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giovedì, Maggio 16, 2024
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“Cosa ci tiene insieme quando diciamo noi?”: nel MDLSX di Motus

FRANCESCA GIULIANI | In un paesaggio di artaudiana memoria MDLSX di Motus, visto al Teatrino della Collegiata durante il festival di Santarcangelo, mette in scena l’esplosione di un corpo. Silvia Calderoni sul palco scompone il suo organismo per aprirlo a connessioni, congiunzioni, per oltrepassare e condividere soglie di fragilità. Creatura della realtà sociale che è sempre creatura della finzione, come scriveva Donna Hardaway nel suo A Cyborg Manifesto, spezzerà e interrogherà i suoi io per liberarsi in una dionisiaca “danza alla rovescia”. E lo farà mescolando perfettamente forme e linguaggi, oltrepassando il teatro per starne perfettamente dentro i suoi confini, restando da attrice sospesa tra la perfomance e il dj set.

ph. Ilaria Scarpa
ph. Ilaria Scarpa

Una luce tendente al magenta illumina il lungo banco da dj che nella penombra del palco posteriore mostra oggetti che traducono varie identità vestibili. Da tappeto un triangolo oro riflettente ricopre quello spazio che sarà terreno d’azione del lungo e potente monologo dell’attrice. Uno schermo si accende sul fondale: è una sorta di oblò/specchio che si apre sui ricordi del passato ospitando vecchi filmini di famiglia che raccontano, a frammenti, la vita dell’adolescente romagnola ripresa dall’occhio materno nel decennio a cavallo tra anni Ottanta e Novanta. A quella figura virtuale si sovrapporrà la ragazza di oggi, quella in scena, che attraverso le riprese di un cellulare proietterà frammenti del suo corpo sullo schermo sovrapponendosi e quasi cancellando l’immagine passata. “Chi era quella?” si chiederà a un certo punto.

In questa sorta di teatrino fatto di specchi, di abolizioni dei generi, di frantumazione di corpo, di io che si cercano e si abbandonano, di travagli e energia vitale, il corpo svuotato di ogni categoria è protagonista. Calderoni si muove come un dj, facendo eco a quella mitica e irreale figurina di Kaspar Hauser interpretata da lei stessa nel film di Davide Manuli, La leggenda di Kaspar Hauser, che viene citato anche in uno dei video di MDLSX.

ph. Ilaria Scarpa
ph. Ilaria Scarpa

Se il personaggio narrativo di riferimento è Calliope/Cal, l’ermafrodito protagonista del romanzo di Jeffrey Eugenides, Middlesex, a questo si sovrapporranno senza soluzione di continuità l’Orlando di Virginia Woolf, il Carlo di Pier Paolo Pasolini e brandelli di manifesti politico-culturali tratti, tra gli altri, da Beatrice Preciado e Donna Hardaway. Nello spazio della finzione l’attrice si mette veramente a nudo e riscrive, attraverso il suo corpo in scena e aumentato in video, una sorta di autobiografia che trae forza, e a tratti violenza, da quella finzione narrativa che le fa da scudo. Ogni brandello di azione e di pensiero viene perfettamente intrecciato a un brano musicale che, proiettato nel titolo e nell’autore sullo schermo, andrà a comporre la playlist dell’intero spettacolo. Sarà Despair degli Yeah Yeah Yeah ad aprire la colonna sonora di MDLSX e Imitation of life dei Rem a chiuderla, collezionando una ventina di brani che necessariamente, per rappresentare gli anni dell’adolescenza dell’attrice, faranno da corollario musicale a questa “auto-fiction”, alterando nella presenza dell’attrice lo spazio della rappresentazione con lo spazio del reale.

Caro George: Latella e l’amore maledetto tra Bacon e Dyler

Antonio-Latella-Caro-George-photo-Brunella-GiolivoVINCENZO SARDELLI | Caro George, testo di Federico Bellini, regia di Antonio Latella, con un ispirato Giovanni Franzoni in scena, è un monologo di dolore, follia e solitudine. L’ex Ospedale psichiatrico Gaetano Pini di Milano, con le sue atmosfere livide e spersonalizzanti (rassegna Da vicino nessuno è normale) ne è forse la location ideale.

Ottobre 1971. Mentre Parigi celebra una mostra personale di Francis Bacon, George Dyer, suo modello e amante, muore per una dose fatale di barbiturici e alcol.

Scenografia astratta da stanza spoglia. Una sedia, una bottiglia di vino e un calice. Abito bianco a mascherare storture interiori e sensi di colpa. Caro George racconta quell’episodio. Rievoca gli anni di un rapporto sadomasochistico e l’ambiente in cui Francis e l’amico vissero. Una storia di gelosie, invidie, ripicche, fomentate dallo stesso Francis. Dyer non ne regge il peso. La relazione con Bacon si fa sempre più difficile. Fino al vortice di alcol e droga. Al suicidio. L’apparente crudeltà di Bacon si sgretolerà per far posto alla nostalgia, forse al rimorso.

Bacon in un tragico epitaffio affermò: «La mia vita è stata un disastro. Molte delle persone che ho conosciuto erano ubriache o si sono suicidate e tutti quelli cui mi sono veramente affezionato sono morti in una maniera o nell’altra. È solo quando sono morti che si capisce fino in fondo quanto li si amava».

Tutt’altro che un passatempo voyeuristico, indugiare nella vita privata dell’artista è una necessità. Ovviamente è sintetica l’evocazione che qui Latella mette in scena: una specie di ritratto di coppia. Le zone d’ombra che rimangono fra vero e verità sono quelle in cui l’arte si ritaglia il suo spazio rispetto alla cronaca.

Che cosa vedeva Bacon in fondo all’anima di George? Quale strazio intuiva, ancor prima dell’epilogo?

Parole strappate al silenzio. Franzoni dà corpo ai sentimenti di Bacon. Entra sottovoce, svogliatamente. Risuona il rumore metallico di una pallina sulla roulette: è l’arbitrio di due vite, il destino ha scelto incroci stravaganti.

Candida come appare (i costumi sono di Graziella Pepe) l’immagine onirica di Bacon si scontra con quella reale. Lo iato scelto dalla regia introduce alla dimensione mentale e fantastica. L’anafora un po’ marcata, “costruita” («avresti dovuto vedere, George») con cui il pittore si rivolge all’amico, in una performance in cui anche seduto l’attore dà vigore a un teatro di forte intensità fisica, esprime rimpianto, colpa, frattura dei sentimenti. Le parole si deformano, s’intersecano con gesti nevrotici. Percepiamo lo squilibrio tra riso e pianto, smorfie sinistre, un mix di gioia e dolore.

Affiora un rapporto profondo e viscerale, sofferto e problematico, che artisticamente è testimoniato dai numerosi studi e ritratti di cui Dyer fu protagonista nell’opera omnia dell’amico e amante. Parola dopo parola, Bacon perde ogni autocontrollo. Le sue parole sono il disperato tentativo di colmare un’assenza aggrappandosi al ricordo. Diventano logorrea, magma ininterrotto, mix di rabbia, dolore, disperazione, amore. Sono riflessioni sull’altro e sulla propria identità, sul fluire della vita, sulla morte, sul senso dell’esistenza e della pittura stessa. Alla fine, con una virata alla Jean Genet, Francis lascia spazio a George, a evocare l’epilogo nel bagno parigino.

I titoli di coda sono smorfie mute, con un Franzoni che si contorce nudo sulla sedia, immobile e ipercinetico, il viso sempre più rosso e scomposto. Intrecci di dolore e follia. Grumi di materia pittorica e sangue. Sesso e nostalgia. Una voglia d’infinito, che rievoca i cieli di Van Gogh. Il finale è un po’ “telefonato”: il vino versato in cerchio, su fogli e abiti sparpagliati sul pavimento. A marcare un territorio che non si possiede. A definire la prigione dell’anima.

Restano sensazioni fortissime, un testo di forte intensità poetica, e un lavoro sull’attore studiato al dettaglio.

Gli Omini, ultima fermata illusione

Ci scusiamo per il disagio @ Serena Gallorini
Ci scusiamo per il disagio @ Serena Gallorini

MATTEO BRIGHENTI | Un treno è uno sbuffo di fumo tra le parole ‘t’aspetto’. Sale dritto nella notte pistoiese che contempla la sua gente dimenticata, sale elegante tra i relitti dell’Area Deposito Rotabili Storici che non porteranno più nessuno da nessuna parte, sale forte dell’umanità implacabile de Gli Omini. Ci scusiamo per il disagio è un viaggio che non c’è. Qui i treni sono fermi, partono, arrivano e ripartono i ricordi, i sogni, le paure, le ingiustizie raccolte dalla compagnia toscana under35 in oltre un mese di domande e risposte, tra aprile e maggio, alla Stazione di Pistoia (il loro metodo di lavoro è ‘etnografico’, sul campo). Confessioni solitarie, ripetute per una vita al binario di un sordo andirivieni, trovano in Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Giulia Zacchini e Luca Zacchini ascolto, attenzione e cura. Sono le ombre che danno consistenza alla luce. La destinazione di Ci scusiamo per il disagio è il coraggio di mostrarci la dignità degli invisibili che ci passano accanto e che non siamo noi non per merito nostro, ma per un accidente del destino.
Rarità tra le rarità, preziosi reperti storici di questo spaccato di provincia umbratile, sono i passeggeri della ‘Porrettana’. Lo spettacolo, prima tappa del Progetto T., prodotto dall’Associazione Teatrale Pistoiese (riconosciuta di recente Centro di Produzione Teatrale dal Ministero dei beni e delle attività culturali) ruota infatti attorno alla storica Ferrovia Transappenninica, primo collegamento tra Bologna e Pistoia. Dopo un periodo di chiusura, alla fine del 2014 il treno ha ripreso il suo cammino e la Ferrovia ha festeggiato 150 anni. È nato quindi un grande piano di rilancio e di valorizzazione, al quale partecipa adesso anche il teatro, con un progetto che annuncia tre anni di interviste territoriali, performance, installazioni, eventi fino a Porretta Terme, fino a trasformare un vagone in un Teatro viaggiante.
Intanto, la stazione e il teatro di partenza sono Pistoia e l’Area Deposito Rotabili Storici in piazza Dante. I fari accesi di una locomotiva sono gli occhi che aprono la strada a due vagoni, lunghe ciglia grigio militare, divaricate come le gambe della realtà e della finzione. Otto fari illuminano questo ideale tunnel in cui la luce non è in fondo, è dentro, dentro il buio di attese ricorrenti e solitudini taciute. Punta verso di noi, contro di noi, e lascia per terra le assi rotte di un binario che argina, come può, la scena. Lo sbuffo della locomotiva che avvia Ci scusiamo per il disagio è il segnale di fumo di indiani alle prese con il far west degli orari, arrivi e partenze.
Dai confini della notte ferroviaria compaiono Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi e Luca Zacchini, cowboy senza pistola, speroni o cavallo, ma con in bocca il tema di Ennio Morricone per Il buono, il brutto e il cattivo. Arrivano i nostri e mettono mano alle parole. In questo luogo in cui l’istante si rarefa e storia e attualità convergono in un crocicchio di binari assenti, si capisce che Sergio Leone si sbagliava: il buono, il brutto è (considerato) il cattivo. I tre omini leggono in ginocchio vite che parlano di treni, partono dai treni, speranze e miserie di Ringraziamo per la tensione, l’azione performativa condotta nei giorni precedenti al Binario 1. Come inizio, per la verità, non ha grande slancio. Il Big Bang della narrazione, l’origine di questo universo tra il reale e il metafisico, è un discorrere ripiegato su se stesso, legna bagnata da intenzioni che non l’accendono né ci infiammano. Nel vivo, davvero, entrano quando si impossessano delle storie e le storie si impossessano di loro. Quando parlano alla stazione con la stazione.

Foto di Serena Gallorini
Foto di Serena Gallorini

Prende vita dall’altoparlante, gli annunci in filodiffusione sono un altro parlante che interagisce con loro e sposta sempre più indietro la ‘linea gialla’ dell’incomunicabilità. “Gli orologi sono in una situazione particolare”. “Diversamente da quanto diversamente annunciato”. “Ci scusiamo per il disagio.” Non sono più tanto le relazioni il labirinto amniotico che lega i tipi portati a galla da Gli Omini, come succede ne La famiglia Campione, quanto il sacrificio di spiegazioni e giustificazioni rivolte in solitudine a questa voce fuori binario. Un dio capriccioso, misero, fondamentalmente stupido, decide sulla posizione della prima e seconda classe, se in coda o in testa al treno, con la stessa leggerezza con cui racconta la storia sociale della patata. Dove loro cercano amore, rispetto, comprensione, trovano umiliazione, risentimento, intolleranza. Ci sarebbe da piangere, se non facesse così ridere.
“Ho sentito urla di furore, di generazioni senza più passato. Stiamo diventando degli insetti, simili agli insetti” canta Battiato in Shock in my town e risuona alla fine di una notte che ha visto passare uomini e donne di ogni dislivello e vertigine possibile. Secondo le Ferrovie, i piccioni sono portatori di disagio: in piccioni, con un’immaginifica mascherata, si trasformano Gli Omini. La stazione può chiedere scusa per niente e restare impunita, il potere, l’autorità, possono dire e non dire, fare e rifare daccapo, perché noi lo permettiamo, noi lo vogliamo, tutti, invisibili e no. Per andare più veloci abbiamo dimenticato dove dovevamo andare e perché. Adesso balliamo convulsi al binario sbagliato, in attesa che passi almeno il tempo.

Ci scusiamo per il disagio
uno spettacolo teatrale de Gli Omini
di e con Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Giulia Zacchini e Luca Zacchini
produzione Associazione Teatrale Pistoiese
con il sostegno di Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Regione Toscana
Gli Omini sono in residenza artistica presso l’Associazione Teatrale Pistoiese
Visto giovedì 16 luglio.

Teatro a Corte: sfida alla fragilita’ umana attraverso le arti dal vivo

imageRENZO FRANCABANDERA | Ci sono molte buone ragioni per visitare il Piemonte anche d’estate, ma è fuor di dubbio che fra queste vada menzionata la rassegna di teatro e nuovo circo Teatro a Corte, diretta da Beppe Navello affiancato dalla grazia di Mara Serina, che da quindici anni, ormai, porta a Torino e nelle altre residenze sabaude spettacoli, arte e cultura internazionale, con una capacità di far arrivare in Italia artisti di grande qualità ma che, incredibilmente, altri circuiti non programmano. E’ come l’amico un po’ sciccoso ma che non se la tira, affidabile e che ti apre la porta. Insomma una combinazione rara, per fortuna non caciarona, che si impone con la sua cortesia ma senza schiamazzi.

Sarà poi per la peculiarità di cercare in un’area ibrida fra teatro, danza e nuovo circo spesso incredibilmente poco frequentata dagli altri circuiti, e che ha invece visto nell’ultimo decennio la nascita di alcuni fra i più grandi artisti europei; sarà per l’altrettanto peculiare caratteristica di stabilire ogni anno partnership e focus internazionali per far arrivare qui da noi artisti di altre nazioni senza che la cosa si trasformi in una di quelle malate dinamiche di scambio di becero livello; sarà per queste e per molte altre ragioni, ma è dolcissimo passare di qui ogni anno. E i numeri confermano anche per l’edizione 2015: 13 giornate di festival con 26 compagnie internazionali e 27 spettacoli in 7 Dimore Sabaude del Piemonte e nella città di Torino, con un focus sulla Germania ma anche spettacoli da 8 diverse nazioni (Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Israele, Italia, Regno Unito, Spagna).

Insomma anche questa quindicesima edizione del festival internazionale Teatro a Corte, iniziato il 15 luglio e in cartellone fino al 2 agosto 2015, prosegue il percorso di esplorazione della scena contemporanea, aggiungendo poi alle dimore che già hanno ospitato spettacoli nelle edizioni passate, come Agliè, Racconigi, Rivoli e Venaria Reale, due nuove sedi, la Palazzina di Caccia di Stupinigi e la tenuta di Fontanafredda dove il 2 agosto la rassegna si concluderà con un appuntamento che unisce teatro e alta cucina.

Eh si, perchè comunque questo festival, assai prima di Expo ha sempre buttato uno sguardo al rapporto fra cibo e nostro tempo, parlando, come anche in questa edizione fa, del tema dell’alimentazione come momento cruciale dell’indagine sull’umano e che quest’anno si concretizza sia riscoprendo la contaminazione tra il rito dello spettacolo e quello della nutrizione (il 2 agosto a Fontanafredda nel Ristorante dello chef stellato Ugo Alciati), sia proponendo eventi speciali intorno al cibo come lo spettacolo MAS-SACRE della compagnia belga XL Production della coreografa Maria Clara Villa Lobos con la sua riflessione ironica e graffiante sull’industria del cibo.

Per non parlare della gustosa installazione di contenuto informativo-performativo Il falso convitto di Alice Delorenzi e Francesco Fassone realizzata con nei giardini di Venaria Reale, dove lo spettatore con ironia viene messo di fronte alla realtà su quello che spesso mette in tavola.
Centrale non meno che per gli altri linguaggi, e’ il lavoro di scouting e di proposta che Teatro a Corte ha avuto in questi anni rispetto alla danza, e che ha fornito nel fine settimana passato un ulteriore assaggio di altissima qualità.
Parliamo dei due giovani talenti della danza, entrambi vincitori in edizioni diverse del Solo Tanz Festival di Stoccarda, che si sono esibiti il 18 luglio: Andrea Costanzo Martini nella splendida sala da ballo della Palazzina di Stupinigi con la creazione site-specific Voglio voglia e Jann Gallois con il suo P=mg, un assolo che ha avuto consensi in tutta Europa e proposto a tarda serata all’Astra a conclusione di una interessante giornata di spettacoli.
I due lavori, diversi fra loro ma che intrecciano di fondo un istinto e un dialogo con la parte animale dell’essere umano che spesso misconosciamo o teniamo a freno nel nostro vivere sociale, portano l’attenzione dello spettatore su movenze e tensioni verso un assoluto atemporale. Così il corteggiamento nella palazzina di caccia fra le due creature ferine di Voglio voglia, fra abbaiar di cani, rifugi in un invisibile sottobosco che però riusciamo a figurarci, movenze sessuali e richiami ad un’olfattività ancestrale, in cui quasi annusiamo la sessualità della bestia, il suo sgambettare qui e lì in cerca di appagamento del desiderio, è un momento altissimo della rassegna e si trasforma in un tripudio di consensi da parte del pubblico nelle due repliche (h 17,30 e 18,30). Costanzo Martini, coreografo e danzatore italiano, emigrato a Tel Aviv, accompagnato in scena da una misuratissima e precisa Adi Weinberg, ci fa sentire il fruscio delle foglie e i rumori del sottobosco, ci fa girare la testa quasi impauriti al rumore dei rametti che si spezzano al passaggio di qualche fiera nascosta o di qualche essere umano armato, ci fa vedere e sentire tutto questo senza spostarci dalla sedia e senza che nulla di tutto questo appaia in scena, con movenze di un corpo bizzarro e audace, capace di attraversare la convenzione dell’arte coreutica classica, rileggendola e rendendola plastilina emotiva per un percorso con sentimenti fiabeschi e piulsioni coreografiche da cartoonist.
Jann Gallois gli risponde dopo alcune ore, in chiusura di giornata, con “P=mg”, 17 minuti per un grande assolo. Parliamo di una creazione che che ha ricevuto 8 premi internazionali in alcuni dei festival europei più prestigiosi (dal Solo-Tanz festival di Stoccarda, al Premio Paris Jeunes Talents, e il primo premio dell’International Contemporary Dance Festival di Gerusalemme), e di un’artista che ha lavorato con Angelin Preljocaj, Sébastien Ramirez, Les Ballets C de la B e Kaori Ito, gli esperimenti più interessanti del contemporaneo in Europa e non solo. Nel 2012, in collaborazione con Luc Petton e Damien Guillemin crea un passo a due, Nager dans ses rêves, il cui successo la spinge a fondare una sua compagnia, da cui nascono BurnOut e l’assolo presentato a Torino. Il tema pare essere il conflitto con le ineluttabili leggi della fisica, la sfida dell’essere vivente alla gravità e alle altre regole dell’immutabile. Il corpo dell’artista pare combattere una lotta impari con una forza oscura che la riporta al suolo proprio mentre cerca di ergersi, spiccare il volo, lasciare andare il peso e cercare leggerezza. In uno spazio delimitato dall’oscurità della scena vuota e ferito da luci soffuse e quasi siderali, il movimento diventa spasmo, l’umanità si scioglie in una animalità impotente di fronte all’immensità dell’insondabile, ma a cui l’ingegno pare lanciare un’ultima sfida, un motore centrifugo che diventa strumento per sfidare un’immobilità a cui l’esistenza pare costringerci.

La Passione di Cristo, ieri, oggi, sempre

unnamedMARIA PIA MONTEDURO | La LXIX Festa del Teatro a San Miniato, il più antico Festival di teatro italiano, presenta come spettacolo centrale “Passio Hominis”, il testo che raccoglie varie tradizioni orali della Passione messe per scritto da una monaca copista teatina nel 1576 e 1577, Maria Jacoba Fioria. Una sacra rappresentazione desunta dal Codice V. E. 361 della Biblioteca Nazionale di Roma. La piazza davanti al Duomo, che accoglie spettacolo e Festival, è quella dove nell’estate del 1944 furono uccisi dai nazisti ben 55 civili. E qui va in scena la passione di Gesù Cristo, inserita e attualizzata nel Novecento, “secolo breve”, ricco di stragi, dolore, morti, totalitarismi. Su un testo straordinario per icasticità e forza drammaturgica, il regista Antonio Calenda abilmente inserisce un’analisi, spietata e realistica, dei drammi storici e umani del secolo scorso, ponendo come cardine dell’azione il rapporto, intenso e sofferto, della Madre con il Figlio. La Madonna e Gesù vivono intensamente il dolore per l’imminente morte di questi: Maria lo esorta a non accettare per una volta il Disegno e Gesù si strugge per il dolore che vede negli occhi e nel volto della Madre, dolore di tutte le madri che hanno perso e che continuano a perdere i figli, ammazzati, traditi, imprigionati. A dare spessore ancora maggiore a un testo, di per sé forte e asciutto, l’interpretazione possente e drammatica di Lina Sastri, che fissa nella voce, negli sguardi e nei movimenti lo strazio di chi si sente portar via l’oggetto d’amore della propria esistenza, il figlio unico e irripetibile, la sua stessa ragione di vita. La Sastri, con mille sfumature di voce e di sguardi, colora il dolore più forte (perché contro natura) per antonomasia: quella di una Madre che sopravvive al figlio. A cadenzare le parole in volgare della monaca cinquecentesca inserti della vita del ‘900: il sinedrio, Caifa e i sommi sacerdoti a metà strada tra nazisti, mafiosi e dittatori argentini (interessante l’inserimento di una scena di tango); un povero – indice del destinatario primario del messaggio di Cristo – che ricorda l’ingenuo Charlot e il bistrattato soldato Schweyk; la quotidianità serena della vita della madre rappresentata da un’antica macchina da cucire, in una dolcezza e intimità casalinga che ricorda il lirismo di Garcia Lorca. E poi un angelo che con voce dolcissima cerca di consolare Gesù nell’Orto degli Ulivi e un diavolo che accompagna Giuda al suicidio. Una scena-non scena (un tavolato a U sopraelevato, con il pubblico dentro e fuori il recinto) rende aoristico il dramma della morte di Gesù che, nell’acme della vicenda, muore non propriamente in croce, ma per una raffica di mitra, come tanti giovani partigiani. Qui alle musiche di Germano Marzochetti (molto ben integrate nell’azione drammaturgica) si unisce Haendel è l’effetto è dirompente. L’ultimo segmento dello spettacolo offre il pianto di un neonato: dalla morte può nascere la Vita, la speranza non deve mai abbandonare l’umanità. Tutto il cast è oltremodo coeso: nei ruoli principali, oltre alla Sastri, Jacopo Venturiero (Christo), Francesco Benedetto (Juda), Antongiulio Calenda (Joanni), Alessandro di Murro (Petro), Marco Grossi (Caifas). Lo spettacolo si replica fino al 2 luglio. Poi il 25 e il 26 agosto andrà all’Aquila, quasi voler stigmatizzare una nuova “Passione dell’uomo”…

Monica Faggiani, impietoso ritratto gossip in «Questa sono io»

Laura Prete_VIC3910VINCENZO SARDELLI | Chi siamo veramente? Quante parti coesistono nel nostro io? Fino a che punto siamo artefici del nostro destino? E a che prezzo siamo disposti a comprare il successo?

Questa sono io, tratto dall’omonimo romanzo di Federico Guerri, adattamento teatrale di Corrado d’Elia, regia di Alessandro Castellucci, con una Monica Faggiani sorprendentemente proteiforme al Teatro Libero di Milano, è la vicenda di una starlet di provincia che si racconta in uno studio televisivo.

Il palco nudo (la scena è di Andrea Finizio). Uno sgabello sottile da bar che mette in mostra, sotto abitino e scarpe leopardati, le chilometriche gambe da miss dell’esuberante protagonista, Laura Prete. La voce fuori campo dell’intervistatore. Luci (di Alessandro Tinelli) che oscillano, dal viola al grigio.

È la tv da talk-show, scandita dalla claque a comando e glorificata da inquadrature che immortalano attimi di celebrità. Importa che il clima sia caldo e pop. Che l’applauso scatti al momento giusto. Anche noi siamo spettatori-figuranti, meccanismi della finzione mediatica.

Tra virtuale e reale, fermo immagine e sorrisetti patinati per le telecamere, Laura Prete è “naturalmente” sexy e “naturalmente” elegante. “Naturalmente” svitata, con accento marcato e interiezioni lombardo-venete. È lo stereotipo seducente della bambina nel corpo di una donna. Capricciosa e viziata, sbarazzina e sensuale, Laura narra con filo cronologico gli incontri che l’hanno resa ciò che è: soubrette, icona di pubblicità similpornografiche e tormentoni ammiccanti, attrice svanita, improbabile direttrice della Bes, Scuola per la Bellezza, l’Eleganza e lo Spettacolo. Laura si mette a nudo. Svela fragilità e misfatti sotto una patina solare e spumeggiante. Tanto di confessione, e tanto di colpo di scena finale. Anzi, di pistola.

Se la narrazione finisse qui, se Monica Faggiani si limitasse allo stereotipo della soubrette garrula imposto dal caravanserraglio mediatico, saremmo dinanzi a un monologo bello ma ordinario, tecnicamente impeccabile ma non memorabile.

Invece la storia merita, perché indaga le ordinarie nefandezze del mondo dello spettacolo, i compromessi, i ricatti. Esplora logiche perverse di orrori, sesso e violenza. E ancora di più merita l’attrice, che scolpisce nella penombra due altri registri agli antipodi del primo: quello di donna fragile, in balia di persone senza scrupoli; angelo violato, sfruttato, caduto. Infine il volto cinico, calcolatore, di una mantide che calpesta sentimenti e valori: un essere algido tra ricatto e iniquità.

Scivoliamo all’inferno senza neppure accorgercene. Indaghiamo la frammentarietà dell’essere umano. Entriamo in un cerchio violento che si autoalimenta, identificando vittime e carnefici, resettando la libertà di scegliere o concentrandola in una sola volontà guidata da un istinto d’onnipotenza. Riflettiamo sugli stereotipi dei media, tv e spettacolo, concorsi di bellezza e reality.

Laura, un’identità, tre persone, evocate con luci che da soffuse si fanno via via torbide e inquietanti. Una drammaturgia psicanalitica che parte piano da un registro naif e si sposta su direzioni in cui tutto è angusto, il movimento, la parola, l’anima. Si inizia col rosa, si dirotta sul giallo e sul noir. La voce della protagonista da stridula si fa fredda e metallica.

Questa sono io offre uno spaccato della nostra epoca, senza giudizi né sentimenti. Lo fa attraverso un’alchimia di scena, drammaturgia e regia, supportata dalla fotografia e dalla produzione multimediale di Viola Cadice.  Sono dosati i tempi, i ritmi, le luci, le musiche. Soprattutto, colpisce la versatilità trina di Monica Faggiani: caciarona e svampita; vergine e vittima; manipolatrice, puttana, assassina. In tutti i casi, padrona del palco come ancora non l’avevamo vista.

Papi Melchionna is watching you

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IRIS BASILICATA | I racconti degli amici (perché sono sempre i racconti degli amici) narrano di contrattazioni con donnine allegre e poco vestite e di avventure erotiche sfociate in situazioni non sempre piacevoli. Per una volta, ci concediamo anche noi il lusso di contrattare per una prestazione. Non siamo però sulla Togliatti o sulla Colombo bensì a Cinecittà. È qui che dopo oltre 370 repliche si è trasferito Dignità autonome di prostituzione. Per una sera addio moralità, salutatela con la manina ed entrate nella casa chiusa dove potete gustare le vostre pillole di piacere. Il format ideato e diretto da Luciano Melchionna e Betta Cianchini stavolta veste i panni del mito del cinema grazie alla location che lo immerge in un’atmosfera filmica.

40 attori e 10 maitresse non vedono l’ora di vendere la propria arte per qualche dollaro. Dollari, non euro. Ma come si fa a trovare un Change a Cinecittà? Tranquilli, i dollari per accedere alla “casa chiusa dell’arte” di Papi Melchionna te li danno appena fai il biglietto. La presentazione generale degli attori-prostituti da parte del Papi è inframmezzata da canzoni, colori sfavillanti, altalene e ritmi da avanspettacolo. Poi il capo si assicura che tutti si mettano a lavoro: ragazze con abiti anni anni 40, uomini in giacca da stanza, marinai, travestiti e donne in calze a rete ti invitano a seguirli per passare del tempo con loro. Questi strambi personaggi ti incitano, ti chiamano, ti trascinano facendoti sentire un po’ come Mastroianni al richiamo di: “Vieni Marcello, vieni!”. Piccoli gruppi di spettatori vengono trascinati nei posti più disparati: negli studi, in camioncini, in piccole stanze, toilette, uffici, per assistere a delle piccole performance attoriali. Finita una, si ricomincia il giro: si ritorna nel magico tendone da circo rosso e bianco posizionato al centro del parco di Cinecittà per scegliere altre prostitute, altri uomini con cui intrattenersi. Ogni “prostitut-attore” si esibisce per i suoi clienti in un monologo o performance in cui si spoglia dai panni di sensuale affabulatore per vestire quelli di personaggi semplici, dal passato difficile, dalle corde toccanti. Storie di uomini e donne che decidono di condividere con il pubblico un po’ del loro vissuto prostituendo, dunque, non il loro corpo ma la loro vita. Con dignità.L’atmosfera di Cinecittà ci fa stare all’interno di un sogno: attori e clienti contrattano davanti alla Venusia del Casanova di Fellini, il tendone rosso e bianco dal cui soffitto pendono altalene dove dondolano ninfette di bianco vestite, richiama il clima de I clowns e di Giulietta degli spiriti.Verso mezzanotte, dopo aver fatto diversi giri con i clienti più diversi, tutti ritornano alla base. Sembra che lo show sia finito ma in realtà è appena cominciato: fino a notte fonda si alternano cantanti, chitarristi, musicisti e violiniste alternati a pezzi di cabaret e di mimo. Vengono cantate famosissime canzoni e tutti gli attori della casa chiusa, papi compreso, incitano il pubblico a prendere parte alla loro festa. Il loro entusiasmo coinvolge fino a trascinarci al centro dell’enorme tendone facendoci partecipare ad un’allegra taranta. Poi tutto finisce. Il papi ringrazia, gli attori spariscono e i clienti se ne vanno. Salutiamo le “rovine” di Cinecittà con il divertimento in tasca. E più storie nel cuore.

“MA” di Latella: PPP tra le sue madri

GIULIA MURONI | “Ma” come un balbettio, un ‘incertezza, l’incedere di un dubbio. Sillaba in bilico tra due cornici di senso: il richiamo  alla madre e l’introduzione, con una avversativa,  di un dubbio, un’ opposizione.

Antonio Latella ha debuttato con la sua nuova opera “Ma” al Festival delle Colline Torinesi, a partire dalla figura della madre di Pasolini colei che- scrive Latella- “lo ha accompagnato nella fuga dalla banalità coatta del vivere quotidiano”.

Candida Nieri, già premio Ubu come migliore attrice 2013, dà vita a un momento teatrale prezioso. La scena è spoglia e lei, seduta su uno sgabello, di profilo rispetto alla platea, indossa delle scarpe enormi. Ricurva, la presenza del suo corpo contratto permane con intensità, volgendo fino alla fine con coerenza la scelta di mantenersi fissa in quella postura. Lo spettacolo si apre nel silenzio, è solo la sua fisicità straniante a riempire la scena. Sgorgano le parole, la drammaturgia ricchissima a cura di Linda Dalisi è stratificata, disposta a innumerevoli pieghe e torsioni. Sulle labbra di Nieri si avvicendano magnifiche e crudeli alcune figure materne: la madre di Pasolini, la figura materna come Pasolini l’ha descritta nelle sue opere e Pasolini-madre delle sue opere, figlie bastarde e dannate.

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Di fronte a sé un’alta porta in ferro dalla quale pendono alcune lampade. Oggetti di un interno domestico, illuminano con differenti toni di colore. L’attrice stringe tra le mani un fazzoletto che contiene un microfono, che registra, rimanda e riverbera i suoni. Straziante e meravigliosa, Candida Nieri rievoca e astrae la maternità, ne rivela i drammi e le debolezze, le contraddizioni e i parossismi, singhiozzando suoni e parole con intensità violenta.  “Perché mi hai fatto madre di un Cristo comunista?” e ancora “Tu sapevi che la tua vita la pagavi ad un prezzo molto alto. E al prezzo che abbiamo pagato noi, hai mai pensato?”

Sguardi su vite violente, in cui il dolore materno diviene assoluto e soffocante e la sua figura irriducibile, mai del tutto rappresentabile e tuttavia infinitamente riprodotta, rievocata nel tentativo inesausto d ucciderla simbolicamente.

“Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. (…) Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei madre e il tuo amore è la mia schiavitù”. (Pasolini, “Supplica a mia madre”).

Latella ha firmato la regia di un monologo sapiente, introiettivo e commovente, forte di una drammaturgia schietta e un’interprete eccezionale.

 

 

La storia di Lea Garofalo a San Miniato: passione laica alla ricerca delle proprie radici

 LAURA NOVELLI | Lunghi capelli neri raccolti in uno chignon. Occhi luminosi, vivi, estremamente mobili. Una voce calda, matura, impastata di cadenze dialettali che rimandano ad un Sud profondo, ancestrale. E un sorriso aperto,  generoso, dove tuttavia si annida spesso una sorta di languore malinconico pronto ad esplodere in cocente disperazione. Federica Carruba Toscano, ventiseienne attrice siciliana già nota per le belle prove affrontate con la compagnia catanese Vucciria Teatro, è l’intensa protagonista del monologo Ogni volta che guardo il mare,  presentato nei giorni scorsi a San Miniato nell’ambito della LXIX Festa del Teatro (www.drammapopolare.it). In scena si chiama Sara. Ma Sara è qui in realtà una trasfigurazione poetica – e però intrisa di forti richiami alla cronaca – di Denise Cosco, giovane figlia di Lea Garofalo e Carlo Cosco e testimone chiave nel processo istruito dopo il terribile omicidio della madre (2009) di cui furono responsabili, come è tristemente noto, lo stesso Cosco e altri affiliati alla ‘Ndrangheta tra cui l’ex fidanzato di Denise, Carmine Venturino.

Se Lea Garofalo, uccisa perché strenua oppositrice della malavita calabrese e testimone di giustizia, rappresenta da sempre un esempio estremo di coraggio femminile e di impegno civile, in questo lavoro Denise/Sara si arroga il diritto di un coraggio diverso: quello della memoria intima, della verità personale. Il coraggio di un’autobiografia affettiva che ripercorre il passato (l’infanzia pervasa di sapori e colori mediterranei, la fuga con la madre, la permanenza a Milano, il tentativo di rapimento ai danni di Lea, le menzogne sulla sua scomparsa) per attraversare fiumi di dolore, di lutto, di orrori  e uscirne (“cercare” di uscirne) più forte, più consapevole, più adulta. Motivo per cui il monologo, opera prima dalla giornalista Mirella Taranto e frutto anche di un attento studio delle carte processuali e di numerosi articoli coevi ai fatti, non è propriamente un testo di denuncia sociale e politica quanto un rito laico di ritorno alle radici: una cerimonia intima che riabilita il sentimento  matriarcale di quella Passione (ed eccoci al titolo dell’intera manifestazione toscana che trova proprio nella Passio Hominis diretta da Antonio Calenda, con Lina Sastri protagonista e repliche fino al 22 luglio, il suo spettacolo di punta) da intendersi come sacrificio e misericordia, amore e tradimento, morte e rinascita.

Guidata dalla regia sobria e pulita di Paolo Triestino, accompagnata dalle canzoni di Rita Pavone (One for you  one for me) e Fabrizio De Andrè (con la citazione  diretta di Disamistade: “Il dolore degli altri per tutti è un dolore a metà”), Federica/Sara torna nel suo paese d’origine, Petilia Policastro, sulle tracce di sapori, odori, suoni materni e primigeni che la riconnettano al senso ultimo del suo (nostro) stare al mondo. Porta con sé una busta della spesa con dentro gli ingredienti per fare un dolce, che è poi il dolce dell’infanzia. Ma prima della concretezza così naturalmente “fisiologica” di quell’impastare, spremere arance e ungere teglie c’è il genius loci, c’è il sorriso della madre che abita gli spazi ormai vuoti di una vecchia casa/cucina. C’è soprattutto e innanzitutto “U mari. Bello, bellissimo. Pare uno scrigno. Lo diceva pure il poeta. Quello francese, che piaceva alla mia professoressa. Ci dovevo tornare a casa, questo mare lo dovevo venire a salutare”.

Inizia così questo affondo nel travaglio degli affetti e dei legami di sangue dove la scrittura si mantiene sempre su un registro sospeso tra poesia e concretezza, italiano e dialetto, tanto che nel racconto del proprio scandalo (uno scandalo che ovviamente ci riguarda tutti) si insinua persino un desiderio di ironia. A tratti la memoria si popola infatti di personaggi buffi (basti vedere la zia innamorata di Mike Bongiorno), di una religiosità popolare e aneddotica, di stralci di storia quotidiana che sembrano quasi voler sovrapporre l’autobiografia dell’autrice (anch’ella calabrese) con la biografia stessa di Sara/Denise. Tra i due piani lievita dunque tacitamente e spontaneamente un accordo di affinità, di comune sentire, in un’ambivalenza armoniosa di astrazione e fisicità che, oltre alla lingua,  riguarda pure la scenografia (a firma di Lucrezia Farinella) e l’impianto registico di Triestino, disegnato su forti scarti di luce e su movimenti decisi, cadute a terra, continuo utilizzo degli oggetti di scena.

Ma è soprattutto l’interpretazione della Carruba Toscano a colpire. Padrona di una maturità espressiva davvero apprezzabile, l’attrice ci cattura con la mobilità plastica del suo corpo e del suo volto: ogni espressione ne contiene una opposta, ogni nuovo stato emotivo è già preparato nel precedente, ogni sorriso mostra un angolo acre e ogni lacrima o grido aspira ad un anelito di pace e di perdono. Via via che si entra nelle maglie della tragedia la sua figura cambia: i capelli sciolti, poi legati in una treccia, la gestualità sempre più decisa, l’irrequietezza sempre più manifesta e ricomposta alla fine, mangiando una fetta di torta insieme all’ombra della madre. E proprio mentre l’odore di quella torta messa in forno a cuocere si impossessa della sala, l’interprete sempre più e sempre meglio si lascia amare e inseguire, come fosse un’immagine votiva e pietosa di donna, di martire, e al contempo un corpo di ragazza capace ancora di sperare e di sognare. Avevamo lasciato questa bella promessa del nostro teatro nella sguaiatezza della prostituta greca e della moglie omicida di Battuage (si veda la recensione della sottoscritta, www.paneacquaculture.net del 6 maggio 2014); l’avevamo apprezzata nella cugina morbida e sensuale di Io, mai niente con nessuno avevo fatto (primo e ultrapremiato lavoro di Vucciria) e la ritroveremo presto sulle scene italiane con una nuova produzione della compagnia capeggiata dal talentuoso Joele Anastasi (“cambiamo decisamente registro – ci confida – e stavolta non affronteremo una storia di disagio ed emarginazione, ma non voglio anticipare di più”) e in una commedia di Antonio Grosso e Francesco Stella, Vicini di stalla, diretta da Ninni Bruschetta. E naturalmente non possiamo non augurarci che questo Ogni volta che guardo il mare – in cartellone a fine luglio tra gli eventi programmati a Tor Bella Monaca (www.estateromana.comune.roma.it) – possa avere lunga vita, approdare proprio a Petilia Policastro e in altri centri del nostro Sud. Laddove la testimonianza si fa memoria “necessaria”. Per non dimenticare. Mai e poi mai.

Cartoline da Alto Fest 2015 Napoli

Alto Fest | Pietribiasi Tedeschi
Alto Fest | Pietribiasi Tedeschi “BIOS”

ALESSANDRA CORETTI | Dal Garage Comunale di via San Vincenzo alla Sanità riparte il viaggio nelle fitte maglie di Alto Fest. Siamo in pochi, raggiungiamo con allure consumata una cavità dell’autorimessa, e ci accovacciamo a gambe incrociate, su uno scomodo terriccio, in posizione frontale rispetto all’area di azione. Il colore tetro del luogo e lo stantio odore di muffa fanno presagire qualcosa di oscuro. Ha inizio tra presentimenti funesti l’ultima opera di TeatroInRivolta, Kaninchen, lavoro ispirato alla vita dell’attivista tedesco autore dell’attentato contro Adolf Hitler. La performance è il risultato di un intreccio – da cui purtroppo non trapela una convincente urgenza – tra corpo, fatica e polvere; l’estenuante danza di Marcello Serafino, autore anche del testo della performance, sembra incastrata in una partitura fisica volta ad estrarre uno spirito ingombrante imprigionato nel proprio corpo. Ci relazioniamo all’opera astraendola, ovvero trascendendo i confini del luogo e delle presenze sceniche. Viviamo un’esperienza, che ci mette in contatto con un ossessionante senso di morte.
Voltiamo totalmente registro dirigendoci al Pepi Vintage Room Bar, il tempo di ordinare un calice di prosecco e siamo invasi da una staffetta di colori e musiche; enormi sorrisi e labbra rosse, abiti color oro, boa di struzzo, calze a rete. Un trio di vedette, fuggito da un programma di varietà, dà vita ad una festa degli arti. Sgambettanti e ammiccanti, le attrici intrattengono il pubblico accalcatosi in vico San Domenico Maggiore. Sketch e canzonette azionano la macchina del tempo che di colpo ci catapulta nelle atmosfere del Cafè Cyrano – titolo anche della performance – luogo cult degli anni Trenta passato alla storia come ritrovo dei surrealisti.
Non riusciamo a capire verso quale finale virerà lo spettacolo, abbandoniamo quell’eccesso di moine e vivacità, insieme alle bollicine del nostro bicchiere di prosecco ancora mezzo pieno, per spostarci in vico San Pietro a Majella alla volta di BIOS. Il lavoro della compagnia Pietribiasi | Tedeschi ha sin dall’inizio una buona tensione, data dall’interazione ben congegnata tra corpo umano e dispositivi tecnologici; in scena, inizialmente, un uomo che lotta con la riproduzione virtuale di se stesso. Mani e schiena del performer diventeranno le superfici di proiezione su cui il protagonista riflette la propria ombra, a grandezza variabile, mentre in sottofondo vengono elargite istruzioni per affrontare bene la giornata. Una serie di radiografie (che scopriremo solo alla fine riprodurre animali) andrà a formare un pannello spartiacque – promosso ad elemento drammaturgico – che fungerà da sfondo nella prima parte dello spettacolo, e da filtro, da superficie di visione, nella seconda parte dell’opera affidata all’agilità coreutica di Cinzia Pietribiasi. La performer, muovendosi al di là del pannello, rivelerà la sua presenza per gradi, disseminando tracce del suo corpo attraverso lo spettro radiografico. Un modo, con margini interpretativi molto ampi, per affrontare la dicotomia tra uomo e donna, tra piccolo e grande, tra pieno e vuoto.
Tra i lavori più intensi ed apprezzati di Alto Fest 2015, Selbstbezichtigung/Autodiffamazione del duo Barletti | Waas. In questo lavoro emergono con forza le dimensioni di necessità ed energia essenziali per l’azione performativa. Per circa un’ora il duo italo-tedesco “recita” un elenco (testo di Peter Handke), una lista di convenzioni sociali violate, ovvero una fiera ammissione di colpe. I due performer entrano in scena con i loro disarmati e disarmanti corpi nudi, che vestiranno solo in seguito. Assistiamo ad una sorta di processo pubblico in cui la morale sociale sembra prendere il sopravvento su quella individuale.

L’ultimo giorno del festival è dedicato ad un interessante simposio a cura dell’Osservatorio critico, che si distingue dai canonici coordinamenti critici di supporto alle arti sceniche, per non voler entrare nel merito delle singole visioni o delle scelte estetiche operate dagli artisti, optando invece per un focus sul festival e sulle sue politiche organizzative. L’incontro verte sulla condivisione di un’esperienza, ancora non del tutto conclusa, che merita, per la sua radicalità, un approfondimento specifico. Alto Fest configurandosi, al momento, come un processo non un prodotto, richiede un’analisi che non si rapporti ai risultati raggiunti ma a quelli auspicabili e alle direzioni intraprese. Il simposio quindi, si rivela essere un prezioso momento per tirare le somme e affrontare le criticità congenite ad un esperimento di tale portata. Se alcune posizioni, largamente condivisibili, hanno sottolineato l’importanza di una manifestazione di questo genere, in un Paese come l’Italia che dal punto di vista artistico (e non solo) ha abdicato a lavorare “nel solco di una tradizione del nuovo”. Altre hanno individuato dei punti di debolezza strutturali di cui tenere conto nel tratteggiare il profilo della sesta edizione, primo fra tutti il senso di disorientamento derivante dal percorso complesso del festival e dalle enormi distanze che dividono le varie location scelte per le performance, evidenziando quanto questo gap sottragga energie e tempo utili a favorire l’incontro tra artisti, pubblico e operatori, rinunciando a uno scambio fondamentale che agevolerebbe la tanto sognata rigenerazione sociale.