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lunedì, Aprile 29, 2024
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Chi dice donna dice… sacrificio: Frühlingsopfer di She She Pop

GIULIA RANDONE | La XX edizione del Festival delle Colline Torinesi (da quest’anno chiamato anche Torino Creazione Contemporanea) sarà ricordata anche per avere riportato in Italia le She She Pop. Dietro questo nome spensierato e ancora poco conosciuto qui da noi, si nasconde un collettivo femminile tedesco dalla poetica ben riconoscibile: autobiografica ma non autoreferenziale, in grado di trasfigurare l’esperienza privata in una biografia comunitaria, emozionante e formalmente ricercata. Nate alla fine degli anni Novanta, le She She Pop sono arrivate per la prima volta in Italia con lo spettacolo Schubladen, ospitato al Festival di Santarcangelo nel 2012. A Torino il gruppo si presenta invece con un dittico composto dal pluripremiato Testament. Preparativi tardivi per una nuova generazione ispirati a Re Lear (2010) e dal più recente Frühlingsopfer (2014). Accomuna i due lavori la presenza in scena, a fianco dei performer, dei propri genitori: nel primo caso i padri, protagonisti in carne e ossa sul palcoscenico, nel caso di Frühlingsopfer le madri, autentiche co-creatrici dello spettacolo, per quanto presenti solo in video.

All’inizio di Frühlingsopfer quattro enormi teli colorati incombono sulla scena. Sembrano una scenografia, ma quando l’immagine cambia e sui teli appaiono quattro donne scopriamo che i colori precedenti erano in realtà un dettaglio dei loro abiti. È il segno del ruolo subalterno con cui queste donne – madri-tappezzeria, madri-scenografia – inaugurano la loro presenza sulla scena. I figli le convocano in teatro, ma all’inizio si riservano il privilegio di dirigere l’azione: armati di microfono, le interrogano e le invitano a presentarsi, le ritraggono intente in operazioni ordinarie come passare l’aspirapolvere, le descrivono in funzione delle emozioni che il comportamento materno suscitava in loro da bambini. Una delle prime memorie rivela il disagio provato da una figlia nel vedere la madre ballare e l’imbarazzo con cui le madri si muovono ora di fronte alla telecamera fa pensare a una sottile forma di vendetta.

Foto: Dieter Hartwig
Foto: Dieter Hartwig

Il disagio è però bidirezionale. La rimemorazione del passato, ricordare cosa ha significato per le madri scegliere di diventare tali e per i figli ereditarne regole e tradizioni, rischierebbe di condurre entrambi in un cul de sac di psicologizzazioni e sensi di colpa. Sebastian Bark, Lisa Lucassen, Mieke Matzke e Ilia Papatheodorou raccolgono invece questo delicato materiale autobiografico e con una fune arancione lo inscrivono scenograficamente in un cerchio e, a livello compositivo, nella struttura a scene della Sagra della primavera. Il rito pagano messo in musica da Igor Stravinskij scandisce il ritmo di questo sacrificio moderno che vede la donna gravata da aspettative e ruoli indiscutibili. A differenza di quanto spesso accade nei dibattiti mediatici, le She She Pop non strumentalizzano posizioni ideologiche né annacquano il problema richiamandosi alla saggezza popolare. Decidono invece di dare voce alla donna e al suo “mettersi a servizio” traendo ispirazione dal significato originario della parola “sacrificio”, cioè “fare il sacro”.

Ciò che approntano in comunione con le proprie genitrici è infatti un’azione sacra, un rituale giocoso e serissimo. L’uscita dalla dimensione quotidiana e più limitatamente autobiografica è segnalata da un passaggio fondamentale: abbandonati gli abiti di inizio spettacolo, madri e figli si armano di tessuti e cinture modellandosi addosso sempre nuovi travestimenti. Sceltisi il proprio costume, gli otto protagonisti sono ora pronti a fronteggiarsi con un linguaggio alternativo alla dialettica verbosa e rancorosa. I figli imitano le pose dei genitori, cantano e danzano sotto lo sguardo delle madri, che dal canto loro li osservano con ironia, curiosità o distacco, partecipano al gioco e si svelano soprattutto attraverso primi piani silenziosi.

Cavalcando la ritmica straniante di Stravinskij, la tensione tra madri e figli raggiunge l’apice nelle scene finali (segnalate dagli attori attraverso appositi cartelli). Nell’“evocazione degli antenati” la musica corale degli ottoni e il suo andamento processionale avvicinano madri e figli al punto da condurre alla loro letterale fusione, i volti sovrapposti in video in un’orrifica compenetrazione. Nell’ultimo quadro, “danza sacrificale dell’Eletta”, ha luogo la guerra tra genitori e figli. Mentre la linea melodica viene sostituita da ritmi e accenti, i performer lottano a colpi di spintoni per scacciare l’ambiguità di una figura materna assente (sulla scena) ma in realtà sempre presente e invadente.

La perfetta coordinazione tra le azioni dal vivo e le riprese video alimenta l’illusione della presenza fisica delle madri e arricchisce di dettagli comici o perturbanti questo confronto scenico tra generazioni. Ma, ciò che è più importante, apre anche a una nuova dimensione semantica. Quando i figli colpiscono i volti materni, enormi e deformati dalle smorfie, è ormai evidente che protagoniste non sono più soltanto le madri biologiche dei performer. Dietro questo agone familiare emerge un agone ancor più necessario: quello con il proprio antenato, con le proprie origini e con i propri fantasmi, con ciò che sta dietro a me e a mia madre (e infatti dietro ai video si trovano spesso gli attori). Le luci si spengono così su una guerra che non ha prodotto né vincitori né vinti, su un sacrificio collettivo e rigenerante, che già domanda di essere riallestito.

I diari del Roma Fringe Festival – 3a parte: l’ossessione del teatro

IRIS BASILICATA | Wikipedia dice che l’ossessione è uno stato psicologico presente nel disturbo ossessivo- compulsivo. È questo il tema che accomuna in qualche modo gli spettacoli di cui si parla sotto. Al Fringe Festival, però, è bene ricordare che continuiamo ad essere ossessionati soprattutto dai topi che continuano a partecipare con assiduità ed entusiasmo agli spettacoli stavolta nascondendosi addirittura tra il pubblico.

Resized-FB4LLIl nostro amico topo di città è stato con noi ad assistere a Fak- Fek- Fik – Le tre giovani, uno spettacolo decisamente strano. Nato dalla volontà di voler essere un sequel di Le presidentesse di Werner Schwab, drammaturgo austriaco che nella sua opera tragica e grottesca raccontava le vite e i sogni di tre vecchie signore, viene ripreso da Dante Antonelli che mette in scena tre esistenze allo sbando. Il pubblico è entusiasta e io mi sento assolutamente un pesce fuor d’acqua. Tre vite appese aal filo delle frustrazioni quotidiane di tre ragazze qualsiasi: il lavoro precario, le feste, il bigottismo religioso, l’altruismo esasperato, i soldi che non ci sono, la volontà di voler trasformare a tutti i costi la propria vita mediocre in qualcosa di fantastico. Tra le tre non ci sono dei collegamenti drammaturgici: potrebbero essere tre monologhi differenti e allo stesso tempo esserne uno solo.

Il testo, scritto collettivamente dalle tre attrici, vuole essere una via di fuga dai luoghi comuni. Ma mettere in scena un testo che senta l’esigenza di uscire dalla quotidianità, di urlare la vita triste e precaria di tutti i giorni non è diventato anch’esso, ormai, un luogo comune? Peccato, perché la potenza in scena delle tre attrici è qualcosa di straordinario, salvo quando si arriva al fatidico momento in cui si spogliano rimanendo completamente nude. Il nudo in scena è ancora, veramente, una provocazione necessaria? Tutto rischia di sembrare un luogo comune che sfugge dai luoghi comuni.

Sul palco non c’è nulla, se non tre buste e tre tazze utilizzate in pochissimi momenti.

Gli applausi scroscianti del pubblico mi lasciano un po’ interdetta, non so di preciso cosa ci si possa portare a casa, se non il ricordo di un bellissimo lavoro attoriale. Ma il testo è davvero così sconvolgente?

IMG_9320Con SaturAzione, invece, ci troviamo di fronte ad una performance artistica. Il pubblico non è seduto ma è libero di potersi muovere attorno ai lati del palco per osservare meglio ciò che accade. Siamo apparentemente all’interno di un museo e i quattro attori sono delle statue che ci vengono descritte da una voce fuori campo che censura, però, i loro titoli. All’inizio viene un po’ da sorridere: chi da bambino trovandosi in un museo non si è messo immobile fingendo di essere una statua? I performer sono seduti su scale, scaletti e carrelli che non sembrano avere un reale collegamento con il luogo in cui vogliono farci immergere. Poi, tutto prende vita: le statue escono dalle loro postazioni invadendo gli spazi altrui tirando fuori da degli scatoloni lattine, scatole di pop corn, caramelle e baguette. Inizia una spietata lotta col cibo, all’inizio visto come un gioco per poi trasformarsi in un girone infernale in cui l’avidità del mangiare si fa sempre più ossessiva. Potremmo essere ovunque e in nessun luogo: quello che sembra essersi trasformato in un ipermercato, grazie all’ausilio di una voce che sponsorizza prodotti su prodotti, si trasforma poi in un luna park dell’orrore. Gli attori si spogliano (anche qui!), si spalmano addosso Nutella, mangiano convulsamente patatine e caramelle gommose, diventando delle installazioni viventi che trasmettono un profondissimo senso di inquietudine.

Gli attori sono tutti neodiplomati della scuola del Piccolo di Milano e hanno voluto cimentarsi con uno spettacolo in cui non fosse la parola a prevalere (non c’è testo infatti), bensì il corpo.

Attori performer che diventano istallazioni viventi in tempi forse un po’ troppo dilatati. Odore di Nutella misto a patatine ovunque.

FullSizeRender-3Passiamo poi a All- in, uno spettacolo di Roberto Nugnes sull’ossessione del giocarsi il tutto e per tutto. Il protagonista Ernesto accoglie, addormentato su una poltrona, il pubblico che prende posto.

Ernesto ha il vizio del gioco d’azzardo e si è ormai giocato tutto pur di assecondare il suo desiderio di volere sempre di più. Abbandonato dalla moglie e dalla figlia è nei debiti fino al collo. L’amico Ruggero cerca di aiutarlo proponendogli uno scambio che gli farà cancellare tutti i suoi debiti: un rene da donare al suo creditore per l’annullamento di oltre duecentomila euro di debiti. Uno spettacolo amaro che mostra il disfacimento fisico e psicologico di un uomo che ormai ha perso tutto, anche se stesso. Comico in alcuni punti che donano un po’ di ritmo alla scena, lo spettacolo è decisamente lungo trascinando il pubblico in un cambiamento temporale repentino forse un po’ azzardato.

Il protagonista è chiuso in gabbia come i suoi due animali domestici, le uniche cose che gli siano realmente rimaste. La sua vita è scandita da gratta&vinci. “Non dire mai ad uno sconfitto che è uno sconfitto se vuoi guadagnarti la sua dipendenza”. “Non hai vinto” è diverso da “hai perso”: ti dà la forza di perseverare per poi trascinarti in una strada senza alcune via di fuga. Una roulette russa devastante porrà fine al gioco che nel frattempo è diventato anche un po’ ansiogeno anche per chi guarda.

Nessuno può negare però di aver mai provato piacere nell’aver trovato sotto la striscetta argentata di un gratta&vinci la scritta “HAI VINTO”, anche se si trattava solo di 5 euro. “Hai mai vinto qualcosa, tu?” chiedo al mio ormai grande amico roditore, mentre prendiamo ognuno la strada verso casa. Non mi risponde ma sicuramente stasera ha vinto contro l’AMA Roma, perché continua indisturbato, proprio fuori il parco, a consumare la sua cena di fortuna.

Tagad’Off, 2a parte: tra vincitori e non, trionfa la nuova drammaturgia

FRANCESCA CURTO e VALENTINA SORTE | phoca_thumb_l_demo-uno.immagine134Con il palinsesto della sua IV edizione, Tagad’Off si rivela utile non solo alla valorizzazione della nuova drammaturgia ma anche alla riscoperta di generi teatrali su cui spesso grava il pregiudizio di non riuscire a coinvolgere anche il pubblico adulto. A vincere il festival quest’anno, superando ampiamente ogni preconcetto, è infatti il teatro per ragazzi di Schedía Teatro, che presenta un’originale rivisitazione del piccolo gioiellino di Eric Emmanuel Schmitt, “Oscar e la dama in rosa”, firmata da Riccardo Colombini.

Anche in “Senza francobollo”, come nel romanzo a cui si ispira, il protagonista ha dieci anni, è malato di leucemia ed è consapevole di avere ancora pochi giorni da vivere. E proprio ai bambini dai dieci anni in su, Schedía Teatro rivolge la sua riflessione, riconoscendo loro l’età della ragione e quella dei primi interrogativi a cui nemmeno gli adulti sanno rispondere: chi è Dio, che faccia ha, perché permette che esistano le malattie e perché la morte fa così paura a tutti, soprattutto quando riguarda i bambini. Ma prima di essere uno spettacolo sulla morte, “Senza francobollo” vuole porre l’accento sul tempo che rimane, sul viaggio piuttosto che sulla destinazione, trasformandosi in un percorso di iniziazione suscitato dalle sincere domande del piccolo Mario (Oscar), mittente di una lettera blu, senza francobollo, scritta a mano e indirizzata a Dio.

Poiché Dio non ha genere, numero, né indirizzo e non si fa mai trovare perché ama essere cercato, due postini gli si sostituiscono nella mancata risposta e invitano Mario a immaginare di vivere dieci anni in un giorno. L’esistenza del bambino si snoda così in dieci buste azzurre appese ad un esplicito filo rosso, contenenti le sue amicizie, i primi amori, il matrimonio e la vecchiaia, fino all’ultima lettera e al sonno da cui solo Dio è autorizzato a svegliarlo.

Per trattare un tema tanto delicato, Colombini si avvale dell’esperta recitazione di Valerio Bongiorno e Sara Cicenia, che con poesia e ironia arrivano al pubblico più vario con un dialogo ben scritto – valorizzato da carillon e cambi di luce – che gioca con la parola “morte” paragonandola alla pioggia. Pensa (e quindi esiste) alla vita come un’impronta di passaggio, all’apertura di una lettera come l’inizio di un viaggio e alla morte come qualcosa che non può essere ignorato. Ma ricalcando la leggerezza e lo stile irriverente del testo originale, Colombini riesce a sdrammatizzare con originalità il tema spinoso collocandolo in un ufficio di smistamento postale dai tratti onirici, in cui lavorano due improbabili postini ispirati al clown bianco (Bongiorno) e all’Augusto (Cicenia). Sono loro i sostituti di quella che in Schmitt era “la dama in rosa” e quindi gli intermediari tra il mondo degli adulti e quello dei piccoli, perché attraverso i loro momenti di intelligente comicità sono disposti persino a giocare con la “pioggia”.

Se attorno a questo gioco permane un po’ di amaro, Schedía Teatro rimedia con un’equilibrata commistione di fisicità, poesia e metafisica e si merita la residenza artistica presso Ilinxarium per aver spiegato ad adulti e bambini che l’ineluttabile si vince col sorriso.

cingommaAnche “Cingomma” di e con Jessica Leonello si è distinto fra le varie proposte del festival per la vivacità dei linguaggi utilizzati, ma anche per la capacità di far riflettere, senza prendersi troppo sul serio. Lo spettacolo, vincitore nel 2012 del premio Lidia Petroni e nel 2014 del premio OFFerta Creativa, potrebbe risolversi in questa semplice formula: “Dimmi come viaggi, e ti dirò chi sei”. È infatti attraverso la lente d’ingrandimento del viaggio, e nella fattispecie dei mezzi di trasporto, che la giovane artista riesce a parlare con ironia e leggerezza dell’Italia di ieri e di oggi.

“Cingomma” si apre sulle note di Also sprach Zarathustra di Strauss, con una citazione diretta di 2001 Odissea nello spazio. Sulla Terra e in scena si affaccia un nuovo esemplare di homo sapiens sapiens, ma al posto di brandire la clava trascina un trolley. Il suggerimento è chiaro: l’evoluzione della specie va di pari passo con l’evoluzione dei trasporti, perché ogni rivoluzione tecnologica è prima di tutto antropologica. Su questo parallelismo, la Leonello alterna con abilità momenti di narrazione a sequenze più performative. I primi diventano delle vere e proprie cerniere nella successione dei vari quadri.

Come narratrice, ripercorre e commenta i cambiamenti nei nostri modi di viaggiare e delle nostre nevrosi: dall’orario Grippaudo ai tempi di FS all’Alta Velocità, dai treni a lunga percorrenza ai voli low cost, dal passeggero come viaggiatore al passeggero come cliente. Come performer invece – grazie alla sua formazione di Mimo e Commedia dell’Arte – riesce a ricreare in modo convincente le atmosfere e i personaggi che hanno vissuto e vivono tuttora questa trasformazione. Il bestiario è ricco e vario.

L’Espresso Milano-Palermo catalizza tutta l’attenzione della Leonello, e lo spettacolo diventa a sua volta un viaggio. Viviamo così insieme all’attrice questa transumanza delle famiglie del Sud verso il Nord. Ripercorriamo il loro controesodo estivo. Nelle roventi carrozze FS, la lotta per i braccioli diventa accesa e la vicinanza dei sedili esclude qualsiasi intimità, come di notte, quando dalle cuccette si leva un singolare concerto di sibili e di respiri affannosi. Il monologo di Cingomma si arricchisce man mano delle voci degli emigrati e diventa polifonico, affrontando il tema dell’identità come ricerca delle proprie radici e come intima appartenenza ad un luogo. L’immagine del chewingum evocata dal titolo è quindi azzeccata.

La riflessione riesce a essere ironica e poetica, mai noiosa o scontata. Jessica Leonello si destreggia molto bene tra una comicità più fisica e una comicità di parola, come nel caso degli scioglilingua degli annunci ferroviari, ispirati a Blaise Cendrars. La sua interpretazione è eclettica e strizza l’occhio anche al teatro di figura. La sequenza con le hostess di volo, suggerite dalle teste di due manichini e animate nella voce e nei gesti dall’attrice è infatti riuscitissima. Il disegno luci di Luca Serafini e le musiche – da La dolce vita di Nino Rota a Sapore di sale di Gino Paoli – fanno il resto, amalgamandosi perfettamente all’equilibrio che contraddistingue tutto lo spettacolo.

AAA, Nuova Drammaturgia Lombarda cercasi: Tagad’Off 2015 – IL VIDEOREPORTAGE

FRANCESCA CURTO e VALENTINA SORTE | imageConsiderata la situazione in cui versa il teatro italiano, inserirsi nei circuiti italiani ufficiali è sempre più difficile, soprattutto per le compagnie emergenti. A Tagad’Off va sicuramente il merito di offrire ai giovani teatranti lombardi la possibilità di presentare il proprio lavoro all’interno di una vera rassegna e di confrontarsi con un pubblico di addetti ai lavori e non, interessato alla Nuova Drammaturgia.

La IV edizione di Tagad’Off affida a un frigorifero l’apertura e la chiusura del festival. Il primo è quello che Teatro Ex Drogheria riempie di sogni, aspettative violate e desideri che non trovano posto altrove, per essere realizzati. È il frigo costantemente vuoto della generazione anni ’80 che guarda al passato con nostalgia, lottando contro l’attuale perdita di equilibrio – lavorativo e climatico – ed un futuro incerto. In “21°” Sara Pessina affronta con speranza e ironia il tema della crisi e lo inserisce in un microappartamento “sostenibile” fatto di cassette della frutta, ma sceglie per la sua commedia un finale congelato.

Infatti, che i tempi d’oro in cui la vita era più semplice siano giunti al termine, lo afferma anche Jessica Leonello con il suo “Cingomma”, un monologo sagace sull’evoluzione dei mezzi di trasporto che racconta con la stessa malinconia dei tempi che furono il viaggio sull’ormai soppresso Milano-Palermo. Il ricordo di un treno che puzza, dove i braccioli non sono mai abbastanza e le porte degli scompartimenti rimangono sempre aperte è il pretesto per non dimenticare la difficoltà dell’emigrazione, il desiderio di tornare alle origini, e la sensazione di percorrere un intero “continente” per osservare dal finestrino uno spicchio di mare.

Molte volte infatti, più della destinazione, è il viaggio che conta. Se per la Leonello sono le piccole restituzioni della sua infanzia di siciliana trapiantata al nord a fare da collante al suo viaggio attraverso lo Stivale, per Schedía Teatro sono le lettere di un bambino malato di leucemia a fare da fil rouge in una storia già conosciuta, quella di “Oscar e la dama in rosa”, che Riccardo Colombini riadatta con originalità sostituendo alla dama due semplici postini. “Senza francobollo” è una riflessione metafisica sulla morte – una parola difficile anche solo da pronunciare talvolta – che immediatamente rimanda alla presenza di Dio e al suo ruolo di fronte alle ingiustizie. Al razionale “penso dunque sono” di Cartesio, Colombini oppone così tutte le incertezze che fanno vacillare la fede di fronte al tema della morte che, ispirandosi al romanzo, tenta di superare con il gioco. È un teatro per ragazzi intenso anche per gli adulti, ma che arriva indistintamente ad ogni pubblico per la delicatezza e l’ingenuità con cui sceglie di affrontare temi tanto importanti.

Nella riflessione sulla precarietà della vita e sulla presenza di Dio, sul suo aspetto misterioso e la sua potenza, si colloca anche lo studio che CampoverdeOttolini opera con “DI A DA”, un monologo onirico e di forte impatto visivo, che incarna nelle mani di un personaggio bambinesco di nome Me, la logica di costruzione e decostruzione di un mondo fatto di mattoncini, bambole di pezza, pesci di stoffa ed un cane di legno di nome Spike. Attraverso la metafora della pesca e del cerchio biologico che regola la natura, il personaggio di Me si dispone al di sopra di ogni scelta, distrugge senza consapevolezza, gioca senza rispetto, uccide e non ammette di averlo fatto, fino a negare persino la sua indefinita esistenza.

In maniera concentrica Tagad’Off si conclude infine con il frigorifero di “SocialMente” il primo lavoro dei ragazzi di Frigo Produzioni, che si presenta come uno spaccato sul congelamento delle relazioni dovuto alla presenza dei social e della televisione. Da un tema super masticato, il duo Alberici/Marsicano riesce a indovinare una maniera fresca e dirompente per raccontare la degenerazione e i sogni di gloria di giovani pilotati dai media, lavorando sull’immagine di un frigorifero contenitore di social, su cui è appuntata la “F” di Facebook. In questa commedia nera sull’assenza – di dialogo, di azione, di pensiero – i suoi personaggi infilano la testa nel frigo alla ricerca di relazioni virtuali, fino a dimenticare persino la spontaneità della relazione con il proprio vicino, esasperando la difficoltà di essere se stessi nella più stravagante morte delle relazioni sociali.

GUARDA QUI IL NOSTRO VIDEOREPORTAGE SU Tagad’Off 2015

La città distopica di Mahagonny. Il Mulino di Amleto alle prese con Brecht

GIULIA MURONI | “Gli «uomini di Mahagonny» costituiscono una banda di eccentrici. Soltanto gli uomini sono eccentrici. Soltanto attraverso soggetti a cui compete per natura la potenza virile può venir dimostrato illimitatamente fino a quale grado i riflessi naturali dell’uomo siano stati resi ottusi dalla sua esistenza nella società odierna. L’eccentrico non è altro che l’uomo medio ridotto all’osso. Brecht ne ha messi insieme parecchi in una banda.”

Così si pronunciava Walter Benjamin a proposito di “Ascesa e caduta della città di Mahagonny”, libretto a cura di Bertolt Brecht sull’opera musicale di Kurt Weill.  Si tratta della parabola scenica di una città sfavillante dominata dal denaro, dalla prostituzione, dalla lussuria; una sorta di paese dei balocchi per adulti. In questa acuta disamina Brecht anticipa in modo geniale le nevrosi e le schizofrenie della società dei consumi. Mahagonny sembrerebbe rappresentare l’utopia, presa nel suo senso etimologico di “ottimo luogo che non è in alcun luogo”,  in cui esiste tutto ciò che normalmente si può soltanto desiderare, fino al momento in cui la sua costruzione si rivela una clamorosa débâcle, il cui destino è sgretolarsi, travolgendo con i luccichii illusori i suoi abitanti.

La compagnia Il Mulino di Amleto, guidata dalle regia di Marco Lorenzi, ha portato la sua originale lettura del capolavoro brechtiano con il titolo “Mahagonny. Una scanzonata tragedia post-capitalistica, come prima nazionale nel cartellone della ventesima edizione del Festival delle Colline Torinesi, in corso a Torino dall’1 al 20 Giugno.

tiziana lorenzi
ph: tiziana lorenzi
L’azione sul testo brechtiano sembra volerne risaltare l’attualità senza riproporre fedelmente i passaggi testuali o le scelte estetiche e tuttavia non abbandonando l’ordito della narrazione. È la collettività dei personaggi a raccontare la vicenda, agendo sulla scena perlopiù nella sua totalità. Gli abitanti di Mahagonny sono sette uomini, camicie a scacchi e magliette stampate, e una donna: la prostituta Jenny Hill, occhiali da sole, caschetto biondo e tubino rosa. Senza quinte, sul bianco abbacinante del tappeto pochi elementi: delle sedie, un tavolo, il calco in gesso di una città sulla ribalta. Da un lato, extradiegetico, un individuo fa da voce narrante esterna: un po’ riprende le fila della faccenda, raccontando i fatti, un po’ li infarcisce di aneddoti e facezie; assume il ruolo straniante delle didascalie nel teatro brechtiano. Nell’altro lato ma fuori dalla scena è un pianoforte a coda, suonato da Gianluca Angelillo, a contrappuntare o sottolineare l’andamento della narrazione.

La coralità che costruisce lo spettacolo è energica e efficace nel disegnare una massa disordinata. Durante gli intervalli musicali (soprattutto “Bill” dei LunchMoney Lewis) è una danza di gruppo, gestuale e dinamica a movimentare la scena, invasa di una diffusa luce bianca. Luce che invece si fa ambrata e accompagna i dialoghi tra due o tre personaggi, focalizzando geometrie luminose dove si situa l’azione. Le musiche di Kurt Weill sono abbandonate, per dare spazio a melodie dei nostri tempi. Nel complesso lo spettacolo, pur presentando delle acerbità, mostra di essere animato da un’idea vivace e dal fresco talento della compagnia. Il regista, Marco Lorenzi, dice che “lo spettacolo punta a raccontare il contemporaneo come una barzelletta che non fa ridere”; perciò il registro grottesco è quello dominante e la parabola brechtiana si fa immediata metafora della fallacia della nostra epoca. La seconda parte sembra risentire di un ritmo un po’ troppo concitato e una tonalità sempre frenetica, tuttavia gestita con brio dai giovani interpreti.

Lo scenario distopico di Mahagonny è stato concepito dall’autore come compromesso tra teatro “gastronomico” borghese, volto ad una fruizione più superficiale, di pancia, e il teatro epico-critico, in cui lo spettatore, rifuggendo ogni forma di immedesimazione, è reso consapevole della propria condizione sociale e invitato all’azione. Il genio brechtiano continua a interrogare e scalzare dalle posizioni comode chi fa teatro e chi ne usufruisce, lodevole la volontà di mostrarne la pregnanza ai giorni nostri.

Tagad’off parte 1a – iniziamo dalla fine

RENZO FRANCABANDERA | Si è chiusa domenica la IV edizione di Tagad’off, il Festival di Nuova Drammaturgia Lombarda che si è svolto fra Inzago e Cassano d’Adda, esito di un concorso rivolto a giovani compagnie/artisti (under 35) e compagnie/artisti costituiti da meno di 3 anni, operanti in Lombardia, che potevano fare domanda di partecipazione presentando una loro produzione.
Tra tutte le compagnie e artisti che hanno partecipato al bando ne sono state selezionate 5 che hanno portato in scena i loro lavori durante i 3 giorni del Festival. Il vincitore avrà diritto a una residenza creativa presso la Residenza Teatrale ILINXARIUM nel periodo estivo, usufruendo gratuitamente dei nostri servizi tecnici per produrre un nuovo spettacolo, la presentazione nella Rassegna Tagadà 2015/16 della produzione realizzata durante la residenza secondo le modalità concordate con la direzione artistica e la partecipazione come compagnia presentata dalla Residenza Teatrale ILINXARIUM all’edizione 2016 del Festival Ritorno al Futuro.
Iniziamo dal fondo raccontando dei due spettacoli andati in scena Domenica 14 giugno nella sede dell’Associazione ESCO – CASSANO D’ADDA.

Foto Stefano De Ponti
Foto Stefano De Ponti

Si tratta di DI A DA – Me e gli Uomini, della compagnia CampoverdeOttolini, su testo e regia di Elisa Campoverde, interpretato da Marco Ottolini, con la supervisione drammaturgica di Carolina De La Calle Casanova e i particolarissimi oggetti di scena di Francesca Lombardi e Paola Tintinelli, spettacolo finalista del Premio per le Arti LIDIA ANITA PETRONI 2015

Diciamo innanzitutto che Di A Da è un’opera ancora in fieri: la compagnia stessa tiene a specificarlo con una serie di bigliettini lasciati agli spettatori sulle sedie prima dell’inizio.
Abbassate le luci si entra in un mondo piccolo, di segni d’infanzia, dove quello che appare come un giovane uomo si crogiola in affanni con giochi, pupazzi, piccoli manichini: un cane di legno, dei pesci di stoffa, dei piccoli pupazzi di stoffa appesi a delle corde così da creare una serie di piani spaziali mentre a sinistra del palcoscenico si trova una sorta di tavolino alto dove lo spettacolo inizia con il nostro protagonista che ci si rifugia sotto, mimando l’atto del pescare. Raggiungerà dopo il suo cagnolino di legno, che nella sua fantasia prende vita e con cui condivide questo ambiente di illusione, mentre una traccia audio piuttosto composita realizzata da Stefano De Ponti segue l’evoluzione dei fatti in modo abbastanza costante.

Il bambino/adulto dopo aver ambientato questo mondo di giochi, pare entrare in una logica creativa, e parte del narrato si completerà sul tavolino, dove il “creatore” darà vita alla miniatura di un villaggio e come un demiurgo proverà a costruire un mondo di felicità, abitato da un uomo e una donna. I due si ameranno, voleranno in cielo come i protagonisti dei quadri di Chagall, ma un atto di violenza di lui su di lei porrà fine all’idillio.
Se questa vicenda sia una sorta di emersione dall’inconscio, come quella di un bambino che racconta giocando i suoi traumi, non è del tutto chiaro.

Lo spettacolo ha ancora una serie di irrisolti sia drammaturgici che registici di una certa significatività. Il protagonista vive in un universo dai contorni indefiniti, di cui  quello che viene narrato è un insieme abbastanza scollegato di vicende, tutte afferibili ad un mondo interiore, ma la cui texture drammaturgica non arriva ad un sistema integro di segni.

Tale liquidità testuale costringe anche l’attore ad una via di mezzo ibrida nel recitato che ha forse bisogno di un calibro più deciso, con il registro infantile che appare un po’ sforzato. La regia ha bisogno di trovare, in questa fase di costruzione, strade per collegare testo, scena e personaggio, dando alcuni passaggi meno per scontato e riducendo  incognite e angoli oscuri che lasciano troppo in sospeso la fruizione. E questo inevitabilmente porta lo spettatore fuori dalla vicenda. Sicuramente il lavoro può crescere.

maxresdefaultIl secondo spettacolo presentato la sera di Domenica è stato SocialMente di Frigo Produzioni, da un’ ideazione e regia congiunta di Francesco Alberici e Claudia Marsicano, con il primo che firma anche la drammaturgia. Lo spettacolo è stato già Vincitore del Premio Pancirolli (qualche giorno fa in scena a Campo Teatrale dove lo avevamo visto), del Festival Young Station 2014 e Vincitore di OFFerta Creativa 2014.

Due giovani adolescenti inebetiti davanti al classico monitor emittente; le mani sono anchilosate nella presa del telefonino. E si parlano a monosillabi. Lui ha un’aggressività di fondo da sfogare, lei velleità artistiche di ogni sorta. Entrando e uscendo da un frigorifero marchiato Facebook i due danno vita a personaggi che sono sostanzialmente multipli e sotterranei della loro personalità principale. In parte velleità e sogni, in parte angosce e frustrazioni.

Il nostro tempo non permette a nessuna delle nostre personalità di sedimentarsi e dominare le altre. E anzi finiamo per essere dominati da un vortice social che congela di fatto ogni ambizione e speranza. Questo almeno pare dirci il finale dello spettacolo, con i due interpreti che, come se tutto fosse stato un sogno, tornano davanti al monitor, seduti al divano, a scambiarsi monosillabi senza senso.

Lo spettacolo vive ed è costruito attorno alle diversità di Alberici e Marsicano, il primo più orientato ad un attoralità di prosa, mentre la Marsicano con abilità quasi performative, stando a quanto si è avuto modo di vedere.

In questa composizione, che pure a tratti indugia e si crogiola un po’ sulle rispettive sicurezze, i due attori riescono comunque a trovare un’amalgama interessante che, pur con la necessità di leggere il ritmo interno della drammaturgia in modo più dinamico, costruisce una composizione in cui le capacità dei due si combinano.

E’ evidente che i prossimi lavori dovranno prevedere altre dinamiche, perché le giovani professionalità in formazione sono davvero differenti e la necessità che ciascuna delle due riesca a svilupparsi senza andare a scapito dell’altra prefigura un percorso di serio impegno nel cercare strade non facili, che non devono ripetere un modulo in cui, occorre comunque dire, la figura della Marsicano appare più forte, a tratti dominante, nella memoria persistente del costrutto scenico.

I diari del Roma Fringe Festival – 2a parte: il buio oltre i gabbiani

IRIS BASILICATA | Il gabbiano comune ha una apertura alare di 100-110 cm. Solitamente vola in un cielo che fa da specchio ad un mare cristallino. Hey, ma quello non è il mare cristallino! Quello e Castel Sant’Angelo e quello è il Fringe Festival! Non dirmi che anche questi teneri pennuti vanno a teatro! Vediamo, allora, cosa ci raccontano di questa seconda settimana di Fringe.

decameraDunque, partiamo con #DeCamera- Come i social network ci hanno cambiato la vita della compagnia milanese Io Non Parlo Sono Parlato. Già dal titolo il nostro amico Roger (Roger è il nome del gabbiano)  intuisce un collegamento con il Decameron di Giovanni Boccaccio.

È possibile unire le novelle narrate da Boccaccio con il teatro e i social? E soprattutto cosa c’entrano con noi, oggi, nel 2015? Sembra un’impresa azzardata ma il regista Igor Loddo pare esserci riuscito. L’isolamento di una ragazza che dal suo pc dà vita alle novelle di Boccaccio ci mostra come esse possano ancora essere attuali e interessanti. Peccato per i giochi di buio e luce: non si sono potuti né realizzare né cogliere per la mancanza del buio totale nei momenti opportuni. Strano, dato che sembra essere proprio il buio il protagonista di questo Festival: nel tragitto tra un palco e l’altro siamo immersi nella più totale oscurità. Ma continuiamo a far luce sullo spettacolo: al centro del palco c’è uno schermo sul quale vengono proiettate animazioni che danno vita ai personaggi delle novelle. La sua trasparenza permette di vedere anche cosa succede quando le due ragazze sono dietro il grande schermo. Essere fuori o essere dentro ciò che accade? Le storie di stampo erotico e a tratti violento di cui si parla sono davvero così lontane da noi? Boccaccio è reso assolutamente moderno grazie a dei tweet dell’epoca, proiettati sullo schermo, che i suoi personaggi si “cinguettano”. Storie di tradimenti e di cuori mangiati (nel vero senso della parola) si susseguono con divertentissimi hashtag lasciandoci l’amaro in bocca fino alla proiezione della parola “spegnere”. Sarebbe forse il caso di iniziare a smettere di scrivere dietro telefoni accumulando parole a caso precedute da cancelletto?

anselmoMa Roger, invece, riaccende il suo telefono che gli ricorda l’evento: Anselmo e Greta. Si passa al mondo delle favole. Un passaggio lento a causa di diversi problemi tecnici che il gruppo Dynamis incontra prima di andare in scena. Risolti quelli, un gruppo di attori che indossano maschere giganti raffiguranti la propria faccia entrano in scena. I fratelli Grimm raccontavano di un povero taglialegna, una matrigna e due bambini abbandonati. Andrea De Magistris, regista, racconta invece del fantasma di una donna narratrice delle vicende, di una matrigna snob, di un padre vile e pieno di soldi, di due bambini pestiferi e di Vasco. Vasco non è quello di “Quanti anni hai” ma è il vero figlio abbandonato da tutti. Cambia dunque la realtà della favola. Tutti si presentano con dei movimenti ben definiti portati all’estremo in un tempo decisamente troppo lungo. Anselmo ci fa vedere cosa fa durante le lezioni di karate mentre Greta non fa altro che ripetere le posizioni che impara alla scuola di danza ripetendo: “Tendu.. e torno in prima!

I due ne combinano davvero di tutti i colori. I genitori li spiano e danno loro avvertimenti tramite un pc che appare proiettato su uno schermo. Non fare questo, non fare quello, non toccare, non guardare. A proibire troppo, però,  si rischia di avere l’effetto opposto: quando i due si trovano in un centro commerciale è pacchia pura, finché tramite uno scambio di messaggi Whatsapp, i protagonisti vengono smarriti in un bosco. Anselmo e Greta, una volta incontrato il loro fratellastro Vasco, capiscono il vero senso del gioco facendo un lunghissimo nascondino nel grande parco di Castel Sant’Angelo. Idea stra- riuscita, tanto è tutto buio.

Anna oL’ultimo spettacolo al quale il nostro amico assiste è Anna O.: una puntata pilota di una serie teatrale in sei episodi. Il tentativo di trasformare spettacoli in vere e proprie teatro-novele fu presentato già nel 2010 dal drammaturgo argentino Rafael Spregelburd in occasione del Napoli Teatro Festival: un’opera di 30 ore in 20 puntate sui vizi contemporanei.

L’ispirazione per il personaggio strampalato di Anna viene dalla protagonista del film indipendente Frances Ha di Noah Baumbach e Greta Gerwig, uscito nel 2012.

Lo spettacolo è un semplice set-up dei personaggi: la biondina Anna dal cognome impronunciabile (Giulia Aleandri, anche regista dello spettacolo), la regista radical-chic Bea e per ultimo Freeze, personaggio pacato, attore e amico delle due che attende la sua pizza durante l’ennesima pausa dalle riprese. Anna riceve una telefonata che potrebbe cambiare per sempre il corso della sua vita di artista che, seppur precaria, in fondo le piace. Quale sarà la scelta di Anna? Questo nella prossima puntata, che si spera ci sarà quantomeno per capire cosa accade. La tv a teatro: un esperimento interessante per smuovere le persone dai divani di casa e portarli sulle poltroncine dei teatri? Forse.

Chiedo a Roger, sulla base di ciò che ha visto, se gli piacciono i social network, le favole moderne e le serie tv. Lui però ormai è entrato nel suo trip e mi risponde con una frase a caso: “Io amo la luce perché mi mostra la via, ma amo anche il buio perché mi mostra le stelle”, poi apre le ali e vola via. Si, ok Roger, il buio mostra le stelle ed è tutto molto romantico. Ma io, con tutto questo buio, dato che non ci sono luci, come ci torno a casa adesso?

Emma Bovary: vivere e morire a Parigi, Piemonte

ELENA SCOLARI | Madame Bovary è una provinciale. Lorena Senestro_Madama Bovary_GenovaE non riuscirà mai completamente a scrollarsi di dosso questa origine, viene dalla campagna e la città non la adotterà mai veramente.

Metri di ventagli, nastri e trine costose non basteranno a fare della figlia di un fattore una cittadina à la page.
Teatro della Caduta cambia una sola vocale e trasforma Madame in Madama, così Lorena Senestro rilegge con intelligenza il romanzo di Flaubert e fa parlare Emma in dialetto piemontese, rivestendola così di una incancellabile patina di periferia.
Lo spettacolo della compagnia torinese gode di un adattamento drammaturgico molto attento: un montaggio incalzante dei punti salienti della trama legati tra loro da alcuni inserti di Gozzano, da pochi e discreti riferimenti contemporanei niente affatto fuori luogo e dall’alternanza di italiano e dialetto, un dialetto del nord, solo un po’ sguaiato ma che subito semplifica, inchioda la Madama all’evidenza del parlare popolano, un parlare che cancella le illusioni perché la riporta con uno strattone alla provenienza contadina.

Lorena Senestro indossa un costume di raso giallo dorato, lucido, elegante, sì, ma in vita porta una povera cordicella. La scena è vestita solo delle luci di Roberto Tarasco, delle musiche di Eric Maestri e della bella regia di Massimo Betti Merlin e Marco Bianchini che sanno rendere l’atmosfera angosciosa quel che basta per farci capire che la Bovary farà una brutta fine, come è chiaro fin da subito anche nel romanzo.
La recitazione è salda, sa fluttuare tra il disgusto e l’apparente felicità, l’illusione bambinesca e la disperazione, l’ironia paesana e la carnalità della passione. L’attrice maneggia l’alfabeto dell’interpretazione con agilità e fantasia. Chapeau, come direbbero a Paris.
E a Parisss – con la s sorda che sibila – è dove la disgraziata Emma vorrebbe vivere, e morire. Parisss è il teatro, il lusso, la società, la mondanità, gli abiti sfarzosi e le carrozze decorate, i cappellini vezzosi e la compagnia di uomini eleganti, colti, non come lo zotico marito Charles, medico tanto buono e infinitamente devoto ma, santo cielo, russa come un trattore e la sua conversazione è talmente piatta…
Invece Léon, che ama la musica, conosce la letteratura, con lui sì che le ore volano e le menti si esaltano, a Rouen, accettabile surrogato di Paris, ma quanto durerà?
Lo slancio diverrà prima abitudine poi ossessione, malattia. “Non si devono toccare gli idoli: la doratura ti resterà sulle dita”.

Emma alimenterà una temporanea e fasulla soddisfazione con lo sperpero dei soldi della famiglia Bovary, tutti spesi in stoffe, cappelli, tende e oggetti alla moda per dare alla dimora provinciale l’aspetto di un appartamento di città, ma anche questo non la renderà felice.
Alle modeste feste del villaggio Emma osserva una signora gallina che si pavoneggia, le maniche gialle di raso diventano subito le ali e l’imitazione è tanto buffa quanto malinconica, non ritroverà mai l’incanto di quell’unico ballo a palazzo, dove le giravolte del valzer la fecero volare con l’anima fino a Parisss, sì.

Parisss, che ripetuto e ripetuto suona come “spariss”, “sparisci” e infatti Emma sparirà, insieme al suo sogno di città, nel veleno bianco della morte, nel villaggio di Yonville.

Da Archaeo a Case Matte: i viaggi nell’identità e nella memoria dei luoghi di Teatro Periferico

Unknown-1RENZO FRANCABANDERA & MICHELA MASTROIANNI| Spesso è in periferia che cresce il teatro capace di salvare l’anima. E mai come in questo momento la cosa si dà, visto che la nuova legge sui teatri sta creando enormi pachidermi e non ha riguardo per le piccole realtà spesso accanitissime in progetti e sviluppo controculturale. E’ il caso di Teatro Periferico, di Cassano Valcuvia, una delle più preziose realtà dell’attività teatrale in Lombardia, che con il progetto Mombello sta per girare l’Italia. Dopo due anni di repliche in luoghi a loro volta sedi di istituzioni totali (scuole, caserme,carceri…), la compagnia porta questa estate in giro per l’Italia “Mombello” (da Limbiate a Genova/Reggio Emilia/L’Aquila/Aversa/Roma/Volterra/Firenze), grazie al progetto CASE MATTE, che coinvolgerà associazioni impegnate nel recupero della memoria degli internati negli ex manicomi. Un evento di nuova umanità di cui PAC ha già parlato, che segnaliamo come da non perdere, anche perché non gode di finanziamenti pubblici, ma solo del sostegno di associazioni, gruppi e comuni cittadini. E anzi, è possibile ancora per 15 giorni finanziare il progetto con un’iniziativa di crowfounding a questo link http://www.eppela.com/ita/projects/3892/case-matte

Ma Teatro Periferico è una realtà molto attiva anche per il proprio territorio.
Ha mantenuto ciò che prometteva, ad esempio, Archaeo, la passeggiata teatrale nella natura, ideata e proposta da Teatro Periferico per i tre fine settimana tra il 23 maggio e il 7 giugno nel territorio delle Valli del Verbano.  Il sentiero ciclopedonale, che si snoda per circa 14 chilometri tra i centri di Valganna, Ghirla,  Cunardo, Ferrera di Varese, diventa un percorso di conoscenza  dei luoghi e della loro antropizzazione.

Il pubblico di questo evento, che è spettacolo, che è viaggio, che è fatica, convivialità, parole, silenzi, musica, colori, è un gruppo di persone variegato, che difficilmente potremmo trovare insieme in una sala teatrale, qui attratti dal desiderio profondamente umano di arte e bellezza, e qui uniti dalla possibilità di farne liberamente esperienza.

La sensazione benefica e rasserenante di aver preso parte ad una forma d’arte accogliente ed inclusiva, rimane una traccia forte e viva, dopo la passeggiata. Sono molte le famiglie con figli che partecipano ad Archaeo. Forse grazie ad una strategia commerciale che propone delle riduzioni oltre che ai gruppi anche alle famiglie con almeno due minori. O forse piuttosto per una scelta culturale ed artistica precisa dell’Associazione Teatro Periferico, che vuole promuovere l’educazione all’arte e alla bellezza e formare un nuovo pubblico consapevole. Che questo sia uno scopo del gruppo è dimostrato dalla programmazione della stagione organizzata nel Teatro di Cassano Valcuvia sotto la direzione artistica di Paola Manfredi, in cui una particolare attenzione viene data agli spettacoli di teatro per bambini. Ma soprattutto dall’ideazione di una serie di eventi come questo, pensati in modo da garantire alle famiglie una fruizione serena e compatibile con le diverse fasce d’età. “Un week end di arte e persone” ad esempio ha proposto due spettacoli su Modigliani, il primo, su Pollock l’altro a cui i genitori potevano assistere scegliendo di far partecipare i bambini al laboratorio di dripping “OGGI POLLOCK ANCHE IO”  che si svolgeva in contemporanea presso il Centro Documentale di Cassano Valcuvia adiacente al teatro.

Che Teatro Periferico abbia trovato la via giusta per vedere affiancati genitori e figli oltre che al centro commerciale per far la spesa anche aArchaeo_recto condividere un’esperienza artistica e culturale? Il percorso proposto al pubblico vario di Archaeo è ricco ed articolato. Si incomincia con l’assunzione di un ruolo e di una responsabilità. Gli spettatori arrivano all’appuntamento con i panni del viandante moderno: scarpe comode, cappello e occhiali per ripararsi dal sole, acqua, qualche bastone da trekking con impugnatura in gomma e punta in tungsteno. Si parte per un viaggio che dura 10 ore. La presenza costante di una natura dalla bellezza ricca e potente è la grande protagonista di questo percorso: il panorama lungo il lago di Ghirla; la Torbiera del Pralugano, con il suo straordinario patrimonio di flora e fauna; i boschi di Cunardo; le cascate Fermona del torrente Margorabbia.

La stessa natura  fa da cornice alle testimonianze architettoniche, storiche, di archeologia industriale e contadina che incontriamo. La Cappella di San Gemolo del XIII secolo e la Badia dedicata nell’XI secolo allo stesso santo; il Maglio di Ghirla; il Mulino ad acqua ancora funzionante di proprietà della famiglia Rigamonti dal 1787;  la fornace da calce del XIX sec., dal 1951 sede della Ceramica Ibis, luogo di incontro di artisti di vari paesi aperto alla ricerca sulle possibilità plastiche, estetiche ed espressive del materiale. Il racconto dei luoghi è affidato a narratori “naturali”, persone che quei posti li hanno vissuti e li vivono con il sentimento intenso dell’appartenenza.

Un posto fantastico, da cui sono passati artisti come Picasso e Fontana, e dove c’è una mostra a cielo aperto di opere in ceramica accessibile a chiunque gratuitamente: qui ha danzato Lara Guidetti in una performance organizzata dalla Compagnia Sanpapiè. La danzatrice sta conoscendo una maturità interessante, con un linguaggio del corpo che cerca insieme eleganza e narrazione, capace come pochi altri di dialogare con il circostante, con l’ambiente e la parola poetica che, come in questo caso, l’accompagnava. L’evocativo stabilimento in mattoni rossi delle Ceramiche Ibis, le cascate, sono state queste le cornici naturali degli inserti coreutici pensati da Sanpapiè.
Ma non l’unica forma di arte scenica proposta: Gianni Coluzzi e Dario Villa hanno animato in altri momenti a più riprese le passeggiate con contrappunti e situazioni della Commedia dell’Arte: le maschere di Arlecchino, Pulcinella, Brighella, Zanni fra i morsi della fame, improvvisazioni nella natura e momenti di avvicinamento del pubblico a questo patrimonio immateriale della nostra cultura, mentre alle cascate venivano allestiti nitidi e bucolici tableaux vivent, a cura degli allievi della scuola di teatro di Cassano Valcuvia. Quadri di derivazione impressionistica, con lavandaie e colazioni sull’erba di fine Ottocento, con citazioni fra Renoir e Monet ma anche di matrice cinematografica, che hanno animato l’ultima parte della passeggiata. Un dialogo con l’arte che Teatro Periferico ha sempre cercato e in questi ultimi anni trovato con grande forza.
Per conoscere la compagnia e il suo lavoro, a chi potrà, quindi, diamo appuntamento con le date di Case Matte, per lo spettacolo sulla condizione nei manicomi e che girerà proprio nelle sedi storiche manicomiali in tutta Italia con il progetto che Teatro Periferico sta per portare in giro per l’Italia: “Mombello” non verrà rappresentato nei teatri, ma nei vecchi ospedali psichiatrici, oggi chiusi e, in molti casi, minacciati dalla speculazione edilizia. Insieme allo spettacolo, nelle stesse sedi, verranno presentati C’era una volta il manicomio, passeggiata all’aperto con narrazione della storia del manicomio (Chille de la Balanza) e la presentazione del libro: Atlante della città fragile, di Gianluigi Gherzi; inoltre, spettacoli, letture, mostre, narrazioni, incontri – diversi per ogni città – a cura dei soggetti coinvolti.

Museo Laboratorio della Mente ASL Roma E (Roma)
Associazione “Inclusione, graffio e parola” (Volterra)
“Un fiore per la vita”, cooperativa di produzione biologica (Aversa)
Archivio dell’ex. O.P. “Le reali case dei matti” (Aversa)
Associazione “180amici” (L’Aquila)
Comitato “3e32” (L’Aquila)
Coordinamento “per Quarto” (Genova)
Museo di storia della psichiatria (Reggio Emilia)

Una discesa nel ventre oscuro di Napoli con Scannasurice di Enzo Moscato

foto di Angelo Maggio
foto di Angelo Maggio

VALENTINA DE SIMONE | Scannasurice di Enzo Moscato, visto alla sedicesima edizione di Primavera dei Teatri, con la regia di Carlo Cerciello e con una poderosa Imma Villa nel ruolo della protagonista, è una discesa negli inferi di una città scossa dai suoi stessi mali e da un terremoto, che come una rivelazione, li riporta tutti a galla. Una Napoli sotterranea infestata da topi e da un’umanità alla deriva che si aggira disorientata, trascinandosi miserie e mortificazioni tra vicoli stretti e putridi.

Un edificio sventrato che presenta alla platea il suo scheletro ossuto di cemento: è in quest’abisso di tenebra che si muove la creatura disegnata dalla penna di Moscato nel 1982 per raccontare il grande sisma di due anni prima, una figura ambigua in mutande e canottiera da uomo, retina nera in testa, pelliccia tigrata e trucco da donna, costretta a vagare in un reticolo di loculi angusti disseminato di lumini rossi da cimitero, immondizia sparsa e bottiglie di vino. Striscia nell’ombra come un’ubriacona, si erge a madonna in un’edicola votiva incorniciata da lucine, si veste da puttana per ricordare la sfortunata storia d’amore di una prostituta per uno sconosciuto, esplora solitudini e visioni dell’oltretomba mentre il bum bum bum, che fa tremare tutto, corrode dalle fondamenta quel che resta del labirinto urbano. Tra un passato fatto di filastrocche, di preghiere e di leggende, come quella del monaciello di Salita Concordia n. 37 o della bella ‘mbriana, e, di contro, un presente contaminato dalla sporcizia dell’anima e dalla dimenticanza, tra surice, «ca se so’ fatte sprucede» e invadenti.

Imma Villa si destreggia ferina tra le nicchie, le botole e i cunicoli sprofondati nel buio di questa catacomba verticale, la sua voce scava nelle viscere di un linguaggio che è un flusso monologante ininterrotto, febbrile, aspro, a tratti insolvibile ma musicale e misterico come un cerimoniale d’altri tempi. Il napoletano accarezzato dalla sua bocca, come trent’anni prima da Moscato stesso, diventa un rito di parole e sangue, una liturgia profana di sacralità perduta, una lurida, melodiosa lirica impastata di sapienza e di oscenità. E la regia di Carlo Cerciello modula il tessuto laborioso della narrazione con ispirata lucidità, grazie anche al supporto delle musiche originali di Paolo Coletta, alla scenografia imponente di Roberto Crea e alle luci di Cesare Accetta che, come bagliori nella notte, inquadrano malesseri ed emozioni.