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giovedì, Maggio 2, 2024
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Elena Guerrini, Mario Perrotta: il mondo reale nuoce gravemente alla rappresentazione?

Alluvioni @ Lorenza Cerbini
Alluvioni @ Lorenza Cerbini

MATTEO BRIGHENTI | A teatro la realtà così com’è è una bugia. Senza soluzione di sensibilità drammaturgica, senza l’intelligenza del dubbio verso fatti, luoghi, persone, la cronaca e la storia diventano il resoconto di un altrove perso nel tempo e nello spazio. Qui, adesso, sul palcoscenico, tutt’al più si celebra un processo in contumacia, con la chiarezza e nettezza dell’a posteriori, di chi sa come gli eventi sono andati a finire. Il pubblico, però, seleziona, condivide, applaude rassicurato: anche questa volta la responsabilità o colpa non è sua, i buoni siamo noi, i cattivi sono altri, gli altri, spesso i potenti.
Nell’estate dei festival in Toscana, la regione in cui ogni campanile ha la sua rassegna di teatro e arti varie, sono almeno due gli spettacoli incontrati su questa traiettoria di senso e consenso: Alluvioni, dal fango alla luce di e con Elena Guerrini, in prima assoluta a Kilowatt, Sansepolcro, provincia di Arezzo, e Milite ignoto – quindicidiciotto di e con Mario Perrotta, visto a VolterraTeatro, provincia di Pisa.

Il pubblico è il fine e il principio di Kilowatt Festival – L’energia della scena contemporanea. Un metodo riconosciuto a livello europeo: fino al 2018 Festival e Comune coordineranno 12 istituzioni, in rappresentanza di 9 Paesi, nel progetto “Be SpectACTive!” per il coinvolgimento attivo degli spettatori. Si tratta della diffusione oltreconfine dell’esperienza dei Visionari che caratterizza la manifestazione aretina. Giunto quest’anno alla 13° edizione, dal 2007 Kilowatt ha messo nelle mani di un gruppo sempre più numeroso di “non addetti ai lavori” il suo ingranaggio più delicato e prezioso, la scelta degli spettacoli, affinché il festival sia ‘cosa propria’ della città e del territorio. Parte del programma è quindi opera dei Visionari, che vedono tutti i video che arrivano tramite il bando promosso e realizzato dalla compagnia Capotrave. Il lavoro di Elena Guerrini è uno degli esiti della selezione 2015.

La scena di Alluvioni è una catasta di oggetti ormai inservibili, come il cesto di una lavastoviglie, simbolici, come un televisore senza schermo con dentro delle macchinine e un’ambulanza, identitari, come il tricolore e una madonnina con l’acqua santa. Poi, scatole di cartone, a destra e a sinistra. È l’eredità di un metro d’acqua che il 12 novembre 2012 devastò Albinia (Grosseto) e dell’altro fango, pubblico e privato, che appesta l’Italia. Su questa geografia liquida Guerrini, maremmana, attrice dal 1993 (ha lavorato con Teatro Valdoca e con Pippo Delbono prima di mettersi a fare l’attrice/narratrice in proprio), alterna una poesia sulla piena di un avvocato di Grosseto a La pioggia nel pineto di D’Annunzio, dalla registrazione del telegiornale (“togli il fango e ti sembra di non farcela”) si passa a un gioco a premi in cui un concorrente immaginario deve rispondere ad alcune domande per vincere la ricostruzione del suo ristorante alluvionato. Cosa fa un computer durante un’alluvione? Naviga. Una televisione? Va in onda. Un gallo? Galleggia. La vita va avanti, la distruzione scatena anche la creatività, con barzellette o modi di dire, ma dentro Alluvioni non sono nuove forme di resistenza e sopravvivenza, sono cose e cause perse da una sfilacciata drammaturgia.
“In un’ora lo spettatore, a stretto contatto con me sulla scena – promette Elena Guerrini – si immerge nel fango e ne esce pulito. Nuovo.” La derisione dell’informazione e, più in generale, della retorica dei disastri, le si ritorce presto in un azzardo che non tiene in alcuna considerazione la portata del dramma: l’alluvione di Albinia provocò sei morti. Il crescendo finale della abusata Perfect Day di Lou Reed, estremo tentativo di unire pathos e coinvolgimento del pubblico, arriva al culmine del disappunto e dello sconcerto per una mascherata di prese in giro.

Elena Guerrini è stata fortemente voluta dai Visionari, incantati forse dagli intenti di teatro d’impegno civile (due gli anni di studio), Mario Perrotta è stato largamente applaudito dalla Fortezza Medicea di Volterra, tramutata in palcoscenico da VolterraTeatro, il Festival Internazionale delle Arti diretto da Armando Punzo, giunto quest’anno alla XXIX edizione.

Milite Ignoto - quindicidiciotto
Milite ignoto – quindicidiciotto

La guerra è tutta di tutti una volta che ci entri e Milite ignoto – quindicidiciotto parla i dialetti della regione Italia, una lingua di lingue in cui ogni frase è un inciampo di pronunce, dalle Alpi alla Sicilia, e di sensi, vista, udito, olfatto, gusto, tatto. Perrotta, in grigio militare, seduto sul salto della civiltà (dei sacchi di sabbia), usa una voce ‘tridimensionale’, che abbraccia il vicino e il lontano, e danzando le mani avanti e indietro, come la marea o la risacca, fa comparire ciò che vede e sente davanti agli occhi: la trincea, lo scoppio pretestuoso della Prima Guerra Mondiale, lo scoppio inutile di chi muore senza gloria e senza ricordo.
“Ho rivolto la mia attenzione verso gli sguardi e le parole di singoli uomini che hanno vissuto e descritto quegli eventi dal loro particolarissimo punto d’osservazione – avverte il drammaturgo, attore e regista – perché questo è il compito del teatro, o almeno del mio teatro: esaltare le piccole storie per gettare altra luce sulla grande storia.”
Della Storia con la maiuscola, però, il fondatore della compagnia del Teatro dell’Argine riporta solo la cronologia, le date come sono sui libri, per portare all’accusa, alla sbarra del teatro, la stupidità e impreparazione dei vertici militari. Ma perché il generale Cadorna ha mandato al massacro centinaia di migliaia di giovani soldati? Come ha potuto far macellare tutta quella ‘carne da cannone’, come la chiamava? Milite ignoto non lo dice, non prova nemmeno a capirlo, impegnato com’è a far sentire ‘tu, te, ti’ nel fango e gelo e piscio e merda e pidocchi della trincea. Soldati per chi? Per Trento e Trieste? La Patria è roba da studenti che pesano i pensieri, è una cosa inutile, la Patria mica si mangia. Le risate e gli applausi sono il suggello sulla continua richiesta di consenso e complicità con il pubblico, confortato nelle sue convinzioni preconcette sull’irrilevanza della politica, la codardia della ricchezza, l’incompetenza dell’autorità.
Perrotta ha gioco facile: chi può dirsi a favore della guerra? Ricordare e restare in silenzio, questo sappiamo e vogliamo fare: commemorare. E difatti lo spettacolo è stato inserito tra gli eventi del programma ufficiale per il Centenario della Prima Guerra Mondiale, a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Elaborare, investigare, analizzare, invece, non dà frutti né fondi. Perché poi dovremmo scoprirci uguali a quelli che ci fanno sentire così ignoti e indifesi. E i colpevoli non hanno niente da applaudire.

Per approfondire, leggi anche:
Carlotta Tringali, Formazione del pubblico al centro del convegno di Rete Critica a Kilowatt, su Il Tamburo di Kattrin.
Giulio Sonno, Kilowatt Festival XIII. Dubbi e domande, su [paper street].
Maddalena Giovannelli, Massimo Marino, Santarcangelo: due sguardi, su Doppiozero.

Elena Guerrini
Alluvioni, dal fango alla luce
drammaturgia, regia e interpretazione Elena Guerrini
cura della produzione Davide Di Pierro
assistente di produzione Stefania Anzidei
movimenti di scena Anna Redi
prima spettatrice Elena Di Gioia
produzione Associazione Culturale Creature Creative
con il sostegno di MAV! Festival
Visto venerdì 24 luglio, Teatro alla Misericordia, Kilowatt Festival, Sansepolcro (Arezzo).

Permàr / Archivio Diaristico Nazionale / dueL / La Piccionaia
Mario Perrotta
Milite ignoto – quindicidiciotto
di Mario Perrotta
organizzazione Silvia Ferrari
foto di scena Luigi Burroni
tratto da Avanti sempre di Nicola Maranesi
e da La Grande Guerra, i diari raccontano
un progetto a cura di Pier Vittorio Buffa e Nicola Maranesi
per Gruppo editoriale L’Espresso e Archivio Diaristico Nazionale
Visto sabato 25 luglio, Fortezza Medicea, VolterraTeatro, Volterra (Pisa).

Il successo in 10 perchè: vol. 2 – Il Festival Teatro a Corte

banner-1_1-4-2_3 (1)RENZO FRANCABANDERA | Eccoci con la seconda puntata di questo dossier su esperimenti di successo della gestione dello spettacolo dal vivo. Dopo la prima puntata dedicata al Festival di Dro, raccontiamo oggi di Teatro a Corte, con questo articolo che si conclude con un videoreportage sull’edizione di quest’anno e un’interessante intervista a Beppe Navello, da sempre direttore artistico di questa iniziativa, in cui si parla di molte tematiche assai attuali su gestione del patrimonio culturale e del suo ammodernamento. Continuiamo quindi a volerci interrogare sui motivi del successo di alcune iniziative, sulle pratiche virtuose che aiutano a determinarne l’affermazione.
Iniziamo quindi ad esaminare quali sono i driver di successo di questo caso.

1 – LA HERITAGE
E’ evidente che, per come questo festival è diventato da dieci anni circa a questa parte, Teatro a Corte non esisterebbe senza le corti, l’accesso alle dimore sabaude, all’interno delle quali sono ambientati moltissimi degli spettacoli del ricco cartellone che occupa, in genere, la seconda metà di luglio. E’ un festival che ha come peculiarità il suo svolgersi in luoghi fantastici del patrimonio artistico piemontese, le residenze di casa Savoia, ora trasformate in molti casi in regge-museo. Ogni anno una sfida, un nuovo luogo, il tentativo di stabilire legami fra quello che questi luoghi sono stati e quello che possono essere/diventare. Pochi territori hanno investito in modo così coerente su un progetto di teatralità diffusa che ha portato negli anni a realizzare iniziative di interazione fra arte, pubblico e territori, rimaste nella memoria di chi le ha vissute.

2 – IL PUBBLICO
Teatro a Corte, proprio per le sue peculiarità logistiche è da sempre uno fra i festival più seguiti e frequentati, con un pubblico molto eterogeneo, proveniente dall’intera regione e non solo. La possibilità di visitare le dimore, di scoprirle in una luce totalmente nuova, rivissute e ripensate attraverso il filtro dell’arte, fa si che Teatro a Corte sia sempre un grande successo al botteghino. Non ho mai assistito a spettacoli di questo festival con la sala semi vuota o con 20-30 persone come a volte tristemente capita di vedere qui e lì in Italia. Vuol dire che un percorso è stato fatto, e che il territorio conosce l’iniziativa e ne apprezza il carattere.

3 – COMUNICARE: OLTRE UN CERTO PROVINCIALISMO
Arriviamo qui ad un punto stranissimo, perché questo festival ha sicuramente un grande appeal sulla stampa, soprattutto internazionale, con uscite su prestigiosissime testate come Le Monde, giusto per citarne uno, ma la sua sovrapposizione temporale con il treno dei festival tosco/emiliani di metà luglio fa si che per certa critica italiana (salvo ovvie eccezioni) il festival non abbia tutta l’attenzione che assolutamente merita. In questo va denunciata una certa sclerosi abitudinaria, l’incapacità di aprire al confronto e al nuovo di molti colleghi della stampa, anche quella che si proclama “gggiovane” o “nuova”, e che vivono invece dinamiche tristemente routinarie, che guardano purtroppo in maniera fissa a talune cose, misconoscendone del tutto altre. Certo, nel tanto occorre scegliere, ma non conoscere affatto è spesso un peccato.
Ritengo anche che ci sia una disabitudine al linguaggio della commistione, il ritenere necessaria la supremazia della prosa, il non vivere possibilità di esperienza altra, se non quella legata a ciò che è già noto. Ma così non si aiuta il sistema a crescere.
Menzioniamo qui a puro titolo esemplificativo la presenza nel cartellone di quest’anno di nomi di calibro internazionale come Gob Squad, o i vincitori delle ultime due edizioni dell’International Tanz Solo Competition di Stoccarda, o nel 2012, primi in Italia, Peeping Tom, il sodalizio di Gabriela Carrizo e Franck Chartier nati da una costola della compagnia di Alain Platel (anche qui fra i primi se non proprio i primi a proporli in Italia), giusto per fare i primi nomi che mi vengono in mente. Ma anche Ilotopie, Groupe F e tantissimi altri, per spettacoli a volte colossali di ispirazione ibrida, fra danza, teatro e dimensione acrobatica di nouveau cirque, che Teatro a Corte ha fatto conoscere all’Italia intera. Insomma se arrivano giornalisti da Parigi e non solo, qualche ragione ci sarà…

4 – OLTRE CONFINE
Ed è appunto l’abilità di guardare e costruire relazioni oltre confine la cifra più significativa dell’organizzazione e dalla direzione artistica che da anni vede Beppe Navello al timone. Negli ultimi anni peraltro è stata prescelta una formula assai interessante di partnership con questa o quella macroregione europea, per ospitare, in taluni focus nazionali, le forme più innovative delle arti sceniche di quella nazione: dalla Russia alla Vallonia, la Germania ecc.

5 – E L’ITALIA?
Ecco, questo è stato finora un punto di forza di Teatro a Corte, ma forse anche una delle ragioni che spiega le questioni di cui al punto 2 sopra: Teatro a Corte non ha mai scelto compagnie nazionali “per forza”. Ha negli anni mostrato alcuni esperimenti italiani, ma senza che la cifra dell’italianità fosse quella necessaria per occupare i palchi. Si, certo, poi si ha a che dire sul fatto che  alla scena italiana manchi il sostegno per la produzione di lavori ecc, ma con la stessa onestà occorre dire anche che in Italia artisti che fanno ad altissimo livello questo tipo di arte “ibrida” ce ne sono pochissimi, se non nessuno, schiacciati come siamo fra la cultura “Orfei” di un circo che ormai in Europa quasi non esiste più e le compagnie capocomicali di prosa. Sarà forse assurdo ma questo spiega ad esempio anche perché sia stata scelta per Expo una compagnia come Le Cirque du Soleil per lo spettacolo celebrativo. In Italia questa forma di acrobatica spettacolare con commistioni di danza contemporanea, non ha interpreti di calibro internazionale. E’ un fatto. Giusto qualcuno che inizia ad appendersi a qualche campanile qui e lì, ma è incredibile come una nazione che nelle arti ginniche ha avuto interpreti di livello olimpico, non abbia finora dedicato possibilità concrete a questa forma di arte su scala medio-grande. In molte regioni del Nord Europa esistono scuole e formazione specifica. In Italia forse una, a Bologna, la cui promotrice Alessandra Galante Garrone è da poco scomparsa. O il percorso di formazione al Teatro Leonardo a Milano negli anni d’oro. Ma poco più… L’Italia è culturalmente un paese che vive di uno stereotipo socio-culturale (piccolo borghese) legato alla tradizione e incapace di proporre il cambiamento dall’interno. Il fenomeno (peraltro diversissimo e che menzioniamo solo per il tema dell’assenza quasi totale della parola in molte creazioni) della Societas Raffaello Sanzio/Castellucci, con tutta la sua portata, è infatti stato un caso unico, e rimasto poi per molti versi isolato.

6 – L’ACCOGLIENZA
Giriamo molti festival in Italia e non solo. Ma l’attenzione che questo festival riserva all’accoglienza di artisti, operatori, addetti ai lavori e anche solo pubblico è un caso quasi unico per eccellenza. Come avevamo menzionato nel caso di Dro l’abilità nelle campagne di comunicazione di Virginia Sommadossi, non può tacersi nel caso di Teatro a Corte lo stile diversissimo, ma non meno originale e indimenticabile, per chi lo ha conosciuto, di Mara Serina, professionista del mondo della comunicazione legata allo spettacolo dal vivo, che ha lavorato con e per istituzioni come Piccolo Teatro di Milano, Teatro degli Arcimboldi, Festival di Santarcangelo, Regione Emilia Romagna, Comune di Milano, e che dal 2008 ricopre l’incarico di consulente artistico presso la Fondazione Teatro Piemonte Europa per la realizzazione di Teatro a Corte, attivando e gestendo progetti con ambasciate, istituzioni pubbliche, centri teatrali, festival e compagnie. E’ un modus operandi, il suo, che di fatto permea ed ha aiutato a creare “uno stile Teatro a Corte”, un’attenzione capace di farsi forma e sostanza.

7 – LOGISTICA E CONVIVIALITA’
Le navette che trasportano il pubblico, le occasioni conviviali non esclusive ma per molti, i momenti di incontro fra artisti e spettatori in località fantastiche delle dimore sabaude, fanno si che negli anni Teatro a Corte abbia creato una modalità di ragionare sulla dimensione dell’accessibilità delle arti e dei linguaggi dell’ibridazione che ha poche analogie in Italia. Facendo mente locale, non vengono in mente molte altre occasioni di organizzazione su un territorio potenziale così ampio, e che comprende così tanti eventi e momenti di accessibilità e apertura. Quest’anno erano previste finanche visite guidate per gli spettatori nelle dimore sabaude prima degli spettacoli, e gli altri anni la possibilità per chi veniva da fuori di avere la Torino Card per i musei. Un ragionamento ampio sulla dimensione del turismo culturale che per organizzazione e capacità di innovarsi è difficile incontrare altrove. E’ un fatto. Sarà perché comunque il circuito piemontese negli anni ha saputo far gruppo, fra comuni interessati, soprintendenze, istituzioni ecc… ma questa cosa, da metà del primo decennio del 2000 in poi ha iniziato a funzionare. Non è un caso che le Olimpiadi di Torino siano state nel 2006 e il primo grande finanziamento al progetto Teatro a Corte sia arrivato nel 2007, con un progetto triennale di valorizzazione di questi luoghi attraverso il dialogo con lo spettacolo dal vivo.

8 – IL DIALOGO E LE RELAZIONI CON ISTITUZIONI E MONDO DEL LAVORO
Perché a volte non ci si pensa, ma allestire in luoghi incredibili, avere autorizzazioni, permessi, ponteggi, americane, migliaia di persone in questa o quella reggia, maestranze, lavoratori del pubblico chiamati a straordinari con accesso a luoghi d’arte in orari spesso notturni fra fine luglio e inizio agosto è cosa che non riesce a tutti dappertutto. A Roma sono bastate due gocce per far chiudere il Maxxi a ferragosto… Qualcuno sta indagando ma si resta interdetti, come pure sul caso Pompei dell’assemblea sindacale. Quindi fra permessi, straordinari, eccecc, ogni edizione di Teatro a Corte sembra un miracolo per quanto c’è sui palchi ma ancor più per quanto c’è attorno. Questo è un tema che viene ampiamente affrontato nel contributo video.

9 – IL GRANDE E IL PICCOLO
Teatro a Corte è un festival che ha saputo coniugare la grandezza di allestimenti fra i più complessi e spettacolari ospitati in Italia (come quello di Groupe F a Venaria nel 2007 per la riapertura della reggia con quasi 10.000 spettatori, che Beppe Navello ricorda nel videoreportage che proponiamo in calce a questa riflessione) con microallestimenti su forme di teatro in piccolissimo, come quelle che sempre a Venaria, ma fuori dai cancelli, accoglievano il pubblico: indimenticabili per chi le ha sperimentate le creazioni di audioteatro de La voce delle cose, un sodalizio artistico assai originale di Bergamo, capace di far costruire a chi partecipava, forme di narrazione tramite oggetti e audiopercorsi guidati, in modo da trasportare anche gli adulti in un universo creativo quasi infantile e fecondo, non sovrastrutturato ma ugualmente potente. Una cifra questa, che a suo modo investe il festival.

10 – E POI, DEO GRATIA, L’ARTE
E poi, anche qui, dulcis in fundo, l’arte. Non sono mai andato via da Teatro a Corte senza aver visto qualcosa che avevo voglia di segnalare, raccontare, che mi aveva stupito, convinto, avvinto. Ho visto anche cose medie, ovvio, o che mi hanno scaldato meno, ma nel complesso, se penso agli anni e alle edizioni in cui ho seguito il festival, ai luoghi a cui ho avuto accesso, al fissarsi di immagini nella memoria, fra arti, stranezze, ibridazioni, potenziale evocativo, penso che si sia sempre realizzata un’alchimia. E anche qui, occorre dire, che oltre al sostegno economico, alla capacità e all’iniziativa del management, l’ingrediente principale del festival è la cura. Al dentro e al fuori. A chi c’è e a chi arriva. A chi c’è e a chi ci dovrà essere.

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L’urlo di identità mancanti: nel NEVER FOREVER di Falk Richter

FRANCESCA GIULIANI | La solitudine assuefatta da scuri suoni graffianti avvolge e sprofonda figure sclerotizzate in una sorta di virtualità comunicativa e identitaria portata all’ennesima potenza. Chi sono? Uomini e donne d’oggi, racchiusi in gabbie di metallo, isolati l’uno dall’altro da pareti trasparenti. Sembrano in ascolto ma solo di loro stessi. Vivono in un mondo fatto di pensieri esauriti e si costruiscono identità sociali e politiche attraverso le immagini che il web – facebook e you tube – rimanda.

ph. Arno Declair
ph. Arno Declair
È questo il ritratto di mondo che fuoriesce dal lavoro di Falk Richter visto alla Biennale Teatro 2015. In NEVER FOREVER tutti i personaggi soffrono di una qualche mancanza che li scollega dalla realtà. C’è una terapeuta che si fa troppo coinvolgere dalla follia della sua paziente. C’è un professore universitario che invece di far lezione al suo uditorio assente – studenti cronicamente assuefatti dalla dipendenza dallo smartphone – racconta le sue vite sessuali infarcendole con frammenti di citazioni politiche. C’è un uomo che non trova tempo disponibile per vivere la storia d’amore con una donna che ha appena conosciuto. C’è una ragazza che, non possedendo nessun contatto con il mondo reale, si crea una vita virtuale. C’è un padre che non può coltivare l’amore per suo figlio a causa dell’ex-moglie che l’ha allontanato. C’è un’ex attrice, la famosa Ilse Richter, una delle prime interpreti dell’opera di Thomas Bernard, che vive solo nella memoria dei personaggi che ha interpretato e non prende in nessuna considerazione la figlia che si sente sola.

Amalgamando azioni e personaggi attraverso la combinazione frammentata di storie narrate, gridate, e di coreografie convulse di corpi spasmodici che continuamente crollano a terra come se le ossa si sfaldassero l’una sull’altra, la scena tumultuosa e assordante di Richter si blocca fotograficamente su un eterno presente immobile, fisso, dal quale non sembra esserci scampo. Non c’è una definizione precisa di spazio in questa pièce, il luogo si fa indefinito: una città assente, che richiude i suoi abitanti in scheletrici appartamenti o li getta in alberate piazze vuote. E non ci sono caratteri evidenti: il solo protagonista resta il web, letto come un dispositivo in grado solo di costruire e proteggere l’isolamento delle persone.

Ogni legame comunicativo si sfilaccia e i monologhi non si connettono in nessun modo l’uno all’altro: restano istantanee di personaggi alienati, intirizziti da un abbandono che ormai sembra cronico. Gli avvicinamenti o i possibili contatti dei danzatori del Total Brutal, ensemble del coreografo israeliano Nir de Volff, avvengono sullo sfondo, quasi fuori scena, frangendosi ben presto in movimenti convulsi e disperati.

Nell’ibrido scenico di sequenze coreografiche, monologhi e malinconici quadri – tipico del teatro di Richter – la negatività del presente è raccontata in modo sicuramente evidente. Ma può essere la negatività stessa, l’urlo e lo shock, la forte musica elettrica, tempestata da quei ritmi tecno fin troppo ammiccanti alla cultura underground berlinese, e la scena algida e metallica gli unici tramiti per descrivere e mettere in scena il mondo contemporaneo? Questa visione molto parziale e riduttiva dell’oggi sembra il pretesto per conservare intatto quel formato drammaturgico e scenico, caro al regista tedesco, che è oggi vincente sulle scene europee.

 

 

L’Ifigenia di Miriam Palma e Lina Prosa: una suadente esecuzione vocale

11845121_860899490664726_6091794929931591776_oMARTINA VULLO | Giovedì 6 Agosto, per la produzione del festival teatri di pietra Sicilia, è andato in scena, nella location del giardino della Kolymbetra presso la Valle dei Templi di Agrigento, Esecuzione/Ifigenia, il lavoro drammaturgico frutto della collaborazione fra la regista Lina Prosa e l’attrice Miriam Palma sulla tragedia Ifigenia in Aulide.

L’eroina euripidea quest’anno aveva già calcato i palcoscenici siciliani, abbigliata in stile orientale, nel riadattamento di Tiezzi che, alla luce degli avvenimenti attuali relativi alle derive terroristiche legate all’integralismo religioso, ha voluto porre l’accento sull’attualità della tematica del sacrificio religioso.  Se in quel contesto il lavoro drammaturgico aveva rispettato fedelmente i canoni stilistici della tragedia, in questo caso abbiamo a che fare con qualcosa di profondamente diverso.

Scenografia essenziale: blocchi di fieno al centro e intorno alla scena. Un tamburello al lato e il tempio dei Dioscuri a fare da sfondo fra ulivi e alberi di agrumi. Una semplicità in grado di restituire con efficacia il senso della grecità.

L’evento a cui assistiamo sfugge a classificazioni facili.

Si potrebbe parlare di un one-woman-show considerando che l’attrice – tailleur con pantalone nero, come la maglia intima sotto la giacca e foulard fantasia – sembra essere l’unica presenza in scena. L’esordio è cantato. Questo può farci pensare ad una qualche forma ibrida di musical. Potrebbe trattarsi anche di uno spettacolo centrato sulla tradizione dialettale, dato che la canzone è in lingua napoletana. Di certo le parole della canzone hanno l’aria di un prologo che narra l’antefatto. La grecità di quest’ultimo elemento tuttavia rappresenta solo una piccola contaminazione. L’attrice come un aedo fra grecità e tradizione medievale, con i ghirigori di trucco agli occhi e le labbra rosso fuoco, utilizzando la voce, il tamburello e più raramente il supporto di una base, inizia a narrare la storia dell’antico sacrificio.

Andando avanti nella performance, canti, rumori e suoni valicano i rispettivi confini e vengono sapientemente mescolati lasciando gli spettatori sospesi nella fascinosa ambiguità in grado di trasformare il filo di un discorso in un alito di vento e ancora nel rumore di pugni in lotta.

La voce, il tamburo, alcune pietre e i tacchi delle scarpe dell’attrice: qualsiasi elemento è votato a divenire strumento di questa partitura sonora. Persino i rumori ambientali mescolandosi alla voce narrante, sembrano conferire alle parole una certa solennità.

La partitura sonora che si viene a creare – rafforzata dal titolo scelto per l’opera – suggerisce il modo in cui interpretare questo lavoro di sperimentazione drammaturgica. Quella di Ifigenia, lo ha affermato in diverse occasioni la stessa Lina Prosa, è un’esecuzione sia in quanto sacrificio, che in quanto realizzazione di una partitura.

D’altronde una ricerca su questo fronte non ci stupisce da parte della Palma, cantante di formazione operistica. L’artista, quasi seguendo le impronte di artisti come Demetrio Stratos o Fatima Miranda (ma per altri versi anche da Bene e altri grandi del teatro legati all’indagine sulla vocalità), da molti anni porta avanti un’esperienza partita dalla ricerca sulle caratteristiche della musica siciliana e le sue affinità a quella mediorientale, andata a confluire poi in un’indagine sul suono in senso lato.

Di fatto per quanto Esecuzione/Ifigenia sia il prodotto di una doppia ricerca – testuale e vocale – l’elemento sonoro nella sua materialità prevale notevolmente: la magnetica voce sopranile dell’artista, in grado di raggiungere con tranquillità inaudita anche toni molto gravi, ha così conquistato l’attenzione del pubblico con le proprie modulazioni e variazioni repentine di volume (dal sussurro al grido) e timbro.

L’Agamennone dalla voce roca e quasi metallica che ne deriva, avrebbe suscitato inquietudine anche parlando una lingua incomprensibile, seppur sostenuto da movenze il cui connubio espressivo, unito alla caratterizzazione del personaggio instabile e vanaglorioso, ha restituito l’immagine di un uomo letteralmente posseduto dai principi dominanti nella sua società.

Diversa è la presenza/assenza di Ifigenia. Onnipresente nei ricordi rievocati dal padre o come personaggio narrato, ma mai come voce narrante. Il suo silenzio dà enfasi al ruolo della vittima sacrificale. La scena dell’esecuzione che anticipa la conclusione costituisce indubbiamente il momento di massimo pathos. L’epilogo che smorza la tensione fino ad allora accumulatasi, punta nuovamente il focus su un Agamennone macchietta e sulla sua barca rivolta verso il mare, accentuando la chiave del contrasto su cui pare centrarsi l’operazione di Miriam Palma e Lina Prosa.

Un contrasto funzionale nella scelta della doppia accezione di “esecuzione” del titolo, che si rivela una soluzione felice quando si materializza nei mutamenti di tonalità, timbro e colore della voce dell’artista. Interessante il contrasto fra drammaticità ed ironia del testo, così come l’elemento dialettale che aggiunge valore a vari momenti della drammaturgia, connotandoli emotivamente. Meno magnetico si è rivelato l’uso della lingua greca che ha un pò appesantito la combinazione fino ad allora funzionale degli elementi etnici. Anche il testo gioca sui contrasti emotivi, pur con momenti piuttosto ermetici. Certo, come già anticipato, l’opposizione fra l’elemento vocale e testuale si è risolta in favore del primo.

Una risoluzione tuttavia inevitabile quando c’è in gioco una forte presenza che in questo caso è data dalla voce. Un po’ come è accaduto all’Antonio laringectomizzato del Giulio Cesare della Societas Raffaello Sanzio, anche in questo caso è la voce nella sua autoreferenzialità a colpire l’attenzione. Se in Castellucci la particolarità risiedeva nella condizione di fragilità e malattia, in questo caso avviene l’esatto contrario: siamo di fronte ad un’estensione vocale straordinaria, viva, potente, utilizzata con maestria, che fissa nella memoria una Ifigenia sonora.

Se un lago si trasforma in palcoscenico: Silvia Frasson e la sua martire santa

Silvia Frasson nel monologo La Santa. Ovvero quando Mustiola volò sul lago
Silvia Frasson nel monologo La Santa. Ovvero quando Mustiola volò sul lago
Silvia Frasson nel monologo La Santa. Ovvero quando Mustiola volò sul lago

LAURA NOVELLI | Culla dell’Etruria settentrionale ed importante centro della Toscana medievale, Chiusi sorprende per le numerose bellezze architettoniche ed artistiche custodite in ogni angolo del suo territorio. Forse però non tutti sanno che ai piedi del ridente borgo toscano si apre un lago circondato da colline e vigneti e un tempo unito alle acque del Trasimeno, con cui formava un unico grande bacino lacustre. Nei giorni scorsi questo lago, con tanto di piccolo porticciolo ombroso pullulante di ninfee, è stato uno dei set più originali e affascinanti della rassegna Orizzonti. Festival delle nuove creazioni nelle arti performative svoltasi dal 31 luglio al 9 agosto in diversi spazi della bella cittadina del senese.

Giunta alla tredicesima edizione e diretta per il secondo anno da Andrea Cigni, la vetrina ha avuto un leitmotiv quanto mai emblematico: il Mediterraneo. Mediterraneo come crocevia di culture e civiltà. Come incontro di stili, tendenze, forme e linguaggi espressivi. Come superamento di barriere non solo geografiche ma soprattutto – e tanto più – etiche, ideologiche, sociali. Su questo silenzioso lago Pippo Delbono, ospite del festival con lo spettacolo/concerto La notte, ha girato  alcune scene del film che presenterà a Locarno, complice il prezioso aiuto dei remaioli chiusini. Sulla sua riva più prossima al porticciolo, Andrea Adriatico ha riproposto la felice regia de L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi e sempre su queste acque verdi di vegetazione e riflessi arborei l’attrice/narratrice Silvia Frasson – tra i suoi ultimi lavori Quando non avevamo niente e poi arrivò il signore della porcellana e Amore e ginnastica (un Edmondo De Amicis riscritto in forma di monologo da Stefano Massini) – ha raccontato la storia di Santa Mustiola, martire cristiana del III secolo che, in fuga dai persecutori romani,  si dice abbia attraversato il lago usando il suo mantello come barca e, grazie al miracoloso evento, sia approdata proprio a Chiusi  diventandone la patrona.

Silvia/Mustiola aspetta il pubblico su una zattera coperta da un velluto rosso e stagliata in mezzo a quelle acque tranquille, solo lievemente increspate da qualche alito di vento. Noi spettatori arriviamo in piccoli gruppi, seduti su agili imbarcazioni che si trasformano nel luogo privilegiato della nostra inconsueta visione. Ombrelli bianchi per ripararci dal sole; qualche onda più forte scuote ogni tanto la calma del momento e un panorama mozzafiato ci restituisce l’idea di un contatto profondo e incontaminato con la natura. Con la semplicità di uno stile fabulatorio che tanto ricorda Gabriele Vacis e Laura Curino, ma anche Marco Baliani, gli accenti mimici di Marceau e un certo levità “barbiana”,  la Frasson (originaria di Chiusi e formatasi alla Paolo Grassi di Milano, all’interno della cui Summer School insegna proprio “tecniche di narrazione e creazione del racconto”) ci parla della Roma paleocristiana, dei primi martiri della Chiesa, di una giovane ragazza di sangue nobile che ha il coraggio di sfidare i suoi aguzzini con la sola forza della fede. Abito nero lungo, capelli lasciati liberi di assecondare il vento, occhi grandi e vivi, braccia e mani sempre in movimento, l’attrice costruisce una partitura mimico/vocale molto espressiva e al contempo lineare, snella, fruibile. D’altronde, in quello scenario così fuori da ogni tempo e ogni spazio, non le serve davvero altro per regalarci le immagini di una storia di morte e rinascita, sacrificio e redenzione che non vuole essere una semplice storia locale bensì una parabola universale contro le discriminazioni e le persecuzioni religiose di sempre.

Il monologo, intitolato La Santa. Ovvero quando Mustiola volò sul lago e prodotto proprio da Orizzonti Festival, fa parte del trittico Visitazioni che l’artista ha realizzato per Chiusi, ereditando un format già felicemente sperimentato l’anno scorso da Paolo Panaro e mettendo insieme tre assoli pensati site specific. Alla ben nota città sotterranea chiusina, la Frasson ha destinato la narrazione de Le mille e una notte, mentre presso gli antichi resti di un lavatoio ha raccontato due novelle del Decameron di Boccaccio (Masetto, la prima della terza giornata, e Guglielmo Rossiglione, la nona della quarta giornata), passando con fluida ma compita disinvoltura dai toni farseschi e ironici della prima, storia di gioie sessuali elargite alle monache di un convento da un prestante contadino, alla tragedia passionale della seconda, dove si narra – e parrebbe un voluto contrasto – la terribile fine di un amore fedifrago. Anche qui c’è lei da sola, vestita di nero, su un palcoscenico naturale che mette le ali all’immaginazione chiedendoci di credere in ciò che ascoltiamo e di vedere ciò che non vediamo. E noi spettatori – adolescenti e bambini compresi – stiamo al gioco volentieri perché lo sappiamo che in questa semplicità si annida il senso ultimo del teatro.

Nei dieci giorni della rassegna (www.orizzzontifestival.it) di spettacoli teatrali  a Chiusi se ne sono visti molti, e anche di ottimo livello: insieme a Delbono (che qui ha fatto debuttare la versione definitiva del già citato La notte, monologo autobiografico intriso di riferimenti a Koltès), il programma ha proposto, ad esempio, Le Metamorfosi (di forme mutate in corpi nuovi) di Roberto Latini e Thérèse et Isabelle di Valter Malosti, oltre ad alcune produzioni affidate alla giovane Compagnia Festival Orizzonti e a una nutrita rosa di attività laboratoriali. Non da meno tuttavia il cartellone della danza (basti sottolineare la presenza di Adriana Borriello), quello della musica (ricordo almeno Paolo Fresu e il pianista/collega/amico Roberto Cipelli in stato di grazia e il raffinato concerto barocco intitolato Furie, dolcezze, pianti e tormenti) e quello molto corposo dell’opera lirica, snodatosi in due allestimenti di calibro quali Cavalleria rusticana di Mascagni e La voix humaine di Poulenc (per il quale rimando al pezzo di Matteo Brighenti La mia storia d’amore con la voce: intervista a Tiziana Fabbricini pubblicato su PAC il 9 agosto) . A chiudere la manifestazione, una serata/intervista a Franca Valeri condotta live da Pino Strabioli e straripante di aneddoti, ricordi, arguzia, intelligenza e sincera commozione.

E se non è mio compito stare qui a cantare le lodi di un festival che senza dubbio ha mostrato una compattezza di visione (e di “intenzione”) molto forte, mi sembra tuttavia importante anticipare qualcosa sul prossimo anno, convinta che la continuità di un progetto artistico come questo sia comunque segno di lungimiranza e impegno culturale appassionato. “Orizzonti 20016 si intitolerà #follia – chiarisce Cigni – e su questo tema lasceremo ampia libertà agli artisti coinvolti. Proseguirà il percorso già intrapreso dalla Compagnia del Festival e apriremo la vetrina con un’opera lirica molto ambiziosa, un allestimento della Traviata di Verdi con un’orchestra di quaranta elementi, buona parte dei quali giovani musicisti provenienti da diversi conservatori italiani. Mi sento di dire che vogliamo essere un piccolo spicchio di luce nel panorama dei festival nazionali e che il coraggio di fare certe scelte non ci mancherà”. Sul fronte prettamente teatrale ancora tutto top secret:  “per ora – mi confida il direttore artistico – posso solo svelare la presenza di Babilonia Teatri con una nuova produzione e il ritorno di Roberto Latini”.   

“La mia storia d’amore con la voce”: intervista a Tiziana Fabbricini

La Voix Humaine @ Flashati Cinefotoclub
La Voix Humaine @ Flashati Cinefotoclub
La Voix Humaine @ Flashati Cinefotoclub

MATTEO BRIGHENTI | “Io insegno, non canto più. Ho detto di sì perché me l’ha chiesto il direttore artistico Andrea Cigni, un carissimo amico che stimo, con cui ho anche lavorato in passato.” Tiziana Fabbricini, la Traviata degli anni Novanta, debutto giovanissima alla Scala diretta da Riccardo Muti e 150 repliche nel mondo (“vuol dire 300 in linea generale, io cantavo tutte le prove, che però non si contano”), ha detto sì all’idea matta e vincente di fare del Festival Orizzonti di Chiusi una manifestazione riconosciuta a livello nazionale per la sua multidisciplinarietà. Teatro, danza, musica classica, contemporanea e opera lirica si tengono strette come le vie del piccolo borgo nel senese. Con la tragedia lirica La Voix Humaine (La Voce Umana), un atto unico del compositore francese Francis Poulenc, tratto dall’omonima piéce di Jean Cocteau, il soprano di Asti è riuscito a unire canto e intepretazione. “L’ho eseguita diverse volte. Qui è stata nella forma più classica, due mobili neri, divano rosso, telefono e il pianoforte di Andrea Dindo. Tutto era concentrato sull’interpretazione della cantante: doveva fare tutto lei, non c’era nulla che potesse aiutarla.”
Tiziana Fabbricini mi parla dritto negli occhi nella ‘sala stampa’ del Festival, il chiosco nei giardini del Duomo. Il racconto della distruzione di un amore attraverso “il comune accessorio dei drammi moderni, il telefono”, come scrive Cocteau, lascia presto il tempo e lo spazio a domande e risposte sui ricordi e i progetti di una figlia delle note, una virtuosa dell’animo che ascolta ancora il canto del talento.

A chi appartiene la voce che ha interpretato?
“È di una donna molto angosciata, che tenta di nascondere il suo dolore, ma alla fine non ce la fa, non può fare a meno di tirarlo fuori. Non ha nome: Jean Cocteau non intende definirne l’identità. Gli basta dire che è una voce umana in quanto è espressione di un’interiorità, una spiritualità. La voce di per sé, se non comunica sentimenti, è solo un suono. ”

Che rapporto ha con l’uomo dall’altra parte della cornetta?
“Lei non vuole interrompere la loro relazione, ma non può succedere altrimenti, perché lui vuole che questa storia finisca. Dalle risposte di lei si intuisce che quest’uomo è con un’altra, ma con chi? La moglie? Una nuova amante? Non è sincero e questo la angoscia sempre di più.”

Com’è intervenuto Poulenc su Cocteau?
“La musica è straordinariamente adatta al testo, aderisce perfettamente a quello che la donna dice e prova. Quindi si possono trasmettere, se la cantante è anche attrice, le emozioni. Ed è quello che a me piace. Da sempre, da subito, ho cercato di comunicare il personaggio, di far sentire il ruolo, perché possa diventare spontaneo, perché il canto possa restituire i sentimenti che prova il personaggio. Sono cose indissolubili, non si possono cantare solo le note, è impensabile.”

Di grande intensità drammatica fu Anna Magnani, che interpretò La Voix Humaine in Amore, film del ’48 diretto da Roberto Rossellini.
“Anna Magnani aveva una passionalità molto forte, più propensa all’espressione popolare che a quella raffinata. Quindi l’interpretazione che ne diede, secondo me, fu molto marcata, anche troppo. Io cerco di essere più elegante, meno ‘verace’, di non diventare mai volgare, eccedere o urlare.”

Foto di Flashati Cinefotoclub
Foto di Flashati Cinefotoclub

C’è differenza tra cantare e dire un sentimento?
“Nessuna, per me non deve essercene nessuna. Bisogna possedere una tecnica vocale che possa permettere di parlare cantando. Non è una cosa che fanno tutti, io ho sempre dato grandissima importanza alla pronuncia. Se non si capiscono le parole non si può comprendere bene, a livello emotivo, quello che prova l’interprete. La musica fa tanto, ma non fa tutto. Qui più che mai.”

Che legame c’è, se c’è, tra la donna di Cocteau e le sue tante ‘Violette’?
“C’è l’universo femminile del sentimento, che è straordinariamente uguale in tutti i tempi, un modo di sentire l’amore fondamentalmente diverso da quello del maschio. Avendo vissuto un’esperienza abbastanza simile posso dire che Cocteau e Poulenc, pur essendo uomini, hanno raccontato noi donne in maniera straodinariamente vera.”

Violetta l’ha cambiata nel tempo?
“Non mi ha cambiata, io mi sono espressa da subito in quel modo, io ero già così da ragazza. Ho debuttato nel ruolo a 21 anni dopo aver vinto a Rieti il Concorso Internazionale per Cantanti Lirici ‘Mattia Battistini’, bandito da Franca Valeri, anche lei quest’anno a Orizzonti, e dal suo compagno. Sentivo Violetta così come l’ho interpretata anni dopo, alla Scala, con il maestro Muti. Certo, avendola cantata tante volte ho potuto perfezionarla, ma il mio modo di approcciarmi a questo personaggio è sempre stato identico, non ho potuto metterci qualcosa che non ci fosse già.”

Perché ha scelto di diventare una cantante lirica?
“La musica me l’hanno trasmessa i cromosomi. Mia mamma cantava, era bravissima, poi si è sposata e mio papà non ha voluto seguisse la carriera. Cantava in casa e io imparavo le opere a memoria con estrema facilità. Anche mio papà aveva una voce bellissima, suonava la chitarra. A 4 anni mi comprarono un piano giocattolo con un’ottava e mezza: da quel momento non ho più avuto altro gioco. Si sono accorti che dovevo studiare musica, è stata una cosa molto spontanea. Sono entrata in conservatorio per studiare pianoforte, poi mi sono iscritta alla classe di canto. A 18 anni sono entrata nel Coro del Teatro Regio di Torino dopo aver vinto un concorso. Ero la più giovane, vivevo in teatro, compresa la notte, facevo il giro con la guardia notturna. Stavo lì, vivevo lì. A 29 anni il debutto alla Scala con Traviata diretta da Riccardo Muti, come ho detto prima. Ho fatto tutto molto presto, perché il talento è precoce, si vede, è evidente.”

C’è qualcosa che rimpiange di non aver detto o fatto con il canto?
“Ci sono tantissime cose che avrei voluto fare e non ne ho avuto l’occasione, il cabaret di Kurt Weill, la Norma: quando stavo per debuttare mi sono ammalata e ho dovuto rinunciare. Uno vorrebbe cantare tutto, ma non si può.”

Oggi lei insegna: avrà modo di interpretare Norma attraverso le sue allieve.
“Potrò farlo con chi ha le qualità giuste, certo. Il mio lavoro di adesso, forse, è più importante di quello di prima. Tutto il mio impegno possibile è far capire che l’arte deve essere un bisogno intimo, una necessità, così come lo è stata per me. Altrimenti è solo capriccio, velleità e non porta a niente di buono.”

La Voix Humaine
di Francis Poulenc
Tiziana Fabbricini, soprano
Direttore Sergio Alapont
Maestro al pianoforte Andrea Dindo
Regia, scene e costumi Renato Bonajuto
Produzione Festival Orizzonti Fondazione
Venerdì 7 e sabato 8 agosto, Chiostro di San Francesco, Chiusi.

Seconda tappa ad Avignone OFF’15

VALENTINA SORTE| visuelDopo la videointervista a Drammatico Vegetale e a Mirabilia Teatro, abbiamo incontrato una giovane compagnia di Modena:  Peso Specifico Teatro. Oltre a parlarci del loro “Barbe-bleue”, originale rivisitazione dell’omonima favola di Perrault, il gruppo ha condiviso con noi alcune riflessioni sulla loro partecipazione al festival. Ad arricchire il nostro reportage, si aggiunge anche la voce preziosa di Lucia Pozzi, testimone diretta di questi 50 anni di OFF. Buona visione!

GUARDA QUI IL NOSTRO SECONDO REPORTAGE SU AVIGNONE OFF’15

Il successo in 10 perchè: vol.1 – Il Festival Drodesera Fies

foto Andrea Pizzalis

RENZO FRANCABANDERA | Questa estate post crisi ha iniziato a spingere molti, fra critici e operatori, stretti da contingenze legate ad erogazione fondi, riassestamenti territoriali, tagli ai budget, a ragionare su alcuni fatti stilizzati che hanno determinato e determinano in certe realtà il raggiungimento di obiettivi desiderabili per la sostenibilità degli esperimenti artistici.

Ne consegue anche l’abitudine di volersi interrogare sui motivi del successo, così da capire se esistono pratiche virtuose che aiutano a determinare l’affermazione.
Iniziamo quindi ad esaminare alcuni casi su cui il giudizio dei partecipanti e degli operatori è abbastanza netto da tempo, per riflettere, condividere, discutere, confrontarsi.

1 – RIPENSARSI
Dal 26 luglio al 2 agosto 2015 negli spazi di Centrale Fies si è tenuta la 35esima edizione di Drodesera, un festival ad originaria vocazione territoriale e “di strada”, figlia degli anni 70, potremmo dire, ma che nel decennio 2000-2010 in particolare ha subito una nettissima inversione per arrivare a caratterizzarsi come uno dei pochi centri/incubatori italiani dedicati alla declinazione più performativa delle arti, un progetto assai articolato che si propone a livelli multipli, dal Festival alla Factory, dal Centro di Irradiazione culturale e produzione ad Incubatore. Centrale Fies, come luogo e come concetto, è un esempio della capacità di ripensare e ripensarsi, e pur nello stucchevole dibattito fra figo e fighetto, è uno dei pochi e per certi versi l’unico centro in Italia capace di affermarsi a livello internazionale come sede ospitale per performing art, exhibit, site specific, video ed ogni forma di spettacolo dal vivo, di eventi come festival, esposizioni, manifestazioni; ma è anche un sito in grado di ospitare corporate meeting, tavole rotonde, work-shop. Era un castello, poi un centrale idroelettrica, e adesso incubatore per le arti. Se non è ripensarsi questo…

2 – COMUNICARE
E’ innegabile e può piacere o meno, ma il segno distintivo di Fies è la comunicazione all’esterno. Perchè poi, nella sostanza, a Dro ci sono gli stessi ingredienti che ci sono in moltissimi altri festival, diremmo che almeno per quanto riguarda il Festival in sè, poco lo distingue da quanto si trova altrove, ma a Dro comunicano tutto molto molto meglio che altrove. E questo è un dato di fatto. Pur nello stucchevole dibattito fra figo e fighetto, il dato di fatto nudo e crudo è che Dro ha imposto un marchio, un concept, Fies in meno di dieci anni, dopo la svolta, diciamo, è diventato un nome noto in Italia e non solo. Quanti Festival possono vantare tutto questo, in un’Italia di campanili e festival d’estate? Non bastano solo i soldi di una regione ricca e attenta, che ha sostenuto il progetto in molti modi, a spiegare. Si può continuare ad avere l’anima della sagra ma spostandosi poco poco nel terzo millennio?
3 – IL PUBBLICO

Dal punto 2 discende che questo posto ha saputo intercettare opportunità di dialogo con circostanze e interessi anagraficamente molto vari. Quasi tutti i ragazzi coinvolti anche solo negli stage parlano altre lingue, accolgono in modo “contemporaneo”, non stanno a chiamare la cugina per tradurre dall’inglese con l’ospite esotico, e anzi l’esotico è di casa. Mentre ero lì quest’anno ho visto arrivare giovani ospiti ma anche operatori e pubblico da mezza Europa, dalla Slovenia come dalla Germania. Pur nello stucchevole dibattito fra figo e fighetto, sul tavolo ci sono anche questi risultati.

4 – OLTRE CONFINE
Che va bene stare attenti alle compagnie del territorio… Che va bene che l’assessore se non fai fare le giornate ENPALS a tizio o caio poi ti rompe, ma con questa filosofia, quest’anno più che mai, in giro sono stati infilati nei festival cose davvero al limite dell’imbarazzante. Un’ondata di filodrammatiche ed esperimenti paraparrocchiali che sono un dazio assai impegnativo da pagare per chi lavora sul territorio. Anche perchè, come diremo nelle prossime puntate, si può rimanere puri anche in povertà, aguzzando ingegno e intelligenza. Dro da sempre guarda all’estero, porta in Italia artisti che non si vedono se non qui. Mettiamo il caso di Philippe Quesne, ad esempio, da tre quattro anni fisso nella loro programmazione, la cui estrosa genialità avevo segnalato raccontando dell’edizione 2010 del Festival di Avignone dove con il Vivarium Studio proponeva “Big Bang”, un esperimento oltre il linguaggio, che saltava la comprensione, il senso logico. Una sorta di fumetto raccontato in uno spazio asettico. E per molti versi anche il suo lavoro proposto nell’edizione di quest’anno ha la stessa cifra. Quesne è uno dei pochi artisti per i quali il principio di impredittibilità governa la creazione. E questo è un valore, che spesso va oltre persino l’esito finale.

5 – MA ANCHE DENTRO
E poi guardando all’Italia, qui da anni c’è la sperimentalità più interessante condensata in una settimana. I grandissimi della regia non ortodossa, le compagnie della ricerca semiotica, i nuovi soggetti della creatività performativa. Poi magari il tutto viene condito di foto su Instagram con l’effetto vintage dell’ Iphone, ma anche dando spazio a giovani occhi armati di obiettivo, come lo sguardo felice dietro la macchina fotografica di Andrea Pizzalis, per esempio (per nominare giusto l’ultima delle creatività aggiuntesi a questo gruppo). Pochi hanno dato a compagnie in costruzione tre anni di fiducia e sostegno. E quei pochi hanno giocato un po’ più sul sicuro di come ha fatto Fies. Perchè dare a due ragazzini poco più che ventenni che agitavano pezzi di ossa dietro una tenda bianca una residenza triennale non era da tutti. Anzi. E pur nello stucchevole dibattito… dal 2007 i soldi nel piatto per far nascere e/o crescere Pathosformel, Grilli, Cuscunà, Teatro Sotterrraneo, Codice Ivan, Anagoor, giusto per dirne qualcuno, ce li hanno messi loro. E loro, che hanno saputo vedere più lontano di altri evidentemente, sono cresciuti con questi nomi, aiutandoli (a differenza di altri) a circuitare in modo feroce, invece che farsi interpreti di quella volgare abitudine di produrre per un giorno solo e alimentare le statistichine per il ministero e avere l’elemosina.

6 – IL BRAND CAPACE DI PROPORRE
Il risultato di cui al punto 5 si riverbera in questo punto 6. Perchè il brand Fies è diventato così forte da essere capace di proporre e imporre nomi che diversamente non farebbero smuovere pubblico nè operatori, andandoli a scovare in mezza Europa, dall’Islanda in giù. E così nomi come Söderberg & Willekens, Kovanda, o Ómarsdóttir e Jóhannsson vengono coraggiosamente proposti insieme ad autorevoli nomi italiani e stranieri, perchè per loro garantisce il marchio. Non sale da 1000 posti ma 350-400 spettatori che ogni sera seguono, uno di fila all’altro, dai 3 ai 6 spettacoli di ispirazione mista, fra l’installazione, la performance, lo spettacolo tradizionale.

7 – IL CALENDARIO
E qui poi, viene fuori il tema di quella allucinante abitudine introdotta a metà del decennio 2000-2010 da alcuni festival, di inzuppare il programma di mille eventi in sovrapposizione uno all’altro per giunta in luoghi irraggiungibili fra loro, così che il già sparuto pubblico teatrale doveva scegliere fra due o più artisti, con il risultato, battezzato dall’antico detto meridionale “Spartisci ricchezza che diventa povertà”, che le sale di questo o quello spettacolo erano mezze vuote, mentre il pubblico e gli operatori si concentravano in pochi eventi. I forzati alla corsa e alla rincorsa facevano poi sì che tutto partisse in enorme ritardo, perchè bisognava aspettare il mitico “pullman dei critici” senza i quali non si poteva dar inizio alle feste, con scene di delirio e isteria ottuagenaria per ritmi infernali insostenibili. Calma. Qui non si sbaglia. Un treno di spettacoli uno dietro l’altro dalle 19 alle 23,30, chi vuole scende dal treno, si ferma e risale sullo spettacolo successivo, ma tutti vedono tutto, chi viene è incentivato a seguire tutto quello che c’è, e così il numero di spettatori è costante, coerente con gli intenti, respira comunità.

8 – L’ARCHITETTURA
Sarà che perfino i piloni dell’energia elettrica qui vengono illuminati in modo fascinoso, ma lo spettatore ha il senso di essere in un posto bello. L’idea del bello che non è solo il paesaggio, che pure qui c’è, ma quel poco o tanto che l’uomo può aggiungere per trasformare l’esserci in esperienza estetica e dei sensi (si veda anche la pratica installativa insistita, che quest’anno ha avuto due capisaldi ad esempio in proposte come Les Thermes di France Distraction/Belinda Annaloro, Antoine Defoort, Julien Fournet, Halory Goerger, Sébastien Vial (FR/BE), o The house of immortalities, di Mali Weil (IT) centrate nella ricerca fra luogo archetipico e conoscenza ancestrale), quel poco o tanto, dicevamo, qui c’è. E in realtà basta poco. Si, certo, magari altrove usano quel denaro per pagare un lavoratore invece che per accendere un faro sugli scogli del fiume o nel pilone dell’energia elettrica. Per carità. Però molti festival diventano spesso sfoghi per lavoretti socialmente utili che mostrano in modo volgare e bieco l’incapacità di produrre competenza, facendo sì che tutto resti manovalanza senza specializzazione. Insomma assistenzialismo della peggior specie, che spiega di per sè la debolezza di alcune direzioni artistiche rispetto ai ricatti del territorio. Pratiche queste, molto poco fighe.

9 – IL FUTURO
Fies è un festival che come altri è anche e sopratutto residenza durante l’inverno, lavoro continuativo di molti anche prima e soprattutto dopo. E l’efficacia del sistema di produzione, che ha saputo invadere i teatri italiani e che vede un nome in ogni rassegna “Altri percorsi” in quasiasi città italiana si vada a parare, ne è la prova.
Poche storie: ci sono festival roboanti con budget milionari che per anni non hanno circuitato nemmeno nelle città della provincia le loro produzioni. Il Napoli Teatro Festival da questo punto di vista è proprio l’esempio di come non vorrei un festival, con una struttura faraonica per anni incapace di vendere quello che proponeva oltre le date del Festival. Cose fatte e morte lì. Un sentimento dello spreco dell’energia umana che ho sempre trovato fastidiosissimo. Sarà che qui c’è la parsimonia trentina, ma è un dato di fatto che nulla che abbia messo piede in Fies sia andato sprecato. E questo al paese mio, è molto figo. Sa di sostenibilità, sa di futuro.

10 – E POI, DEO GRATIA, IL TEATRO
Quella roba di luci accese e spente. Di buio in sala. Di gente che respira assieme emozioni. Di creazioni di senso. Una programmazione autorevole, che messa a confronto con quella di festival votati al contemporaneo da non meno tempo, ma forse più sciatti nella scelta unitaria, ha fatto si che questa edizione, come e per certi versi persino più di altre, abbia segnato un passaggio deciso nella storia della pratica della cultura scenica in Italia. Non sono un fan della supremazia del marchio, della comunicazione spinta, della novità che si fa marketing, ma è innegabile che tutti questi elementi, che pure per molti versi contraddistinguono Fies e sono gli elementi su cui spesso si concentrano le critiche a questo progetto, qui non sono mai separati da risultati tangibili dell’azione professionale. Cioè qui il teatro si fa. E attenzione, a differenza di molti altri posti, non si fa il teatro fatto con gli spettacoli dello stesso direttore artistico che dirige la baracca. O dell’accolita dei questuanti, costretti ad umilianti anticamere. Perchè se è vero che a Fies l’immagine è molto, anche queste immagini di cui abbiamo detto e che fanno subito venire in mente molti, molti altri festival, non sono belle da vedere, e segnano lo spartiacque fra quello che dovrebbe essere il futuro di quest’arte e quello che no.

Nelle prossime puntate parleremo di altri festival, meno brand oriented, con più fumo di salamella che fumogeni in sala, ma che hanno lo stesso i requisiti dell’esperienza di successo, proprio per capire che non esiste un’unica ricetta per il buono, come la ristorazione insegna, ma molte. Con un unico ingrediente comune: la cura. Al dentro e al fuori. A chi c’è e a chi arriva. A chi c’è e a chi ci dovrà essere.

Benjamin Verdonck ad Avignone: magia e sovversione delle forme

VALENTINA SORTE|

notallwhowanderarelost, benjamin verdonck
notallwhowanderarelost, benjamin verdonck
Nella Cappella dei Penitenti Bianchi, lontano dai palcoscenici più ambiti di Avignone, e lontano dall’agitazione festivaliera delle vie adiacenti, l’artista belga Benjamin Verdonck ha presentato un lavoro molto interessante che spazia dal teatro d’oggetti alla performance, e che domanda al pubblico un’attenzione particolare.

Notallwhowanderarelost, letteralmente “non tutti coloro che vagano sono perduti”, è un vero e proprio esercizio alla visione, un invito alla percezione delle forme e delle cose. Lo spettacolo inizia con un numero di equilibrismo in cui l’artista, grazie ad un pallone e a un barattolo usati come contrappesi, riesce a tenere sospesa una sedia su due lattine di Coca-Cola. L’operazione è millimetrica. Partono i primi applausi, ma vengono subito smorzati. Non si tratta di un’esibizione di bravura, piuttosto di una “preparazione a”: un aggiustamento visivo ed “emotivo” a quello che seguirà. Un po’ come il tempo necessario alla nostra retina per abituarsi a vedere al buio. Solo che qui non manca affatto la luce, siamo in pieno giorno.

La sedia viene tolta e lo sguardo cade su una struttura in legno, al centro della scena. Una sorta di circo di Calder dalle dimensioni enormi. Misurerà almeno 6mX4m, e assomiglia a un telaio a mano. E in effetti Verdonck come un marionettista,  grazie a semplici fili di spago, si diverte a manovrare (a vista) dei piccoli triangoli in cartone, muovendoli lungo diversi binari. Ai lati, su ogni livello, dei quadrati di legno fanno da quinte e coprono parte del meccanismo. Tirando o allentando ogni volta un filo diverso o più fili insieme, l’artista crea una coreografia di oggetti molto pulita e delicata, quasi geometrica e piena di poesia. È un gioco di epifanie e sparizioni, di accelerazioni e decelerazioni, di avvicinamenti e allontanamenti. Le variazioni sul tema sono infinite, mai abusate. Al contrario ogni variazione è inattesa e apre lo sguardo dello spettatore alla “possibilità”. Non ci si stanca mai di guardare, ogni volta si vede qualcosa in più. Si comincia dalla grandezza, si passa al colore, alla velocità, e poi all’inclinazione, per finire con l’orientamento, le direzioni e le rotazioni. Il riferimento alla pittura e alle forme pure di Malevič o di Josef Albers è piuttosto leggibile.
VB!Ogni pezzo di cartone cessa di essere un semplice oggetto inanimato, perde qualsiasi utilità o usabilità e si carica al contrario di una forza astratta ed emozionale capace di proiettare il pubblico in un’altra dimensione e in un’altra temporalità, facendogli dimenticare per circa un’ora il mondo fuori. E infatti, prima di passare alla terza e ultima parte del lavoro, l’artista abbandona il suo giallo maglione e si camuffa in una specie di manichino senza testa che recita alcuni versi di J. L. Borges sul tempo: “Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco”. Questa citazione non è però l’unico momento in cui compare la parola. Durante tutto lo spettacolo, dei frammenti di frasi, incollati su alcuni pezzi di cartone raccontano una storia – la storia di un certo K. – che sembra non aver un diretto legame con la narrazione visiva ma che probabilmente ne è la genesi. La questione rimane aperta.

Notallwhowanderarelost si chiude infine con un’altra citazione pittorica. Da Malevič si passa a Rothko. Verdonck abbandona la geometria delle forme per regalare allo spettatore un autentico viaggio nel colore. Ritagliando e ricavando all’interno della sua “macchina a illusioni” una sezione rettangolare, l’artista fa scorrere pure porzioni di colore. È un gioco di sovrapposizioni e accostamenti, tanto semplice quanto efficace. L’effetto è ottenuto grazie a dei pannelli mobili che creano diverse combinazioni cromatiche e che si inseriscono perfettamente in questa drammaturgia ludica, fatta di micro-eventi e invenzione. Nella successione delle varie cromie, l’ultimo posto è però riservato al performer stesso. L’artista sembra essere diventato parte della sua opera. L’ultimo pannello colorato si alza e spunta la sua testa che lentamente inizia a ruotare per ritrovarsi all’ingiù. Fine.

Ora capiamo perché questo lavoro è stato inserito tra gli spettacoli rivolti a un pubblico più giovane: per la sua capacità di parlare, al di là dell’età, alla parte di ludica e infantile di tutti noi. Bravò! Finalmente gli applausi sono concessi e sono tutti meritati.

La Birmania del Teatro delle Albe: “Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi”

FRANCESCA GIULIANI | Tra uno schermo cinematografico immersivo e un ambiente casalingo a tratti soffocante, tra ritmi di rap birmano e incursioni di elementi sonori metallici, tra fantasmi famigliari e spiritelli magici, tra politici corrotti e militari mostruosi si muovono le gesta della Aung San Suu Kyi del Teatro delle Albe, messo in scena all’Hangar durante il festival di Santarcangelo, con la drammaturgia e la regia di Marco Martinelli e l’interpretazione di Ermanna Montanari. Il paesaggio evocato è la Birmania, così lontana dall’Europa ma così fin troppo vicina da potersene dimenticare e da poterla ignorare.

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ph. Enrico Fedrigoli
La scena si apre su un presente. È uno degli ultimi interrogatori fatti alla donna premio Nobel per la pace nel 1991. Tre grotteschi militari con maschere scimmiesche iniziano a fare domande senza senso a Ermanna Montanari, perfetta sosia di Aung San Suu-Kyi, seduta a centro palco e illuminata dalla luce inquisitoria di una lampada, senza lasciarle nemmeno la possibilità di rispondere. Da qui si retrocedere a flash back nel passato della donna che è il passato della Birmania stessa. Dalla vita politica all’uccisione del padre nel 1947 per mano dei suoi nemici politici, dal suo andarsene adolescente in Europa per poi rientrare da donna matura, madre e moglie con una carriera di studi storico-politici alle spalle, in patria, ogni passo viene sezionato in questa precisa messa in scena del Teatro delle Albe.

Siamo nella Birmania assediata dai regimi dittatoriali, isolata dal resto del mondo come lo è la stessa vita della donna, rinchiusa per oltre vent’anni all’interno delle quattro mura della sua casa, controllata a vista. Da quest’ambiente, accompagnata unicamente dai suoi libri e dalla sua mite governante, dalle presenze letterarie che spaziano da Brecht al Buddha, dalla sua spiritualità e dai suoi spettri, dai suoi ricordi e dai criminali che la circondano, inizierà ad assediare dal basso il regime testimoniando all’esterno, quando possibile, la tragica realtà che sta invadendo e percuotendo a morte il suo paese. L’esile donna in scena trasuda potenza nelle parole nei gesti e nelle azioni mentre si oppone a quel regime dittatoriale e a quelle figure che lo dominano tramite un sorriso o un semplice sguardo silenzioso, tramite l’incedere incerto di un passo che nell’eleganza della sua fisicità trae conforto e potenza.

Unknown-1La scena è semplice, i cambi d’ambientazione avvengono direttamente davanti agli occhi dello spettatore per mano degli attori (in scena, Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu con l’incursione scenica di Fagio, tecnico del suono delle Albe) che attraversano il palco rompendo la finzione fino all’apice: è il momento in cui Ermanna Montanari si rivolge direttamente alle spettatrici chiedendo un aiuto fisico, un aiuto che è un sostegno di presenza. In platea tutte le donne si alzeranno rispondendo alle richieste dell’attrice, sostenendola in quel suo percorso di democratizzazione del paese. È travolgente questo lavoro, che evidenzia come la forza e l’urgenza delle persone a liberarsi delle oppressioni e delle violenze oltrepassa le proprie necessità personali e nella sofferta lontananza le rafforza, giustificandole con un’azione rivoluzionaria, che è politica e spirituale al tempo stesso.