale è già rivelato, se non c’è niente da svolgere, da dipanare o risolvere qual è il fine di quello a cui andiamo ad assistere? È una forma di teatro che mette in questione il nostro modo di vivere le relazioni, vengono poste domande scottanti nei cui riguardi non abbiamo strumenti validi per fornire risposte perché non c’è soluzione allo stato attuale di sviluppo della nostra società ma andrebbe comunque cercata. Siamo di fronte, dunque, a una forma di teatro alla ricerca di nuovi strumenti di interpretazione del reale, che non ha risposte ma domande, che non ha ricette ma le cerca insieme al proprio pubblico.
Quello che avviene in scena è la messa in discussione delle scelte di Nora, la protagonista di Casa di bambola di Ibsen, colei che abbandona marito e figli per intraprendere una nuova vita non più scontata, non ingabbiata dalla convenzioni né tanto meno obbediente ai dettami della società di fine XIX secolo in cui la donna era o madre o prostituta. Ma è veramente così? O i riferimenti a Ibsen sono una trappola interpretativa? Perché tutto lascia pensare che la vicenda di Nora si ripeta ancora e ancora senza via di scampo.
La Nora matura (Anna Bonaiuto) sulla soglia della terza età guarda se stessa giovane (Irene Petris), vede se stessa amare il marito ed essere imprigionata dai doveri di madre e di moglie, si vede essere gelosa di altre donne più giovani. Si vede il marito (Giuseppe Sartori), con la sua ombra (Emanuele Righi), cercare di chiudere gli occhi e dormire senza pensare al tempo che passa e alle difficoltà che insorgono. Si sentono di lontano i pianti dei bambini, quei palloni sgonfi e pesanti che capitano in scena.
La Nora di oggi osserva quella di ieri che non è quella di Ibsen anche se potrebbe esserlo e in effetti per qualche istante lo è, apparendo in scena con il suo vestito ottocentesco rosso fiamma. Tutto sembra ripetersi come è già stato, eppure vi è il rimpianto, il dubbio che forse sarebbe potuto essere diverso.

Too late, nella foto Anna Bonaiuto, Giuseppe-Sartori e Irene Petris – ph. Federico Pitto

Anche l’amante giovane del marito (Roberta Ricciardi) avrebbe potuto non essere. Se Nora non fosse stata gelosa, se non avesse posto l’attenzione in ogni istante sulla gioventù delle altre donne, forse il marito non avrebbe vòlto gli occhi altrove? Se lo chiedeva anche la Foscarina, alter ego di Eleonora Duse, nel Fuoco di D’Annunzio: sono stata io a spingere Stelio Effrena nella braccia di Donatella Arvale? Ma è una falsa prospettiva. La questione è più sottile, meno scontata.
La Nora odierna si domanda se la scelta di andarsene sia stata giusta. In fondo, si dice, i suoi quadri non sono granché, quasi nessuno li compra, i figli la ignorano, il marito è morto, resta la solitudine. Nora però si riscuote e afferma con un certo orgoglio: io ho fatto la mia vita, non mi sono abbattuta, sono stata me stessa contro tutto e tutti. Anche questo risultato è una falsa prospettiva. La questione non è il successo o il fallimento di una vita.
Infatti è proprio qui, alla fine del percorso, quando quelle mura che fanno gabbia si aprono e scompaiono, ecco ancor più forte la Weirdness di cui si parlava all’inizio, quel perturbamento che necessita di altri strumenti interpretativi per placare l’inquietudine che crea. Ciò che è fuori posto, ciò che è ma non dovrebbe essere come appare, sono le relazioni sentimentali e la loro mancanza di adattamento al mutare delle condizioni nel tempo. Come scrive Fisher: «gli esseri umani sono fin dall’inizio – da prima dell’inizio, prima della nascita dell’individuo – intrappolati in strutture mitiche. E va da sé che la famiglia stessa è un’altra di queste strutture mitiche». Too late.

Ciò che Ibsen metteva in questione nel 1879 era una società maschilista e capitalista che vedeva la donna sposata come ninnolo in una casa di bambola, malaticcia e totalmente dipendente dal marito. La Nora del 2025, nonostante i mutamenti, si trova ancora immersa in quel tipo di società, ma è anche parte di un mondo in cui l’emancipazione solo sognata a fine Ottocento dovrebbe essere ormai acquisita e non lo è. L’istituto di famiglia e le modalità di negoziazione dei desideri in una coppia sono obsoleti e finché rimarranno tali sarà sempre troppo tardi qualsiasi sia la scelta effettuata. La norma e la consuetudine sono la trappole che uccidono qualsiasi desiderio. Rimanere? Andarsene? Il risultato non cambia. Se tutto rimane quello che è, se non ci dotiamo di nuovi strumenti di relazione e di comprensione del reale, per Nora e per tutti noi sarà sempre troppo tardi.

TOO LATE

Un progetto Dellavalle/Petris
Traduzione e regia Thea Dellavalle
Interpreti Anna Bonaiuto, Irene Petris, Roberta Ricciardi, Emanuele Righi, Giuseppe Sartori
Musica e sound Franco Visioli
Scene Francesco Esposito
Costumi Marta Balduinotti
Luci Aldo Mantovani
Assistente alla regia Carla Carucci
direzione di scena Desirée Tesoro
capo macchinista Raffaele Giacobino
elettricista Luca Serra
fonico Luca Nasciuti
sarta Irene Barillari

Teatro Astra – Torino | 25 marzo 2025

L’unicità di un luogo, tra storie, memorie e colori: lo Stretto come metafora nel nuovo testo di Dario Natale

Foto Marco Costantino

PAOLA ABENAVOLI | Un uomo che ascolta e un altro che ricorda e racconta. Guardando lo Stretto, lo “ScillaECariddi”, che è tutta una parola, un luogo unico, inscindibile. Un uomo affascinato da un vecchio, solo, che agli occhi degli altri appare come una persona con disturbi cognitivi ma che invece è soltanto qualcuno che cerca di non dimenticare, che viaggia nei suoi sogni, perchè “per riconoscersi bisogna innanzitutto sognarsi”. Così dice Saro, l’anziano che riposa su una panchina, assorbito dai suoi pensieri e da quei colori che affollano la sua mente e che ripete come un mantra: “azzurro, viola, blu e rosso, tutti i culuri”, quelli dello Stretto, che “a furia di guardarlo” sono come entrati nel suo occhio. E, insieme ai colori, i viaggi in un mondo tra mito e storia, la guerra, le navi che solcano quel tratto tra Calabria e Sicilia, le “femminote” (le contrabbandiere di sale descritte nel romanzo Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo), che custodiscono i segreti di quel mondo. E di quel mare: che può travolgere o cullare, che trasporta con le sue onde, piegate dallo scirocco, che improvvisamente si placa e immerge in un vento fresco, sempre in mezzo ai colori.

Foto Marco Costantino

I colori danno il titolo al nuovo testo, scritto e interpretato da Dario Natale, fondatore della Compagnia lametina Scenari Visibili: Di tutti i colori viaggia, appunto, nello Stretto (e l’anteprima non poteva che essere ospitata proprio davanti a questo luogo, a Reggio Calabria) attraverso lo sguardo e i ricordi di un uomo: un lembo di mare che diviene metafora di memoria, quella che a volte sembra sfuggirci, come sottolinea l’autore, mosso dal desiderio di parlare di quest’area così iconica e al tempo stesso da tutelare. Saro è il motore del ricordo, insieme all’uomo che lo ascolta: due personaggi cui Natale dà anima ed emozioni, mutando toni, postura e sguardi. Saro diviene lo Stretto, che conosce “piega per piega, magagna per magagna”. Un mondo a sè stante, ma che riflette la vita; un mondo sempre mutevole, che pensi di avere conosciuto ma ti sfugge subito nuovamente: e questo racconto – che si dipana attraverso altre piccole storie, altre narrazioni, ricordi di traversate, personaggi come i “Pellisquadra, gente con la pelle cuciuta dal sole a cuoio antico” – viene còlto dall’amico, che ne fa tesoro, comprendendone la metafora: il punto di vista sempre cangiante, come i colori, come la vita. L’unicità, frutto del mescolarsi di quei colori, di culture, di persone.

Foto Marco Costantino

L’incontro tra due uomini, dunque, che incarna tanti elementi: il ricordo, la memoria storica che viene trasportata dal vento e dal mare; il percorso di un territorio, di un luogo, impossibile da imbrigliare. Chi ascolta e chi racconta creano uno scambio, che sembra quasi riflettere quello delle due sponde: è una narrazione viva, che tratteggia immagini con le parole, grazie a un testo stratificato, che recupera sicuramente dalla storia e dalla tradizione (anche con l’uso del dialetto, con cui si esprime Saro, e che sottolinea l’unicità e la profondità di alcuni termini, strettamente legati proprio al mare, alla vita marinara), ma anche dai riferimenti, letterari e sociologici, partendo da una pietra miliare come il citato Horcynus Orca – “una scrittura profondissima”, sottolinea Natale – volendo quasi far continuare idealmente la vita e l’anima del protagonista del romanzo.
E ancora, Laura Imai Messina con Il Giappone a Colori, i colori nell’accezione giapponese, ovvero l’uso di tante sfumature per esprimere le emozioni; e soprattutto l’ispirazione data dall’opera e dalla visione sulla difesa del territorio di Osvaldo Pieroni, sociologo, docente all’Università della Calabria, scomparso nel 2013: le loro parole “hanno gettato le basi del ponte sospeso su cui è salito Saro, una passerella che appare e scompare, unico ponte da cui guardare lo Stretto di Messina, lo Scilla e Cariddi, in quanto patrimonio presente e futuro di pesci, uccelli, esseri umani, mostri marini”. Lo Stretto che non obbedisce a nessuna regola, perchè è lui a dettarle. “Per questo rideva – racconta l’uomo ricordando Saro – quando sentiva parlare del Ponte sullo Stretto di Messina”, e aggiungeva  “ne ho viste di tutti i colori, mo ci vò!! Ma questo…”. L’unicità di un luogo che Dario Natale, sottolinea anche con il riferimento, lieve ma preciso, al Ponte, che sottende una narrazione in cui realismo e mito non possono che andare di pari passo: è il racconto, quindi, a esplicitare questa unicità. Partendo dalla poesia, dalla memoria, dall’”ondeggiare tra i sogni” e nella semplicità di una traduzione scenica densa di complessità.

Foto Marco Costantino

E a rendere concreta, quasi palpabile, questa atmosfera è soprattutto l’interpretazione di Dario Natale che, nei due versanti – quello dell’ascoltatore e quello del sognante narratore – vede l’attore incarnarne letteralmente le personalità, le paure, le sfaccettature: seduto sulla panchina al centro della scena – che diventa il luogo di incontro tra i protagonisti – o spostandosi su un lato del palco, sotto una luce che fa quasi da specchio a Saro mentre parla con se stesso, Natale diviene parte dei due personaggi, traducendone gesti, vocalità, risate e, alla fine, una commozione visibile e autentica.

DI TUTTI I COLORI

di e con Dario Natale
paesaggi sonori Alessandro Rizzo
consulenza e supporto Domenico Benedetto D’agostino e Gaetano Subhaga Failla
produzione Scenari Visibili/Tip Teatro

Stagione 2025 La casa dei racconti
SpazioTeatro, Reggio Calabria | 13 aprile 2025

 

Quando l’eccesso va di moda: Dorian Gray al Pacta Salone

ph. Elisabetta Miracoli

MARIA FRANCESCA SACCO / PAC LAB* | Oggi sembra che sia l’immagine a detenere il potere di definire l’individuo: in un mondo dove ogni volto e ogni angolo del corpo sono esposti, l’apparenza è diventata la moneta con cui acquistiamo visibilità, validità e, soprattutto, identità. La ricerca incessante della perfezione fisica, la cura maniacale del corpo e la costante esposizione sui social media sono manifestazioni moderne di un narcisismo che non sembra mai saziarsi.
In questo senso, Dorian Gray non è solo l’espressione di un desiderio superficiale di perfezione fisica ma rappresenta un’idea molto più complessa, che affonda le radici in una filosofia estetica che vede nella bellezza e nell’arte il fine ultimo dell’esistenza umana. Il suo bell’aspetto è così straordinario che diventa il suo unico scopo, al punto da spingerlo a cercare l’immortalità attraverso l’illusione di non invecchiare, affidandosi a un ritratto che appassisce al posto suo.

ph. Emma Terenzio

La riscrittura teatrale di Annig Raimondi, presentata in prima assoluta al Pacta Salone di Milano con il titolo Il ritratto di Dorian Gray ovvero La moda dell’Eccesso, si apre con la frase di Oscar Wilde: «La bellezza è una forma di genio, anzi è più alta del genio, perché non richiede spiegazioni». Ma è davvero la bellezza un concetto assoluto, indiscutibile, privo di sfumature? Per Dorian Gray, protagonista del romanzo e della performance, essa non è solo un ideale astratto: è la giovinezza, che egli è disposto a proteggere a ogni costo, fino a scendere nei meandri più oscuri dell’anima. La narrazione ha al centro il giovane e affascinante Dorian Gray che, dopo aver posato per il ritratto realizzato da Basil Hallward, è ossessionato dalla sua stessa immagine e dall’idea che bellezza e piacere siano le uniche verità fondanti dell’esistenza. Esprime così il desiderio che il dipinto invecchi al posto suo, mentre lui rimane giovane e bello. Il suo aspetto rimane infatti immutato ma il ritratto inizia a riflettere i segni della sua decadenza interiore che lo rendono mostruoso, specchio dei suoi eccessi e immoralità. Finché, annientato dai suoi peccati, Dorian lo distrugge, uccidendo  così  anche  se  stesso.

Tre sono le figure principali sulla scena del Pacta: Basil (Stefano Tirantello), il pittore che rappresenta l’arte come espressione di bellezza ideale; Dorian (Anna Germani), il giovane che incarna il desiderio irrefrenabile di giovinezza eterna e Lord Henry Wotton (Francesco Errico), elegante e cinico osservatore, occhio esterno e quasi distaccato che scruta il destino degli altri, alimentando tuttavia gli ideali edonistici di Dorian.
La scena, come un palcoscenico della decadenza, è divisa in tre livelli simbolici: in alto sta il ritratto che segna il destino di Dorian, al centro l’azione e, infine, un salottino sopraelevato dove i personaggi, come in un angolo di riflessione, si confrontano con le proprie verità. Le suggestive luci di Manfredi Michelazzi sono in grado di trasportare lo spettatore alternativamente in ciascuno dei tre livelli, immergendolo in quell’atmosfera cupa che rappresenta l’anima sempre più nera del protagonista.

Il tema dell’eccesso, suggerito dal sottotitolo, permea tutta la performance, diventando una chiave di lettura imprescindibile: ogni emozione è amplificata attraverso la recitazione, rendendo l’opera una riflessione sull’inquietudine e sulla disperazione. Dorian Gray si fa simbolo di un travolgente desiderio con una serie di stati emotivi contrastanti che Germani riproduce con precisione: ira, disperazione, isteria e dolorosa tristezza. Una figura impetuosa che si scontra e incontra con gli altri due, incapaci di contenerlo e fermarlo.
La corruzione morale del protagonista esplode in climax di mostruosità: la discesa negli inferi ha inizio con la relazione tra Dorian e l’attrice Sibyl Vane, che si uccide dopo essere stata rifiutata da lui, indifferente davanti al tragico evento. La sua trasformazione interiore trova una rappresentazione perfetta nei continui cambiamenti vocali che Germani conferisce al personaggio, dotandolo di una terribile intensità, sempre più distante dall’umanità e sempre più prossima al demoniaco. È proprio questa distorsione, fisica e psicologica, che fa della figura un mostro moderno: un essere che, pur apparendo perfetto, è intrinsecamente viziato.

ph Emma Terenzio

Come Dorian, molti sono disposti a sacrificare la propria integrità interiore pur di mantenere o ottenere un’apparenza impeccabile, ignorando il prezzo che tale ricerca può comportare. La bellezza, anche nella società odierna, sembra essere la nuova divinità: la chirurgia estetica, in questo senso, può essere vista come speculare al ritratto di Dorian Gray. Così, la rappresentazione di Raimondi diventa di un’inquietante attualità, richiamando alla mente anche il discusso film The Substance di Coralie Fargeat, in cui, allo stesso modo, si affronta la trasformazione fisica come risposta al desiderio di perfezione e di accettazione sociale. Proprio come Dorian Gray, il personaggio di The Substance si trova di fronte a un paradosso: mentre l’ apparenza esteriore può migliorare, l’identità interna viene messa a dura prova. In entrambi i casi, c’è un’esplorazione della disconnessione tra corpo e anima ed entrambi sollevano una domanda necessaria: cosa accade quando la bellezza diventa il centro della nostra identità, e quanto siamo disposti a sacrificare, anche moralmente, per mantenerla intatta? Si può chiamare questa libertà?

Lo spettacolo è inserito nella sedicesima edizione di DonneTeatroDiritti, che quest’anno ha proprio il titolo Se la Libertà è in pericolo. Infatti, qual è la soluzione quando si è imprigionati nella gabbia dell’apparente perfezione? In questo caso, l’autodistruzione appare l’unica via per spezzare il circolo vizioso e ridare dignità al personaggio che, in Dorian Gray, attraverso il sacrificio della sua stessa vita, tenta di cancellare le atrocità commesse: una sorta di purificazione finale che solo la morte può offrire, liberandolo dal passato.


IL RITRATTO DI DORIAN GRAY
ovvero La moda dell’Eccesso

di Oscar Wilde
drammaturgia e regia Annig Raimondi
con Francesco Errico, Anna Germani, Stefano Tirantello
scene Isolde Michelazzi
musiche originali You go, you charm di Maurizio Pisati, Tannhäuser di Richard Wagner
disegno luci Manfredi Michelazzi (AILD)

Pacta Salone, Milano | 23 marzo 2025

Danza in Rete Off a Schio: la giovane coreografia italiana fra spazi urbani e nuovi dispositivi performativi

ph_alice gasparotto

RENZO FRANCABANDERA | Danza in Rete, il festival di danza contemporanea che si svolge annualmente a Vicenza e Schio, giunto nel 2025 alla sua ottava edizione si articola in diverse sezioni, tra cui Danza in Rete Off, dedicata alla sperimentazione e alla promozione di giovani artisti emergenti, sezione che abbiamo negli anni seguito sempre con particolare attenzione e che nel 2025 ha presentato una programmazione assai variegata, con proposte di artisti italiani e internazionali.
Tra questi abbiamo già raccontato i lavori andati in scena a inizio marzo di Panzetti e Ticconi, la performance rituale del coreografo mozambicano Vasco Pedro Mirine e la creazione della performer canadese Clara Furey, che esplora la sensualità queer.
Peraltro il festival non è solo una rassegna di spettacoli che si estende per tutta la stagione da febbraio a maggio, ma prevede diversi progetti di formazione e promozione della giovane danza d’autore in un contesto di network in cui Danza in Rete si muove. Segnaliamo, fra gli altri, il progetto “Artista in Rete”, che vede quest’anno la partecipazione di Nicola Galli, con la presenza dell’artista per l’intera durata del festival, durante la quale l’artista presenta una nuova creazione, conduce laboratori e masterclass, e partecipa attivamente agli eventi del festival. Danza in Rete, come si diceva, è parte di diverse reti nazionali e internazionali, tra cui Anticorpi XL, che promuove la giovane danza d’autore in Italia ed ha una collaborazione attiva anche con l’Università IUAV di Venezia per iniziative formative rivolte agli studenti di coreografia.

Raccontiamo qui invece quanto successo il 12 aprile scorso a Schio, città che nelle ultime edizioni ha assunto un ruolo progettuale specifico all’interno della programmazione di Danza in Rete. Partiamo da Dancing Strides – Harvest, che ha avuto luogo nello spazio pubblico del centro urbano di Schio, tra le tracce dell’archeologia industriale e i giardini storici della città. Si tratta di una camminata coreografica ideata da BASE 9 collettivo attivo dal 2022 che si distingue per il suo approccio laboratoriale e comunitario alla danza: una pratica aperta, inclusiva, sensibile ai contesti, che trasforma ogni incontro in un’occasione per generare presenza e ascolto. L’azione è riservata a massimo 45 partecipanti per volta: lo spettacolo ha infatti avuto più repliche durante la giornata. Non la semplice passeggiata urbana con audiocuffie, come ormai usato e abusato nei festival, ma un dispositivo in cui i corpi, i luoghi e i gesti si contaminano reciprocamente, perchè progressivamente educati a creare piccoli gesti, a sviluppare una piccola biblioteca di movimento da cui attingere insieme per l’atto performativo finale, che vede negli spazi del bellissimo Giardino Jacquard, dopo essere passati per il Castello, le Scalette San Rocco e la Fabbrica Alta della Lanerossi, le tre guide all’atto performativo, portare il gruppo a realizzare una piccola ma godibilissima coreografia di gruppo, attingendo proprio alla biblioteca creata via via.

ph_alice gasparotto

L’esperienza raccoglie nel percorso stimoli visivi, tattili, acustici e motori, come se si camminasse dentro una partitura che emerge dal paesaggio stesso, in cui i partecipanti vengono guidati a osservare, reagire, interpretare il contesto urbano non più come sfondo, ma come materia viva. Il movimento nasce per accumulo, per deriva percettiva, per dialogo silenzioso tra corpi in presenza, e quella che all’inizio è una semplice e sconnessa carovana di spettatori, diventa un piccolo ensamble spontaneo, ma a suo modo coordinato che genera una sorta di terzo paesaggio danzato. Nella fase conclusiva, i frammenti di esperienza raccolti lungo il tragitto vengono rielaborati sia collettivamente in un momento performativo condiviso, senza separazione netta tra interpreti e spettatori, sia poi distillato per astrazione dalle tre danzatrici Beatrice Bresolin, Federica Dalla Pozza, Giovanna Garzotto, in una delicata restituzione fra le meravigliose piante del giardino cittadino. L’intervento si inserisce nel progetto Dancing Strides, una ricerca che unisce camminata e composizione coreografica, nella convinzione che il movimento sia un atto di relazione e che lo spazio urbano possa essere risignificato dall’attraversamento consapevole e poetico.

In serata ci trasferiamo presso il bellissimo Teatro Civico di Schio, per un programma che riserva due chicche. Si parte con Superstella, in cui Vittorio Pagani affronta il cortocircuito tra l’ideale e il reale che attraversa il gesto creativo. Pagani formatosi tra Milano, Ginevra e Londra, è uno dei giovani autori italiani più interessanti per la capacità di far dialogare corpo e immaginario contemporaneo. Il suo percorso — dal Ballet Junior de Genève alle selezioni per RIDCC, Resolution, Aerowaves — già nel precedente lavoro solista, A solo in the spotlight che avevamo commentato in occasione dell’edizione passata di Danza in Rete, trasformava la scena in uno spazio liminale in cui si condensano backstage, fantasmi cinematografici e interrogazioni sulla possibilità stessa della creazione, investigando allora il ruolo del performer e qui il ruolo dell’opera stessa.
Si comprende fin da questi assai interessanti esordi solistici come Pagani sia interessato, cosa invero assai rara nella sua generazione, a un’indagine semiotica e quasi strutturalista al fatto coreografico. Superstella è una creazione immersa in un immaginario felliniano, e prende spunto dal capolavoro del maestro,  di cui vengono utilizzati alcuni campionamenti vocali con la voce di Mastroianni. Anche qui, in questo revival nostalgico, l’artista, proprio come Guido, il protagonista del film, nell’atto di costruire, si lascia attraversare dalla precarietà del desiderio e dall’ambiguità della rappresentazione. Sebbene ancora a cuore aperto e con alcune ovvie limature da portare a compimento per asciugare qualche ridondanza dopo questo debutto, la creazione è pregevole. Pagani si muove su più registri espressivi, integrando video, testi e movimento in un montaggio scenico che non risolve ma espone le tensioni del processo creativo. L’intermittenza tra ordine e caos, tra l’urgenza di dare forma e il fascino della sospensione, viene trattata non come impasse, ma come condizione fertile. La ricerca fondata sulla contaminazione dei linguaggi e sulla riflessione critica dei dispositivi performativi, in Superstella, trova una sintesi provvisoria e aperta: una messa in scena della crisi come gesto generativo; non una narrazione lineare ma una successione di frammenti, riflessi, inversioni di marcia, in cui il pubblico è chiamato non tanto a comprendere quanto a condividere uno stato di transizione fin dall’inizio, quando gli spettatori decidono cosa il performer debba indossare in alcune scene della creazione. È un abboccamento iniziale, dall’impatto invero marginale, ma che si ricollega poi a una caustica riflessione, che l’artista compie nell’evolvere dell’azione scenica, sui criteri ministeriali adottati per valutare gli spettacoli, con le famigerate griglie che attribuiscono ridicoli punteggi su elementi quali, tra gli altri, il coinvolgimento del pubblico. Il tutto mentre Pagani ora in luce piena, ora sagoma in controluce, si prosciuga in un continuo e ininterrotto gesto danzato che termina in una azione a pavimento in cui, ora assetato, ora ingozzato dal sistema stesso, finisce per bere l’amaro calice della creazione che nutre e fagocita l’artista stesso. Molti gli stimoli, molte le idee, interessante e promettente la crescita. Se il primo lavoro era esuberante nel suo essere pensato, questo è pensato con esuberanza ma con dentro già una crescita visibile.

ph_alice gasparotto

The Fridas di Sofia Nappi/Komoco a chiudere la serata: un duetto che interroga l’identità nella sua molteplicità, a partire dal celebre dipinto Le due Frida di Kahlo. Due danzatori, Paolo Piancastelli e Adriano Popolo Rubbio, si muovono tra complicità e tensione, in una coreografia che riflette le contraddizioni intime, l’alterità interna e l’instabilità dell’io. I gesti, fin dalle prime sequenze che affiorano in una penombra di luci calde ma concentrate, sono ora simmetrici ora in opposizione, e diventano espressione tangibile di conflitti e convergenze, di affinità e differenze. Il corpo è al centro della ricerca, non come supporto tecnico ma come territorio emotivo e politico.

In questo lavoro, Sofia Nappi disegna una scrittura coreografica che si alimenta di vulnerabilità, sovversione dei codici maschili, introspezione e ironia. L’azione, che richiama visibilmente l’opera della artista messicana tanto nella panca, unico elemento scenico della creazione quanto nei costumi, visibilmente ispirati nelle cromie al doppio del quadro dell’artista, si sviluppa per quadri successivi. Il finale, infatti, rinuncia alla gravitas per abbracciare un umorismo disincantato, che alleggerisce ma non banalizza. Il caos esistenziale è accolto, non risolto. Il gesto si fa caricatura, parodia, atto di sopravvivenza.

Il lavoro s’inserisce all’interno della ricerca coreografica di KOMOCO, compagnia fondata dalla stessa Nappi, che negli ultimi anni ha ottenuto riconoscimenti significativi e si è affermata su circuiti internazionali di primo piano. L’approccio di Nappi, segnato anche dalla sua formazione all’Alvin Ailey American Dance Theater e dall’influenza del linguaggio Gaga, tende alla composizione come indagine emotiva e fisica, in cui il movimento è strumento di pensiero. Pensato per spazi teatrali e non convenzionali, il duetto si apre a un’esperienza visiva cangiante, dove l’osservatore è invitato a più livelli di lettura. L’assenza di frontalità univoca che si perde dopo il primo istante in cui i due corpi allineati e seduti uno davanti all’altro sviluppano una immagine proiettata e bicefala, è coerente con il tema stesso della molteplicità: ogni punto di vista genera una Frida diversa.

SOFIA NAPPI THE FRIDAS ph _alice gasparotto

Anche The Fridas non cerca risposte definitive, ma si muove nel terreno incerto del riconoscersi, dove l’identità è sempre rifrazione, frammento, dialogo. A tratti si sente mancare un po’ di sporco, perchè è tutto curato, pulito e preciso, mentre forse un ulteriore spazio al fragile in questo lavoro, nato come esercizio di ritorno al lavoro interno della compagnia dopo le tante commissioni internazionali, può restituire ulteriore enfasi al corpo come archivio di possibilità, sempre in bilico tra essere e rappresentarsi. In fondo anche il corpo della Kahlo era frammentato, rotto, scomposto.

 

DANCING STRIDES #4 Harvest

ideazione, conduzione, danza Beatrice Bresolin, Federica Dalla Pozza, Giovanna Garzotto
musiche di artisti vari
produzione Associazione Culturale Base 9

 

SUPERSTELLA

di e con Vittorio Pagani
supervoce, supporto alla drammaturgia e riprese video Pietro Angelini
testi originali, coreografie, proiezioni Vittorio Pagani
disegno luci Stefano Moriondo
consulenza artistica Francesca Santamaria
musiche Fred Again.., Bo Burnham, Nils Frahm, Myss Keta, Andrea Laszlo De Simone, Kyle Bobby Dunn, Dylan Henner, I Cani
residenze artistiche nell’ambito di ResiDance – azione del Network Anticorpi XL presso L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale – Centro di Residenza Emilia-Romagna, Fondazione Armunia, Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza, Lavanderia a Vapore
produzione CodedUomo
coproduzione Festival Danza in Rete – Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza
durata 40 minuti

Prima nazionale e coproduzione

 

THE FRIDAS

coreografia Sofia Nappi
in collaborazione con i danzatori Paolo Piancastelli, Adriano Popolo Rubbio
assistente alla coreografia Glenda Gheller
costume design Adriano Popolo Rubbio
realizzazione costumi Adriano Popolo Rubbio, Adelaide D’Ago
luci Alessandro Caso
musiche Gurevitsch, Martinez Serrano, Thornato (feat. The Spy Spy from Cairo), Casalis, Goldenthal
produzione Komoco
coproduzione Festival Danza in Rete – Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza
con il sostegno di Oriente/Occidente, Centro Coreografico Nazionale/Aterballetto
residente a progetto presso il Centro di Rilevante Interesse Nazionale per la Danza Scenario Pubblico/CZD
durata 20 minuti

Prima nazionale e coproduzione

Danza e scritture. Masterclass di formazione gratuita con Marco D’Agostin alla scuola Iolanda Gazzerro di ERT

RENZO FRANCABANDERA | Ancora una nuova opportunità di formazione gratuita presso la scuola Iolanda Gazzerro di ERT, Emilia Romagna Teatro. Nell’ambito dell’operazione “Masterclass per la Scena Contemporanea 2025”, Emilia Romagna Teatro Fondazione promuove un percorso gratuito di Alta formazione per giovani attrici/tori, danzatrici/tori, coreografe/i e performers fisici: Danza e scritture. Masterclass con Marco D’Agostin, organizzato da Emilia Romagna Teatro Fondazione e sostenuto dal Fondo Sociale Europeo Plus 2021-2027, si colloca all’interno del focus “Carne” sulla drammaturgia fisica, sotto la direzione artistica di Michela Lucenti. È pensato come un laboratorio intensivo per giovani artisti della scena contemporanea (attrici, attori, danzatori, performer) con una forte componente teorico-pratica, dove il corpo è inteso non come semplice strumento espressivo, ma come agente drammaturgico e politico. L’obiettivo non è solo l’affinamento delle tecniche performative, ma anche la messa in discussione di convenzioni e linguaggi attraverso l’incontro con la scrittura letteraria e i processi compositivi della danza.
La masterclass non propone un semplice training, ma un processo di scambio critico e immaginativo in cui le temporalità del romanzo e quelle della coreografia entrano in tensione e dialogo.
D’Agostin lavora da sempre su un principio di analogia tra testo e danza, tra narrazione e partitura fisica, a partire da riferimenti filosofici precisi (Bergson, in particolare). Il corpo è pensato come campo di sedimentazione della memoria, veicolo di immagini e decisioni non prese, spazio per una scrittura incarnata che si dà come gesto o silenzio, movimento o stasi.
L’artista propone una metodologia che intreccia biografia e dispositivi coreografici, all’interno di una prospettiva performativa che fa della vulnerabilità una risorsa espressiva. La sua traiettoria artistica si è costruita tanto nella pratica dell’interpretazione quanto nella composizione. Ha collaborato con figure di rilievo del panorama performativo europeo — tra cui Claudia Castellucci, Alessandro Sciarroni e Liz Santoro — ed è stato selezionato più volte dal network Aerowaves. Le sue opere sono state presentate in spazi istituzionali e festival internazionali, e la sua ricerca si concentra sulla relazione tra performer e spettatore, esplorando la memoria come dispositivo di partecipazione.

Nel 2023 ha ricevuto il Premio Ubu per il miglior spettacolo di danza con Gli anni, e nello stesso anno il Premio Riccione Speciale per l’innovazione drammaturgica. È artista associato del Piccolo Teatro di Milano. Tra le sue creazioni recenti si segnalano First Love e Anni, lettere e valanghe, libro cofirmato con Alessandro Iachino che indaga la scrittura coreografica nel rapporto con l’archivio, la parola e l’autobiografia.

First Love. Foto Luca Del Pia

A coordinare il contesto in cui si inserisce questa proposta è Michela Lucenti, coreografa e danzatrice formatasi tra danza classica e contemporanea, attiva da anni nel ridefinire i confini della scena performativa italiana. Fondatrice del collettivo Balletto Civile, è una delle figure centrali del rinnovamento del teatro fisico italiano, e con il progetto “Carne” sta costruendo uno spazio di esplorazione transdisciplinare volto alla formazione e alla ricerca scenica. Lucenti immagina la drammaturgia fisica come una forma di scrittura totale che interseca linguaggi e tecniche, ma anche come gesto politico: un’azione del corpo che diventa affermazione di soggettività e critica sociale. La scelta di Marco D’Agostin come tutor per questa masterclass si inserisce in una linea coerente con la sua visione: artisti che lavorano sul limite tra forma e disintegrazione della forma, tra espressione e narrazione, tra il vissuto e la sua messa in scena.

Il corso prevede una restituzione pubblica del lavoro svolto, concepita non come spettacolo conclusivo ma come condivisione di un processo. Il dispositivo pedagogico si fonda sull’interrogazione dei materiali e sul confronto tra pratiche corporee e strategie di scrittura. Il linguaggio scenico si struttura quindi attraverso una relazione costante tra gesto e pensiero, presenza e memoria, riflessione e azione. Il corpo non è semplicemente un mezzo, ma ciò che resiste, segna, trasmette.

Per informazioni dettagliate sul bando, sulle modalità di candidatura e sulle scadenze si rimanda al sito ufficiale di ERT Scuola di Teatro.

Emilia Romagna Teatro Fondazione realizza l’operazione Masterclass per la Scena Contemporanea 2025 – Rif. PA 2024-23069/RER, finanziata con risorse del Programma Fondo sociale europeo Plus 2021-2027 della Regione Emilia-Romagna e approvata con Deliberazione di Giunta regionale n. 2287 del 09/12/2024.

 

PROGRAMMA

Il corso si svolgerà nei seguenti periodi: dal 15 al 27 settembre 2025.
Durata del percorso formativo: 80 ore, di cui n.72 ore d’aula e n.8 ore di project work, per permettere alle/agli studentesse/i di confrontarsi in autonomia con quanto appreso durante le lezioni in aula.
Attestato rilasciato al termine del corso: Attestato di frequenza
Quota di iscrizione: il corso è gratuito.
Le/I partecipanti dovranno frequentare, indipendentemente dalle singole modalità formative che compongono il corso, almeno il 70% delle ore complessive previste dal programma.

Nel corso e al termine della Masterclass saranno possibili momenti di dimostrazione pubblica del percorso pedagogico, nell’ambito del programma della Rassegna Carne.

Aspetti Pratici

Numero massimo di partecipanti: Limitato per garantire un lavoro personalizzato (probabilmente 12-15 persone).
Attestato: Previsto al termine del corso.
Assicurazione: Copertura infortuni inclusa.

Contatti e Informazioni

Per chiarimenti, è possibile rivolgersi a:

Email: formazione@emiliaromagnateatro.com

La Fedra che implode: fra raffinatezza e l’eleganza Tiezzi mette in scena Racine

foto di scena Luca Manfrini

ESTER FORMATO | É andata in scena al Piccolo Strehler di Milano, “Fedra” con la regia di Federico Tiezzi, coprodotto, fra gli altri, anche da ERT Emilia Romagna. In scena, catalizzatrice di tutta la tragedia, nella versione di Jean Racine, è Elena Ghiaurov che interpreta questa figura emblematica del teatro tragico greco, archetipo femminile vicinissimo a quello di Didone e di Medea; modelli atavici di una femminilità dirompente che si esprime nella forza passionale del loro essere e, se vogliamo, anche sopravvivenze letterarie di una concezione matriarcale del potere e della vita, preesistenti nell’area egeo-anatolica, prima dello sviluppo della civiltà greca propriamente detta.

foto di scena Luca Manfrini

Euripide, Seneca e Racine. Il mito di Fedra è stato diversamente partorito dai tre grandi tragediografi con una prospettiva molto differente. Jean Racine nel 1677, al netto della concezione giansenista, riprende l’impianto drammaturgico di Seneca il quale, secondo il pensiero stoico, avrebbe messo in luce, incarnandola nella regina di Trezene, l’imponente lotta delle passioni umane che finiscono per sovrastare la coscienza razionale.
Fedele alla traduzione tardonovecentesca di Giovanni Raboni, Tiezzi dà vita alla sua Phèdre nel corpo e nella voce di un’Elena Ghiaurov fascinosa e magnetica; ne veniamo a conoscenza in un piccolo prologo che le si riserva, metà femme fatale e metà attrice di rivista, quando in un sinuoso accenno di danza dà avvio allo spettacolo.
Un sipario color oro attira l’attenzione degli astanti. Ad apertura di quest’ultimo, il nostro sguardo indugia su un assetto scenografico pulito ed omogeneo curato da Franco Raggi, Gregorio Zurla e Federico Tiezzi. Una sola luce frontale illumina la scena arredata da due lampadari in cristallo molto grandi tra i quali troneggia un dipinto di Guido Reni che diviene il punto  di fuga, mentre le quinte laterali sono costituite da vetri levigatissimi e lucidi, coordinati da teste di statue tutte uguali che si ripetono da ambo i lati, come a voler inserire dei motivi tipicamente barocchi (la moltiplicazione di un elemento) entro una cornice simmetrica e rigida. Completa il tutto un triclinio marmoreo molto grande posto al centro.  Quando il nostro sguardo vi fa capolino, abbiamo già conosciuto Ippolito (un misuratissimo Riccardo Livermore) ed il suo fidato Teramene (Massimo Verdastro) in abiti sbrilluccicanti, gorgiere ed in posa semisupina in cui declamano le loro iniziali battute. Anch’essi sono accomodati in proscenio, perché il mondo di Ippolito è fuori le mura della reggia, idealmente celata dal sipario dorato, e li cogliamo mentre il giovane principe confessa, nonostante sia consacrato a Diana, e dunque alla castità perpetua, di amare una giovane fanciulla. Si tratta di Aricia (Catherine Bertoni de Laet), personaggio assente sia in Euripide che in Seneca, ma che Racine introduce per poter stemperare la misoginia di Ippolito e che avrebbe desunto da Virgilio. L’amore, quale esperienza che non aveva messo in conto nella sua vita, lo turba, la sua fatica ad ammettere di esserne pervaso è evidente, eppure, la perfetta legittimità di un amore fedele e giovane lo sollecita a cedervi. L’armonia esterna dei boschi di Trezene è ben presto contrastata dalla drammaticità che Fedra, rifiutando la luce del sole, vive nell’oscurità del palazzo di Teseo che si presume morto. È affetta da un male misterioso che agisce tanto sulla mente quanto sul suo corpo, e che la fa dimenare, quasi a volersene liberare. Il suo – in questo caso quello di Elena Ghiaurov – è un corpo memore di quelli di altre eroine tragiche di spessa consistenza, tutti potenti nell’esprimere una femminilità prodigiosa quanto distruttiva. Accanto a lei, vi è un’altra figura, incarnata lucidamente da Bruna Rossi. È Enone, la nutrice di Fedra, alla quale la regina, dopo tante reticenze, si confessa: ebbene si, il suo male è amare il figliastro Ippolito di un amore sconsideratamente violento nel desiderio e, ovviamente, nel suo essere gravemente illecito e quasi incestuoso.

foto di scena Luca Manfrini

Da Euripide a Racine, l’amore di Fedra per Ippolito si manifesta attraverso un morbo fisico, oltre che un’ossessione psicologica, di certo alimentato intensamente dalla natura sfuggente del giovane, dal suo carattere selvaggio – vive nei boschi – e, non ultimo, dalla sua proterva castità. L’amore di Fedra è una carta drammaturgica preziosa, già nel testo latino la progressiva intensità con cui viene espresso crea una tensione importante nel personaggio, inizialmente sopraffatto ed inabile ad ogni azione, ma poi artefice di una risoluzione funesta. Che è l’azione madre, l’azione che determina la tragedia. Nel testo francese però, l’abulìa di Fedra prevale ed è largamente compensata da un’Enone che Bruna Rossi incarna con una compostezza malefica. Vestita rigorosamente in nero, con una benda su un occhio, nonché un copricapo scuro, il suo personaggio prende delle sembianze multiformi, finendo per somigliare a figure antropologiche assimilabili alle megere della cultura meridionale. Ed è il personaggio più bello di questo allestimento. Scrive lo stesso Racine nella prefazione alla tragedia, di aver preferito che la nutrice accusasse falsamente Ippolito di aver cercato di violare Fedra, dinanzi a Teseo, e non la stessa Fedra, come nei modelli antecedenti, per non screditare il personaggio di una regina.
A quest’ultima, invece, viene lasciata la tragica confessione del suo amore all’attonito figliastro a cui segue la fuga dello stesso, l’arrivo del re redivivo, la falsa accusa della tentata violenza e la vendetta paterna che si abbatte sul sangue innocente. Una catastrofe strutturata da una salda reazione a catena che prende avvio solo dopo che il segreto di Fedra viene reso pubblico ad Enone, trasformando, quindi, il dramma interiore della donna in un atto reale e irreversibile. Come nel frammento n. 31 di Saffo, qui l’amore è forza concreta che squassa i corpi, oltre che la mente, in una prospettiva aderente alla visione ellenica che imputava ad Eros la fisicità dell’amore con una propria fisiologia, spesso distruttiva, ma parte dell’esperienza umana (magistralmente descritta nel De Rerum Natura IV di Lucrezio).

foto di scena Luca Manfrini

Federico Tiezzi, pur essendo ben consapevole delle palpabili tensioni e crepe che circolano fra le pieghe di questo mito, preferisce misurarne razionalmente ogni tassello, facendo prevalere una visione dicotomica per cui alla distruttività di Fedra fa da contrappeso la sobrietà di Ippolito, coinvolgendo in questo assetto altri personaggi, come Aricia e Teramene che fanno da contraltare all’inquietante Enone: una dialettica che si rifà all’idea manichea del giansenista Racine. In questo modo il regista restituisce compattezza al testo facendolo fluire chiaro dall’inizio alla fine, rivelando, passo dopo passo, una grande attenzione alla coerenza formale ed estetica che a volte, però, ha la meglio sull’intensità narrativa e sugli appigli più audaci presenti all’interno dell’opera: un’operazione equilibrata e cautelativa verso un testo ad alta levatura come questo. La corposità della parola tragica spesso inibisce le possibilità trasformanti dell’opera e che avrebbero potuto spingere di più su alcuni aspetti della psicologia di Fedra, nel tentativo estremo e assurdo di primeggiare sulla natura e sulla morale.
Ancora da un punto di vista formale, sui segni scenici, vi compaiono elementi che risulterebbero interessanti se non fossero soltanto appoggiati nella brillantezza della scenografia, senza che siano determinanti nell’esplicitare il pensiero della regia: Teseo (Martino D’Amico), incapace ad accertarsi della verità, indossa una specie di visore che gli copre gli occhi, un quadro di Guido Reni troneggia nella prima parte dello spettacolo, con soggetto Ippomene ed Atlanta (avversa alle nozze, come Ippolito), un bonsai in una teca compare nell’ultima parte, contrastando il gusto classicista che s’impone su tutto l’arredo scenico. Anche la scelta di preservare il verso alessandrino, quello della traduzione di Giovanni Raboni, che in alcuni punti del dramma fa sfoggio persino della rima, sta ad indicare un approccio filologico, visto certamente come un porto sicuro, rispetto al rischio di qualche sbottonatura in più nell’interpretazione del testo.
È complicato, si sa. È scivoloso questo terreno magmatico e viscerale che è Fedra, come scomodo e fuorviante è narrare oggi di questa potenza erotica indomata; una vitalità quasi misterica, millenaria, difficile da cogliere nella sua forza totalizzante, troppo genuina, troppo malvagia e dolorosa al contempo e che vuole esplodere dalla metrica in cui per millenni è stata rinchiusa, più che implodere.

FEDRA
di Jean Racine
traduzione Giovanni Raboni
regia Federico Tiezzi
con Catherine Bertoni de Laet, Martino D’Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov, Riccardo Livermore, Bruna Rossi, Massimo Verdastro
scena Franco Raggi, Gregorio Zurla e Federico Tiezzi
costumi Giovanna Buzzi
luci Gianni Pollini
canto Francesca Della Monica
movimenti coreografici Cristiana Morganti
regista assistente Giovanni Scandella
costumista assistente Lisa Rufini
scenografa assistente Erika Baffico
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale, Compagnia Lombardi-Tiezzi

Milano, teatro Strehler, 10 aprile 2025

La fattoria degli animali al Pacta: esistono poteri buoni?

MARIA FRANCESCA SACCO / PAC LAB *| Al PACTA Salone di Milano, la scena si presenta semplice ma evocativa: alcuni leggii disseminati sul palco, un’impalcatura centrale su cui incombono una serie di altoparlanti. L’atmosfera richiama uno spazio ibrido, a metà tra una fabbrica dismessa, un’aula di tribunale e il cuore impersonale di un apparato di propaganda.
È in questo contesto essenziale che prende forma l’adattamento teatrale de La fattoria degli animali di George Orwell, diretto e interpretato da Giovanni Battista Storti, affiancato in scena da Annig Raimondi e Riccardo Megherini.
I tre attori non indossano costumi specifici o maschere, ma si affidano alla forza della voce e della parola, ai movimenti scenici e al ritmo della narrazione per dare vita a tutti i personaggi del celebre romanzo allegorico. L’impianto, asciutto e incisivo, alterna narrazione e dialoghi, rimanendo fedele all’opera originale: lo spettacolo sembra puntare soprattutto sulla parola per restituire tutta la forza politica e simbolica del testo di Orwell, della sua meditazione sulla natura del potere, sulla manipolazione delle masse e sulla fragilità degli ideali rivoluzionari. La limitazione dei movimenti, simbolici e evocativi, e l’assenza di elementi scenici appariscenti, sembrano deliberate: una regia che evita ogni distrazione, per concentrare lo sguardo del pubblico sul cuore del racconto. E lo spettatore si ritrova rapito dalla potenza della narrazione e dalla bravura degli interpreti, capaci di dare ritmo e colore ad ogni episodio, alternando momenti corali ad altri più intimi, in cui anche la musica, composta da Maurizio Pisati, diventa sostegno drammaturgico e vero e proprio personaggio in scena in alcuni momenti salienti, come quando la rivoluzione sembra fatta.

ph. Davide Mariani

La vicenda, una satira allegorica del regime sovietico, è ambientata in una fattoria inglese, dove gli animali, stanchi dello sfruttamento da parte del padrone umano, il signor Jones, decidono di ribellarsi per creare una società più giusta. Dopo aver ascoltato il discorso del vecchio maiale saggio, che li ispira a sognare un mondo senza oppressione, insorgono, cacciano il fattore e ribattezzano il luogo “Fattoria degli Animali”, con lo scopo di instaurare una società basata sull’uguaglianza.
I maiali, considerati i più intelligenti assumono la guida, scrivono i Sette Comandamenti del nuovo ordine e alimentano l’illusione della libertà. Tuttavia, con il tempo, i principi di uguaglianza vengono progressivamente stravolti. I maiali si appropriano dei privilegi, manipolano la verità e stringono alleanze con gli uomini, i nemici originari.
Lo spettacolo rappresenta bene questa corsa verso la distopia, dove parola, propaganda e identità si confondono. Il fatto di avere in scena solo tre attori accentua la fluidità dei ruoli: chi guida oggi potrebbe essere sottomesso domani. Questo continuo slittamento d’identità amplifica il senso di precarietà e instabilità che pervade la storia, restituendo perfettamente il messaggio di Orwell: il potere è cangiante e spesso si nasconde dietro le stesse parole che aveva giurato di combattere.
La scenografia minimale diventa così simbolica. Gli altoparlanti non sono solo oggetti scenici, ma strumenti di propaganda che trasmettono ordini e slogan, rendendo udibile la voce del potere. Anche i leggii con le ruote, che gli attori spostano da una parte all’altra, sembrano minacciosi: simboli di una legge mobile e arbitraria, che si adatta a chi comanda.
Tra i momenti più forti dello spettacolo vi è la progressiva riscrittura dei Sette Comandamenti, a cui si assiste come ad un processo subdolo: una parola alla volta, un’aggiunta apparentemente innocua, una modifica di senso. Leggendo Orwell, è facile comprendere quanto rapidamente un ideale possa diventare strumento di controllo, e quanto la propaganda sia efficace non quando grida, ma quando sussurra, lentamente, fino a farsi normalità. Questo concetto è reso tangibile nello spettacolo attraverso momenti, anche ironici, in cui Annig Raimondi, nei panni di Bertha, tenta di leggere i comandamenti, sorprendendosi delle modifiche in un misto di esitazione e incredulità.
Vedere La fattoria degli animali a teatro significa fare i conti con un presente in cui la manipolazione del linguaggio, la riscrittura della memoria e la diffusione sistematica della disinformazione sono più attuali che mai. Orwell ci appare come un profeta moderno, e il teatro come il luogo ideale in cui il suo messaggio può ancora colpire e far riflettere. L’ultima versione dei comandamenti, “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”, è la sintesi perfetta del linguaggio distorto che caratterizza ogni regime autoritario.
È interessante osservare come il controllo sulle persone passi attraverso la gestione del linguaggio, dei sogni collettivi e della memoria ed il teatro, in questo senso, può diventare esso stesso un atto politico, capace di risvegliare domande, mostrare meccanismi invisibili e far riflettere sulla libertà di ciascuno.
Lo spettacolo fa parte della sedicesima edizione di DonneTeatroDiritti, dal titolo Se la Libertà è in pericolo, che ha l’obiettivo di dare voce a riflessioni sulla manipolazione della realtà e sui condizionamenti delle coscienze. In un’epoca in cui la propaganda assume nuove forme — social, algoritmi, fake news — La fattoria degli animali ci ricorda quanto sia necessario vigilare sulla lingua e sulla responsabilità collettiva. Perché, come Orwell insegna, chi controlla il linguaggio, controlla la realtà.

PACTA Salone di Milano | 13 aprile 2025

LA FATTORIA DEGLI ANIMALI
da George Orwell
regia Giovanni Battista Storti
con Riccardo Magherini, Annig Raimondi, Giovanni Battista Storti
luci Fulvio Michelazzi (AILD)
musiche originali Il mulino e il vento di Maurizio Pisati
costumi Nir Lagziel
coproduzione PACTA . dei Teatri – Teatro Alkaest

 

*PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

L’arguzia è meglio dell’amore. Mamet e il lesbismo snob di “Boston Marriage”

OLINDO RAMPIN | Boston Marriage, l’opera di David Mamet che gira da due anni i teatri italiani con la regia di Giorgio Sangati e nella traduzione di Masolino D’Amico, è stata scritta più di vent’anni fa. È vero che, come si dice in modo un po’ corrivo, ma non per questo meno vero, culture e mode nordamericane attecchiscono in Europa, e soprattutto nell’Europa meridionale, con alcuni anni di ritardo. È anche vero che mai come negli ultimi anni la decadenza americana, culturale e non solo economica e geopolitica, ha rallentato o ha almeno ridotto la distanza tra il livello dello sviluppo economico e del dibattito artistico-culturale che si svolge oltreoceano e quello di una provincia imperiale di scarso rilievo come l’Italia.
Ciononostante, più al teatro che al cinema, l’impressione che l’umorismo anglo-americano subisca nella traduzione sulla scena italiana una specie di trapianto con rigetto, di liofilizzazione che ne rende difficile la comprensione autentica, non scompare del tutto. L’Italia ha nelle sue corde la comicità, la farsa, la maschera, non l’umorismo.

Maria Paiato è Anna – ph Serena Pea

Se in questo caso, invece, la traslazione culturale è apparsa meno stridente, e anzi ha agito da moltiplicatore semantico, è dovuto al doppio fatto che Mamet ha ambientato la sua storia nell’Ottocento, in un’America ancora paleo-capitalistica, e che nella versione di Sangati le tre eccellenti attrici, Mariangela Granelli, Ludovica D’Auria e soprattutto Maria Paiato, hanno trasferito a loro volta la vicenda narrata in una temperie attoriale propizia a quell’umorismo, grazie al recupero, tra affettuoso e ironico, di una tecnica volutamente “arcaizzante”, con toni, modi e posture forse ispirati con umoristica benevolenza alla leggendaria Compagnia D’Origlia-Palmi.
Rifiutata dai teatri italiani negli anni Sessanta del Novecento perché ritenuta superata dal tempo, esiliatasi nel teatro di Borgo Santo Spirito a Roma, meta devozionale e fonte d’ispirazione di Carmelo Bene e Paolo Poli, la D’Origlia-Palmi  continuò a recitare le sue vite di Cristo e di Sante con la pronuncia e la dizione che non andavano più di moda.
Se con Boston Marriage, viaggiando all’indietro di un secolo, il dramatist americano di origine ebreo-russa ha potuto creare soprattutto un saggio pirotecnico di battute brillanti ispirato all’arte del wit di Oscar Wilde, di botta e risposta veloci e arguti, Maria Paiato ha saputo tradurre questa pirotecnìa con creativa infedeltà trasportandola nella scuola attoriale “all’antica italiana”.

Maria Paiato (Anna) e Mariangela Granelli (Claire) – ph Serena Pea

È Oscar Wilde, dunque  il vero nume tutelare di questa operazione. Il suo spettro si aggira in lungo e in largo per il testo di Mamet. La passione per i paradossi, il ribaltamento delle aspettative, la scabrosità fatta passare in chiave ironica, rimandano con forza allo scrittore di The importance of being Earnest, vertice assoluto di questo gusto delle boutades vincenti. Questo esercizio di rifacimento, quasi, del più fortunato drammaturgo inglese di fine Ottocento deve aver stimolato il gusto antiquario di Mamet, nel cui intreccio pieno di colpi di scena ma ben bilanciato, si intravvedono anche le silhouettes di Émile Augier, di Alexandre Dumas figlio e di Victorien Sardou, di quel teatro salottiero francese a cui molti caratteri del teatro wildiano si ispirano.

Il fatto è che Mamet trasferisce la sua vena di fortunato anatomista delle disfunzioni della famiglia americana del secondo Novecento dentro un interno lesbico, ma lo retrocede di un secolo. Virtuosa insuperata di bon mots, ma anche di vessatorie canzonature nei confronti della provinciale e ingenua giovane cameriera Catherine (Ludovica D’Auria), piena di una vitalità inarginabile che richiede alla Paiato una prova vocale e fisica non indifferenti, Anna è una donna non più giovane, ma disposta a tutto pur di non perdere Claire (Mariangela Granelli), la compagna della sua vita. La quale ha messo in crisi il loro “matrimonio bostoniano”, eufemismo tardo ottocentesco con cui si definiva un rapporto “coniugale” lesbico, perdendo la testa per una ragazzina.

Ludovica D’Auria (Catherine) – ph Serena Pea

Quel tanto di umiliazione, di senso di colpa e di gusto della perdizione che appartengono sempre a un amore infelice, specie se la parte debole spetta a un amante più vecchio dell’oggetto d’amore, sono però gestiti dall’esperienza e dalla scaltrezza della vitalissima Anna, dalla forza “faustiana” della sua arguzia, del suo autocontrollo, dalla sua ingegnosa abilità nel macchinare espedienti e trovate. I suoi violenti e razzisti attacchi nei confronti della cameriera,  con quella  patina di snobismo ed elitismo da borghese aristocratica  debitrici anch’essi di Wilde, sono però soprattutto una rivalsa e uno sfogo per l’umiliazione e il declassamento che il tradimento di Claire le ha fatto subire.

Ed è infine nella morale della favola che la regia di Sangati ci sembra risuonare più profondamente con la visione dell’arte espressa da Wilde, soprattutto nei suoi scritti critici. La sua fondamentale mozione anti-realistica secondo cui la vita imita l’arte, per cui l’artista deve reinventare la vita per migliorarla, essendo questa imperfetta, fa capolino nell’amplificazione del rapporto tra verità e finzione, tra teatro e vita, che la versione di Sangati elabora sul testo di Mamet. Un’amplificazione che si rispecchia nella scenografia di Alberto Nonnato, come viene chiarito dalla scritta luminosa che appare in alto, “On air”: un set cinematografico o televisivo, in cui tutto è per definizione finto, costruito. “Perché forse – dice il regista in una breve videointervista con un aforisma di puro gusto wildiano – è uno dei pochi modi per riuscire ad essere sinceri”.

Maria Paiato (Anna), Ludovica D’Auria (Catherine) e Mariangela Granelli (Claire) – ph Serena Pea

BOSTON MARRIAGE

di David Mamet
traduzione Masolino D’Amico
con Maria Paiato, Mariangela Granelli, Ludovica D’Auria
regia Giorgio Sangati
scene Alberto Nonnato
luci Cesare Agoni
costumi Gianluca Sbicca
musiche Giovanni Frison
assistente alla regia Michele Tonicello
produzione Centro Teatrale Bresciano, Teatro Biondo di Palermo
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd
per gentile concessione di A3 Artists Agency

durata: 2h (intervallo compreso)

Teatro Municipale, Piacenza | 5 marzo 2025

Il teatro spietato: Fotofinish di RezzaMastrella

ROBERTA FUSCO |PAC LAB*| Antonio Rezza e Flavia Mastrella con il loro incontro artistico avvenuto nel 1987 hanno fin da subito proposto un segno di novità nel panorama teatrale italiano, facendo delle loro vite artistiche una missione di sperimentazione e avanguardismo. Un gioco d’azzardo dove le componenti sono l’irriverenza, le immagini e un linguaggio innovativo. Rezza veniva da alcuni esperimenti di surrealtà fra teatro e tv che avevano avuto grande successo, facendo conoscere al grande pubblico il suo sembiante così fisicamente marcato nelle espressioni del volto. Flavia Mastrella invece aveva fin da subito proposto la propria identità di artista pensatrice di installazioni e spazi surreali, dalla cifra pop.

Dopo il successo di Io del 1998, ancora attuale per la sua struttura creativa, un altro grande classico del repertorio della coppia artistica viene riproposto quest’anno in tournée: si tratta di Fotofinish del 2003. L’opera s’insinua nel lavoro RezzaMastrella con le medesime caratteristiche teatrali: i colori pop delle scene di Mastrella e l’operazione recitativa senza limiti di Rezza, i medesimi elementi vincenti che nel 2013 gli conferiranno il Premio Ubu.

Ph. Giulio Mazzi

Tutto si può dire, tranne che faccia una vita noiosa. Come tutte le firme RezzaMastrella, anche Fotofinish è una scommessa. Lo spettatore perde la sua connotazione originale per diventare il complice di quello è il micromondo che si va a creare in scena. Accompagnato da un aiutante, interpretato da Manolo Muoio, Rezza dispiega una commedia surreale lunga circa 100 minuti. L’occhio cade sulla scenografia e subito si può notare la schiera di oggetti di scena che il genio di Mastrella ha creato per la pièce. Senza indugio Rezza inizia a giocarci come se fosse un bambino per dar vita a quelli che sembravano solo dettagli scenografici, ma che prendono la forma ora di una bicicletta super tecnologica, ora di un ospedale ambulante o di un’appartamento ambulante. Prende quella che sarà una bandiera per un politico o un fondale fotografico e inizia a essere cliente e fotografo assieme. L’instante dopo aver litigato con sé stesso per aver sbagliato posa, si affretta a sviluppare le foto, per poi correre indietro alla sua posizione di partenza per innalzare una bandiera e cominciare un comizio politico.

Voi siete poveri nello spirito e nelle ambizioni. Rezza in preda alla psicosi, si alterna nell’essere, in una drammaturgia esplosa e surreale, ora fotografo, adesso cliente, ora suora, di nuovo fotografo e d’improvviso politico: una frammentazione continua sulla quale si costruisce lo spettacolo. Parole e personaggi vengono posti in un dialogo continuo: un testo senza punti, solo virgole per prendere un leggero respiro. Tra l’inspiro e l’espiro, l’uomo solo diventa nuovo e cambia forma. Un teatro di trasformazione dove i confini vengono fin dal primo istante distrutti, abolendo qualsiasi tipo di logica cognitiva e drammaturgica. Nel performer albergano personalità multiple che premono per uscire, per poi fondersi e combinarsi in una unità umana contraddittoria e spiazzante. Una rottura continua degli schemi che culmina in una deflagrazione della quarta parete, e che distrugge i confini tra pubblico e palcoscenico. La costante negli spettacoli è la medesima di volta in volta: una sorta di dionisiaca follia, che parte dalla scena e si riversa verso la sala, creando un unicum spaziale. Rezza con la sua parlantina acuta entra ed esce da personaggi come affetto da un disturbo di personalità multipla; Flavia Mastrella è artefice di una scena viva, all’apparenza semplice ma funzionale a creare l’impianto per gli squilibri che andranno svolti.

Ph. Giulio Mazzi

Neanche stasera mi è venuto quell’infarto che mi risolverebbe un sacco di problemi. La frenesia è il concetto cardine di Fotofinish. Non riuscire a stare al passo mentre tutto intorno scorre troppo veloce in una vita quotidiana fatta di necessità effimere e bisogni materiali. Un bambino stanco a soli quattro anni, politici che non prendono su di sé alcuna responsabilità, un nuovo modello di bicicletta ogni dieci minuti: risultati di un sistema precostruito distante dal concetto obiettivistico della società. Come una corsa dove arrivare primi a qualsiasi costo ma senza sapere neanche realmente la motivazione per la quale si sta gareggiando, o per sperare nell’infarto che mi darebbe tanta dignità.

Ph. Giulio Mazzi

Il vostro pacifismo diventa arroganza. Via via che scorre la pièce, ciò che lascia turbati sono le risate del pubblico durante scene di comicità crudele. Nel momento in cui sta per scoppiare una brutta guerra, Rezza si prepara per sparare agli spettatori. Li prende ad uno ad uno, li spoglia di alcuni indumenti e getta i vestiti in aria, per poi farli distendere sul palco. Come negli scontri reali, le vittime si questa piccola deportazione in scena sono impotenti, non possono opporsi a quel destino che non hanno scelto perché la guerra non guarda in faccia a nessuno, è vigliacca. Una cattiveria infinita, capace di far sbellicare dalle risate il pubblico in sala, nonostante il cinismo. Rezza bullizza il pubblico toccando parti intime, ballando nudo sulle loro teste e distendendosi sui loro corpi. Tuttavia quanto più l’immagine è crudele, tanto più la reazione del pubblico è ilare: un ossimoro disumano inspiegabile. Paura di reagire o voglia di essere protagonisti?

È chiaro che l’intento di Rezza è quello di andare oltre gli schemi e anzi inserirsi nelle fenditure e nei controsensi del pensiero sociale. Non c’è pudore, politically correct o perbenismo. L’idea di fondo dell’utilizzo che RezzaMastrella fanno del dispositivo scenico è un teatro dell’assurdo contemporaneo: ripetizioni di termini e loop di frasi portati all’estremo, una completa dissociazione dell’io, una critica tacita alla società, situazioni surreali che si riflettono nella recitazione energica e sulla scena che è un turbinare di azioni solo apparentemente nonsense.
Fotofinish è una performance che dispiega messaggi crudi che confluiscono in interrogativi ben precisi: perché vi lasciate abbindolare?. Nonostante io ho problemi gravissimi, perché credete a tutto?. Anche quando è finito, è tutto finito, cosa resta realmente di un uomo solo con i suoi problemi in un mondo dove tutti sembrano vivi ma erano già morti?

FOTOFINISH

di Flavia Mastrella e Antonio Rezza
con Antonio Rezza
e con Manolo Muoio
(mai) scritto da Antonio Rezza
allestimento Flavia Mastrella
assistente alla creazione Massimo Camilli
luci e tecnica Alice Mollica
organizzazione Marta Gagliardi e Stefania Saltarelli
macchinista Andrea Zanarini
produzione RezzaMastrella-TSI La fabbrica dell’Attore Teatro Vascello

Teatro Bellini di Napoli | dal 2 al 6 aprile

*PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.