fbpx
giovedì, Maggio 16, 2024
Home Blog Page 346

La morte e la fanciulla: la saggezza bambina di Dammacco e Balivo

ELENA SCOLARI | Una bambola traballante, Serena Balivo è una bambina che a passettini si muove sulla scena vuota, un incedere incerto che ricorda le ballerine dei carillon f75db1_b718d22b1c104468a8a17935654ceef7.jpg_srb_p_600_612_75_22_0.50_1.20_0.00_jpg_srbd’un tempo, gonnellina a palloncino e scarpine baby.
Ma la fanciulla ha opinioni ben salde, fin dal suo primo giorno di scuola ci racconta con ironica lucidità l’aspetto plumbeo dell’istituto e con divertito distacco ci parla di dirigenti scolastici illogici e di compagni improbabili.
La voce del personaggio è infantile, si rende adulta solo quando vuole farci capire che il suo racconto è quello di un viaggio assai meno banale di ciò che sembra: è un itinerario infernale nella vita, tappe che tutti attraversiamo scendendo (e risalendo) tra gli incontri, con le persone, con il lavoro, con la ridicola burocrazia che costringe a descrivere il proprio mondo e il proprio ruolo secondo regole ed espressioni coniate da altri e che appiattiscono le particolarità in modelli tanto fintamente complessi quanto ordinari.

Il testo de L’inferno è la fanciulla è scritto da Mariano Dammacco con l’interprete Serena Balivo, è un testo intelligente (qualità non così frequente nella drammaturgia contemporanea italiana), un testo che con la soavità dell’umorismo sa suggerire un pensiero acuto che può scaturire solo da chi guarda le cose con profondità, da chi osserva intorno a sé (e dentro di sé) con la consapevolezza di dover cercare, testardamente, una condizione che permetta di crescere, anche quando si è già grandi, perché grandi non si è forse mai veramente.
E allora la bambina che estrae dalla sua cartella gli oggetti del viaggio ci appare un’esploratrice accorta, un po’ eccentrica, sì, ma tutti ci siamo sentiti come lei, tutti vorremmo una borsa di Eta Beta nella quale trovare la soluzione: una mappa per ritrovarci o un ombrello per difenderci, oppure l’immaginazione per giocare quando inventarsi uno stato di cui si è regnanti consente di lasciar fuori tutto quello che non capiamo.

Si ride, si ride spesso con questa bambina spiritosa, buffa nel suo essere già capace di prendersi in giro, caratterizzata da un atteggiamento cogitabondo sul mondo e su tutto ciò che lascia perplessi, una piccola filosofa il cui principio primo sembrerebbe essere un coraggioso buon senso, un personaggio che si presenta come surreale ma risulta infuso di una saggezza invidiabile.

Abbiamo seguito la Piccola Compagnia Dammacco e l’attrice Serena Balivo da Assedio a L’ultima notte di Antonio e in questo spettacolo apprezziamo maturazione recitativa e originalità di interpretazione evidenti.
La qualità della scrittura del testo è data anche dal saper evitare il ditino alzato, le riflessioni si insinuano senza mai suonare professorali. I pensieri tintinnano, non tuonano, ma quel suono lieve riverbera in testa a lungo.

«L’inferno Ḕ la fanciulla», pronuncia Balivo con voce di donna, sta tutto dentro di noi, il mostro e l’angelo, il buio e la luce, la vita sta nel governarli.

 

L’INFERNO E LA FANCIULLA

con Serena Balivo
ideazione e drammaturgia Mariano Dammacco, Serena Balivo
regia Mariano Dammacco
immagine di locandina Stella Monesi
foto di scena Luca del Pia

produzione Piccola Compagnia Dammacco
con il sostegno di Campsirago Residenza
primo studio vincitore del Premio Nazionale Giovani Realtà del Teatro

Io, Nessuno e Polifemo alle Colline Torinesi: nella testa di Emma Dante

GIULIA RANDONE | Spoglio di scenografie, con tre file di proiettori a vista, sul fondo un sipario lasciato a mezz’altezza e le quinte ritratte, il palco del Teatro Carignano di Torino appare immenso. In questo spazio senza confini si muove un gruppo composto da tre danzatrici e altrettanti manichini in legno: i loro movimenti segmentati e meccanici ritmano un lungo prologo che anticipa l’apparizione di Emma Dante. La regista e interprete di Io, Nessuno e Polifemo arriva alle spalle degli spettatori percorrendo il corridoio centrale tra le poltrone ancora in piena luce e in un’atmosfera colma di attesa e affetto.

MARINGOLA-DANTE-DONOFRIOSale sul palcoscenico con il pretesto di intervistare il ciclope Polifemo (Salvatore d’Onofrio), di conoscere la versione dei fatti narrati nell’Odissea dalla prospettiva del cattivo e del vinto. Al gigante, diffidente e sorpreso da questo interesse, chiarisce di averlo cercato proprio in virtù della sua diversità: perché, pur essendo uomo, non assomiglia agli uomini bensì “a picco selvoso d’eccelsi monti, che appare isolato dagli altri”. Ma a differenza del personaggio omerico, il Polifemo della Dante non somiglia a un monte, lo è: “Io sono di pietra e voi mi abitate”, spiega infatti d’Onofrio alla regista. E questa battuta, che compendia la relazione tra i due, racchiude uno degli spunti più suggestivi dell’ultimo lavoro dell’artista palermitana: il buio che sul palco accoglie la Dante è la voragine oscura apertasi al posto dell’occhio del gigante quando Ulisse lo ha mutilato.

Quel buio è – potenzialmente – teatro, luogo privilegiato del vedere. Perduta la vista, Polifemo racconta infatti di aver conquistato la memoria, che gli consente ora di vedere le cose con una prospettiva estesa. Alla memoria non ha saputo rinunciare del resto neppure il suo antagonista Ulisse, al quale Calipso aveva offerto in cambio il dono dell’immortalità. E sul palco – in quella caverna che è il teatro, in quel buio che è memoria – si incontrano ora tutti e tre. Ulisse (Carmine Maringola), vanitoso e arrogante, fa irruzione al ritmo di un balletto ammiccante e discotecaro, ma la sua vivacità si conforma presto alla staticità degli interlocutori, alla loro disputa esclusivamente verbale. I tre, in completo elegante giacca e pantalone, microfonati, sembrano brillanti conferenzieri impegnati a sostenere le proprie scelte e opinioni. Schierati in proscenio, da un lato Polifemo difende una vicinanza alla Natura e un’ignoranza priva di cattiveria, dall’altro Ulisse/Nessuno elogia la cultura degli inganni, indispensabile per far progredire la storia umana. Nel mezzo Io/Emma Dante espone la propria poetica: argomenta l’importanza rivestita nel suo lavoro dal dialetto, “lingua democratica e selvaggia”, la distinzione cardine tra spettacolo e teatro, cita l’insegnamento ricevuto dai maestri (il riferimento più insistito è al “morto fresco” Carmelo Bene). Insomma, dice ciò che pensa del teatro.

Dante non può non essere consapevole del fatto che quello che presenta come un viaggio nella testa di Polifemo (leggi, nel teatro) è in realtà un viaggio nella testa di un regista, di un modo di pensare al teatro. Non per niente lo spettacolo si conclude con l’immagine di Dante, d’Onofrio e Maringola che danno le spalle al pubblico, lo sguardo rivolto verso il sipario che si distende sontuoso sul fondo. È l’annuncio dell’inizio del vero teatro: il sipario dislocato sembra pronto ad aprirsi; le traverse dei proiettori, risalite nel corso del colloquio, hanno predisposto lo spazio a diventare scena; la posizione finale dei protagonisti fa eco alle spalle di Tadeusz Kantor, che avevano inquietato la Dante al tempo della Macchina dell’amore e della morte (1987) ed erano diventate nel suo ricordo il correlativo fisico del teatro.

Ma allora a cosa abbiamo assistito fino a quel momento? Se è chiaro che il teatro è una possibilità che viene dopo, il prima fotografato da Io, Nessuno e Polifemo appare ambiguo. Non espone l’inquietudine delle prove, il laboratorio, la ricerca di un accordo comune tra i corpi (fisici e testuali), l’accumulo dei significati e la loro distillazione. Al contrario, ci mostra una fase antecedente, raziocinante e perciò verbosa e (malgrado i propositi) poco ironica: quella delle intenzioni. Non ancora tradotte in azioni efficaci, si mostrano davanti a noi in forma di idee, di movimenti che non sono ancora danza ma ornamento, di suoni che sono poco più di un semplice accompagnamento.

I diari del Roma Fringe Festival – 4a parte: barbie, alieni, tivù e sogni americani

IRIS BASILICATA | Nel 1805 il celebre poeta George Byron era uno studente del Trinity College di Cambridge. Amante degli animali e della natura tenne con sé, per un periodo di tempo, un orso nella sua stanza universitaria. La solitudine domestica viene compensata in vari modi, dunque. Byron la sconfisse con un orso domestico, Maggie invece, protagonista dello spettacolo Xenofilia, con un alieno venuto da lontano. C’è tantissimo pubblico ad assistere allo spettacolo della Compagnia Xenos, che è stato anche semifinalista al Premio Scenario 2015. Maggie, una ragazzina ingenua e svampita, incontra un alieno e decide di portarselo a casa. Nel buio del parco di Castel Sant’Angelo compare Lorenzo Guerrieri che sale sul palco travestito da alieno. Sguardo fisso, pelle bianca, ali, scarpe altissime, stile “cugini di campagna”. Sarà stato alto 2 metri. A prima vista, è da ammettere, incute molto timore. Maggie porta il suo nuovo amico nella sua camera invasa da scatoloni, che fanno intuire un trasloco imminente, per fare amicizia e insegnargli la sua lingua.xen

L’alieno fa rivivere a Maggie momenti della sua vita ogni qual volta trova un oggetto in stanza: utilizza le cose appartenute a persone che hanno fatto parte della vita della ragazza trasformandosi in quelle stesse persone che l’hanno resa infelice.

Il rewind di un passato non proprio felice porta la giovane ad avere un rapporto di amore e odio con questo strano essere. L’amore per il diverso è ciò che spinge Maggie a seguire l’alieno in tutto ciò che fa per sentirsi meno sola.

Lo spettacolo è una favola surreale sull’ incontro tra la vita e la morte. La morte che si fa vita nel suo nascere. Insomma, il discorso potrebbe sembrare molto complicato ma in realtà il finale palesa tutto chiaramente: il nuovo amico di Maggie è in realtà l’angelo della morte venuto a portarla via con sé. La stanza piena di scatoloni non è altro che l’anticamera di un viaggio da cui non si fa più ritorno. Il monologo finale dell’angelo che finalmente ha imparato il linguaggio di Maggie fa comprendere alla ragazza di essere alla fine della sua esistenza. Uno spettacolo che celebra la nascita della morte, rendendo un evento doloroso un po’ più dolce dall’incontro tra due esseri emarginati. Un inizio a tratti divertente che presenta lo spettacolo quasi come una parodia dei telefim americani che hanno per protagonisti dei vampiri si svela in realtà un biglietto per quel viaggio illimitato che è la fine della vita.
ordaPassiamo poi ai veri emarginati sociali con L’orda oliva. Uno spettacolo di detenuti attori della casa di reclusione di Civitavecchia. Sicuramente non si può restare indifferenti di fronte ad uno spettacolo di una compagnia come quella di Sanguegiusto, formata da persone che sono alla fine di un percorso di risocializzazione e che quindi ben conoscono il sentimento della solitudine e dell’isolamento.

La storia racconta il lungo viaggio di clandestini (per una volta) italiani che vogliono emigrare in America per coronare il sogno di una vita migliore. Lo spettacolo per la regia di Ludovica Andò è tratto da Il lungo viaggio di Sciascia e da L’orda di Gian Antonio Stella. I testi sono stati poi rielaborati dai detenuti stessi che si sono ispirati a vissuti personali e improvvisazioni. Il sogno americano che si incrocia con le storie di tre uomini pronti a cambiare la loro esistenza. Il buio terrorizzante delle notti in mare è ricordato dalle piccole lampade che gli attori utilizzano per illuminarsi. Sulla nave immaginaria si suona, si studia l’inglese, si raccontano storie, si fantastica su come sarà questa “miss Liberty” di cui tanto si parla. Per i quattro avventurieri il tempo si ferma proprio come accade in carcere. È toccante vedere il lavoro svolto da persone recluse che cercano di reinserirsi nella nostra società. Detenuti e quindi emarginati che mettono in scena uno spettacolo che parla di altri emarginati. «Non servono abissi per sprofondare», questa la frase e l’insegnamento che ci danno questi quattro uomini che calcando il palco del Fringe Festival danno la possibilità a se stessi di prendere coscienza delle loro capacità.

Non servono abissi per sprofondare, basta accendere la tv e guardare i programmi insulsi di ogni giorno. Andrea Cosentino con il suo Telemomò ci fa vedere la televisione “fatta al momento”.cosentino

Aprendo la sua valigia, una specie di scrigno delle meraviglie che nasconde qualsiasi cosa, ci mostra come sia possibile trasformare la tv in uno spettacolo.

Un teatro animazione che interagisce con il pubblico e presenta i programmi di un normale format televisivo. L’attore utilizza gli oggetti più diversi per ricreare i normali programmi che ogni giorno guardiamo alla tv: barbie per la soap opera, parrucche, maschere di animali per i documentari, bambolotti per pubblicità progresso, bambole a “mezzobusto” che richiamano i telegiornalisti. Uno spettacolo che fa riflettere sulla televisione e sui programmi che ogni giorno ci propinano. La televisione è una cattiva maestra, tema affrontato in passato da Popper e da Pasolini. Soap opera in cui i personaggi tribolano per le loro vicende amorose e talk show in cui si intervistano improbabili personaggi che parlano dei loro nuovi libri. Esilarantissime le scelte adottate da Cosentino per rendere l’idea dei primi piani e dei campi lunghi con oggetti grandi e piccoli.

La grande agilità di Cosentino è stata soprattutto quella di interagire con il pubblico e con tutto ciò che accadeva all’interno del parco di Castel Sant’Angelo. Il bello della diretta della televisione diventa il bello della diretta del teatro. Problemi tecnici, tra l’altro frequentissimi durante le serate del festival, sono stati trasformati in vere e proprie gag grazie alla prontezza dell’attore. Inoltre, la sua pazienza è anche stata messa a dura prova da un allegro viavai di persone (non spettatori dello spettacolo, sia chiaro)  molto irrispettose e molto poco educate nei confronti del lavoro altrui.

Inequilibrio compie 18 anni: Castiglioncello alla prova di maturità

 RENZO FRANCABANDERA | Praticamente la Maggiore età.
Inequilibrio Festival lo storico appuntamento della nuova scena tra teatro e danza a Castello Pasquini in Castiglioncello (LI) arriva al traguardo dei 18 anni con sussulti di novità e continuità, in una tradizione che pur nell’avvicendarsi delle direzioni artistiche, ha mantenuto intatte alcune questioni fondanti come il rapporto con la comunità, quello con gli artisti che il castello ospita in residenza durante il periodo invernale, e soprattutto quello con il concetto di tempo, come elemento relativo alla creazione artistica. Era stata infatti coraggiosa la scelta di affidare ad alcuni artisti la possibilità di lavorare su vere e proprie trilogie, e ancor più coraggiosa e’ stata la scelta di innestare all’interno della proposta del festival queste creazioni. Il festival quest’anno è cominciato il 24 giugno e proseguirà fino a domenica 5 luglio con 13 prime nazionali: inizio con la Compagnia Lombardi-Tiezzi che ha portato in scena Inferno 900 – Dante e il grande giornalismo del secolo breve, uno spettacolo di Federico Tiezzi con Sandro Lombardi e David Riondino, drammaturgia di Fabrizio Sinisi.

A cosa abbiamo assistito: venerdì 26 giugno, arriviamo troppo tardi per assistere a Morte Araba di Maurizio Saiu, una coraggiosa proposta, o meglio per certi versi riproposta di un lavoro di questo poco conosciuto ma assai interessante coreografo e pensatore del corpo danzato, sardo di nascita e curioso di nazione, tanto da girare il mondo ed essere poco conosciuto a casa nostra. Il suo spettacolo suscita una grande emozione che raccogliamo fra gli spettatori all’uscita.

Sono quasi le 23, e l’unica possibilità che ci resta è assistere ai primi 20 minuti proposti dalla Compagnia Angelini/Serrani – Teatro Patalò di Silenzi – frammenti di un discorso di coppia. Due protagonisti in scena un uomo che una donna. Il loro pare un insano E federale desiderio di presenziare a cerimonie funebri. L’inizio dello spettacolo e folgorante, la recitazione surreale su un testo assurdo e godibilissimo. Come molti di questi esperimenti è la durata a sancire la tenuta dell’ispirazione. Nei secondi 10 minuti questa purtroppo flette, nella ricerca di una terza via fra la comicità da sitcom e il duo assurdo in stile Ionesco. Buona partenza ma occorre tenere il motore su di giri, con altre idee forti che rompano perfino la gabbia dell’unità stilistica, cosa per la quale non basta l’introduzione del codice musicale.

E siamo a Sabato 27 giugno. Il festival si anima con le premiazioni de Lo straniero, che vede in due giorni arrivare come premiati Vinicio Capossela e una delegazione di No TAV, o Saverio La Ruina, per menzionarne alcuni.

Torniamo però agli spettacoli, e al segno lasciato dalla proposta di danza, con Irene Russolillo e il debutto del suo A loan e la Compagnia Simona Bertozzi / Nexus  con Animali Senza Favola.

Il primo è un gioco di parole che fa intendere come si tratti di un assolo ma anche di un prestito da una suggestione shakespeariana. La Russolillo pare interessata a questioni connesse al dialogo culturale fra corpo spirito, fra osservazione di sede all’interno ed all’esterno, quasi di aura mistica e sensitiva, con uno spettacolo che inizia su una camminata lenta e le parole di una traccia che ha il sapore del diario. Di qui ossessioni e accartocciamenti su cui in futuro la danzatrice del gruppo Aldes potrà utilmente interrogarsi per affinarne il senso profondo e arrivare a nominare il tipo di sensazioni che si vuole trasmettere al pubblico, cosa che sicuramente avvantaggerà la trasmissione delle stesse e la distillazione intorno alle sue intenzioni più primitive, forse junghiane.

Simona Bertozzi – Animali senza favola

Ormai definitivo nella meccanica elegante e nella capacità di farsi narrazione pur senza drammaturgia è Animali Senza Favola, il nuovo progetto di Simona Bertozzi e del suo gruppo di danzatrici. C’è pochissimo da dire e ovviamente come sempre tantissimo quando ci si trova davanti a lavori così belli, capaci di letture multiple, che agiscono sui piani e livelli di comunicazione molto molto diversi fra loro ma tutti profondamente coerenti, figli innanzitutto di impegno durissimo sul corpo e di disciplina quasi ginnica, sincronica, che trasuda in ogni momento di una performance capace di descrivere una collettività vivente, in cui si incarnano regole fisiche assolute ma specificità che distinguono gli esseri gli uni dagli altri. Attraverso movimenti ginnici, corse in cerchio, unioni e divisioni, come stormi, come greggi, come branchi, queste creature vivono la loro identità di gruppo ma anche le disperanti solitudini del vivere.

Un esito a tratti commovente, che dura circa 60 minuti e del quale intorno ai due terzi si ha la compiuta sensazione di essere di fronte ad un capolavoro, nonostante una sorta di doppio finale a dieci minuti dalla fine, che incarna, secondo l’autrice, una sorta di volontà che l’opera stessa non si esaurisca in sé, ma muova verso nuove aperture: fondamentalmente il rischio riesce, pur non aggiungendo particolari questioni a quanto lo spettacolo ha fino a quel punto già offerto, una proposta comunque imperdibile in cui si segnala il talento cristallino di una magnetica Stefania Tansini.

Abbiamo ancora il tempo di assistere a due proposte di prosa. La prima è Inglese senza professore, libera traduzione e adattamento di Sebastian Bărbălan e Alice Maestroni de “Englezește fără profesor” di Eugène Ionesco (la prima versione de “La cantatrice chauve”), per la regia dello stesso Bărbălan, che è anche in scena insieme a Lorenzo Berti, Valentina Bischi, Pravas Guido Feruglio, Alice Maestroni, Tazio Torrini, Silvia Tufano. Bellissimi i costumi di Annalisa Galli, intenso il recitato, che riporta alla memoria Kantor alcune questioni affrontate dal linguaggio teatrale già in diverse occasioni. Ed è questa l’unica grande pecca di questo onestissimo e sudato prodotto, ossia di proporre il ritorno ad un codice già molto esplorato. Per il resto nulla si può dire ad un gruppo di attori che cerca di creare un’atmosfera psicotica e soffocante.

E chiudiamo con lo studio diretto da Vincenzo Manna di Roberto Zucco, uno degli ultimi scritti di Bernard Marie Koltes, che racconta la vicenda Roberto Succo, il criminale reo dell’omicidio dei genitori a Mestre 1981, e di altri cinque omicidi in Francia durante la latitanza seguita alla fuga dall’ospedale psichiatrico. Il controverso personaggio che morì poi suicida con una busta di plastica infilata in testa (particolare che lo spettacolo ricorda) viene riletto nei 20 minuti proposti a Castiglioncello da Manna e dai suoi attori attraverso il rapporto con alcune figure femminili della sua vita.

Ci sono delle intenzioni, che nei 20 minuti è difficile valutare nell’insieme, essendo frammenti di episodi diversi che hanno bisogno di rodaggio per mettere in comunicazione diversi piani. Il giovane regista drammaturgo pare scegliere un codice ibrido fra verità-cronaca e finzione-ossessione, giocando su un criminale molto sottile, esasperando il quale il rischio principale è quello di abdicare un po’ alla perversa poesia che invece Koltes ci pare abbia sparso, e che si gioca tutta sui rapporti interpersonali. Forse, verrebbe da dire alla fine del tempo, serve togliere, per arrivare a toccare più in profondità, senza accanirsi su un’atmosfera monocordemente ossessiva.

Chi dice donna dice… sacrificio: Frühlingsopfer di She She Pop

GIULIA RANDONE | La XX edizione del Festival delle Colline Torinesi (da quest’anno chiamato anche Torino Creazione Contemporanea) sarà ricordata anche per avere riportato in Italia le She She Pop. Dietro questo nome spensierato e ancora poco conosciuto qui da noi, si nasconde un collettivo femminile tedesco dalla poetica ben riconoscibile: autobiografica ma non autoreferenziale, in grado di trasfigurare l’esperienza privata in una biografia comunitaria, emozionante e formalmente ricercata. Nate alla fine degli anni Novanta, le She She Pop sono arrivate per la prima volta in Italia con lo spettacolo Schubladen, ospitato al Festival di Santarcangelo nel 2012. A Torino il gruppo si presenta invece con un dittico composto dal pluripremiato Testament. Preparativi tardivi per una nuova generazione ispirati a Re Lear (2010) e dal più recente Frühlingsopfer (2014). Accomuna i due lavori la presenza in scena, a fianco dei performer, dei propri genitori: nel primo caso i padri, protagonisti in carne e ossa sul palcoscenico, nel caso di Frühlingsopfer le madri, autentiche co-creatrici dello spettacolo, per quanto presenti solo in video.

All’inizio di Frühlingsopfer quattro enormi teli colorati incombono sulla scena. Sembrano una scenografia, ma quando l’immagine cambia e sui teli appaiono quattro donne scopriamo che i colori precedenti erano in realtà un dettaglio dei loro abiti. È il segno del ruolo subalterno con cui queste donne – madri-tappezzeria, madri-scenografia – inaugurano la loro presenza sulla scena. I figli le convocano in teatro, ma all’inizio si riservano il privilegio di dirigere l’azione: armati di microfono, le interrogano e le invitano a presentarsi, le ritraggono intente in operazioni ordinarie come passare l’aspirapolvere, le descrivono in funzione delle emozioni che il comportamento materno suscitava in loro da bambini. Una delle prime memorie rivela il disagio provato da una figlia nel vedere la madre ballare e l’imbarazzo con cui le madri si muovono ora di fronte alla telecamera fa pensare a una sottile forma di vendetta.

Foto: Dieter Hartwig
Foto: Dieter Hartwig

Il disagio è però bidirezionale. La rimemorazione del passato, ricordare cosa ha significato per le madri scegliere di diventare tali e per i figli ereditarne regole e tradizioni, rischierebbe di condurre entrambi in un cul de sac di psicologizzazioni e sensi di colpa. Sebastian Bark, Lisa Lucassen, Mieke Matzke e Ilia Papatheodorou raccolgono invece questo delicato materiale autobiografico e con una fune arancione lo inscrivono scenograficamente in un cerchio e, a livello compositivo, nella struttura a scene della Sagra della primavera. Il rito pagano messo in musica da Igor Stravinskij scandisce il ritmo di questo sacrificio moderno che vede la donna gravata da aspettative e ruoli indiscutibili. A differenza di quanto spesso accade nei dibattiti mediatici, le She She Pop non strumentalizzano posizioni ideologiche né annacquano il problema richiamandosi alla saggezza popolare. Decidono invece di dare voce alla donna e al suo “mettersi a servizio” traendo ispirazione dal significato originario della parola “sacrificio”, cioè “fare il sacro”.

Ciò che approntano in comunione con le proprie genitrici è infatti un’azione sacra, un rituale giocoso e serissimo. L’uscita dalla dimensione quotidiana e più limitatamente autobiografica è segnalata da un passaggio fondamentale: abbandonati gli abiti di inizio spettacolo, madri e figli si armano di tessuti e cinture modellandosi addosso sempre nuovi travestimenti. Sceltisi il proprio costume, gli otto protagonisti sono ora pronti a fronteggiarsi con un linguaggio alternativo alla dialettica verbosa e rancorosa. I figli imitano le pose dei genitori, cantano e danzano sotto lo sguardo delle madri, che dal canto loro li osservano con ironia, curiosità o distacco, partecipano al gioco e si svelano soprattutto attraverso primi piani silenziosi.

Cavalcando la ritmica straniante di Stravinskij, la tensione tra madri e figli raggiunge l’apice nelle scene finali (segnalate dagli attori attraverso appositi cartelli). Nell’“evocazione degli antenati” la musica corale degli ottoni e il suo andamento processionale avvicinano madri e figli al punto da condurre alla loro letterale fusione, i volti sovrapposti in video in un’orrifica compenetrazione. Nell’ultimo quadro, “danza sacrificale dell’Eletta”, ha luogo la guerra tra genitori e figli. Mentre la linea melodica viene sostituita da ritmi e accenti, i performer lottano a colpi di spintoni per scacciare l’ambiguità di una figura materna assente (sulla scena) ma in realtà sempre presente e invadente.

La perfetta coordinazione tra le azioni dal vivo e le riprese video alimenta l’illusione della presenza fisica delle madri e arricchisce di dettagli comici o perturbanti questo confronto scenico tra generazioni. Ma, ciò che è più importante, apre anche a una nuova dimensione semantica. Quando i figli colpiscono i volti materni, enormi e deformati dalle smorfie, è ormai evidente che protagoniste non sono più soltanto le madri biologiche dei performer. Dietro questo agone familiare emerge un agone ancor più necessario: quello con il proprio antenato, con le proprie origini e con i propri fantasmi, con ciò che sta dietro a me e a mia madre (e infatti dietro ai video si trovano spesso gli attori). Le luci si spengono così su una guerra che non ha prodotto né vincitori né vinti, su un sacrificio collettivo e rigenerante, che già domanda di essere riallestito.

I diari del Roma Fringe Festival – 3a parte: l’ossessione del teatro

IRIS BASILICATA | Wikipedia dice che l’ossessione è uno stato psicologico presente nel disturbo ossessivo- compulsivo. È questo il tema che accomuna in qualche modo gli spettacoli di cui si parla sotto. Al Fringe Festival, però, è bene ricordare che continuiamo ad essere ossessionati soprattutto dai topi che continuano a partecipare con assiduità ed entusiasmo agli spettacoli stavolta nascondendosi addirittura tra il pubblico.

Resized-FB4LLIl nostro amico topo di città è stato con noi ad assistere a Fak- Fek- Fik – Le tre giovani, uno spettacolo decisamente strano. Nato dalla volontà di voler essere un sequel di Le presidentesse di Werner Schwab, drammaturgo austriaco che nella sua opera tragica e grottesca raccontava le vite e i sogni di tre vecchie signore, viene ripreso da Dante Antonelli che mette in scena tre esistenze allo sbando. Il pubblico è entusiasta e io mi sento assolutamente un pesce fuor d’acqua. Tre vite appese aal filo delle frustrazioni quotidiane di tre ragazze qualsiasi: il lavoro precario, le feste, il bigottismo religioso, l’altruismo esasperato, i soldi che non ci sono, la volontà di voler trasformare a tutti i costi la propria vita mediocre in qualcosa di fantastico. Tra le tre non ci sono dei collegamenti drammaturgici: potrebbero essere tre monologhi differenti e allo stesso tempo esserne uno solo.

Il testo, scritto collettivamente dalle tre attrici, vuole essere una via di fuga dai luoghi comuni. Ma mettere in scena un testo che senta l’esigenza di uscire dalla quotidianità, di urlare la vita triste e precaria di tutti i giorni non è diventato anch’esso, ormai, un luogo comune? Peccato, perché la potenza in scena delle tre attrici è qualcosa di straordinario, salvo quando si arriva al fatidico momento in cui si spogliano rimanendo completamente nude. Il nudo in scena è ancora, veramente, una provocazione necessaria? Tutto rischia di sembrare un luogo comune che sfugge dai luoghi comuni.

Sul palco non c’è nulla, se non tre buste e tre tazze utilizzate in pochissimi momenti.

Gli applausi scroscianti del pubblico mi lasciano un po’ interdetta, non so di preciso cosa ci si possa portare a casa, se non il ricordo di un bellissimo lavoro attoriale. Ma il testo è davvero così sconvolgente?

IMG_9320Con SaturAzione, invece, ci troviamo di fronte ad una performance artistica. Il pubblico non è seduto ma è libero di potersi muovere attorno ai lati del palco per osservare meglio ciò che accade. Siamo apparentemente all’interno di un museo e i quattro attori sono delle statue che ci vengono descritte da una voce fuori campo che censura, però, i loro titoli. All’inizio viene un po’ da sorridere: chi da bambino trovandosi in un museo non si è messo immobile fingendo di essere una statua? I performer sono seduti su scale, scaletti e carrelli che non sembrano avere un reale collegamento con il luogo in cui vogliono farci immergere. Poi, tutto prende vita: le statue escono dalle loro postazioni invadendo gli spazi altrui tirando fuori da degli scatoloni lattine, scatole di pop corn, caramelle e baguette. Inizia una spietata lotta col cibo, all’inizio visto come un gioco per poi trasformarsi in un girone infernale in cui l’avidità del mangiare si fa sempre più ossessiva. Potremmo essere ovunque e in nessun luogo: quello che sembra essersi trasformato in un ipermercato, grazie all’ausilio di una voce che sponsorizza prodotti su prodotti, si trasforma poi in un luna park dell’orrore. Gli attori si spogliano (anche qui!), si spalmano addosso Nutella, mangiano convulsamente patatine e caramelle gommose, diventando delle installazioni viventi che trasmettono un profondissimo senso di inquietudine.

Gli attori sono tutti neodiplomati della scuola del Piccolo di Milano e hanno voluto cimentarsi con uno spettacolo in cui non fosse la parola a prevalere (non c’è testo infatti), bensì il corpo.

Attori performer che diventano istallazioni viventi in tempi forse un po’ troppo dilatati. Odore di Nutella misto a patatine ovunque.

FullSizeRender-3Passiamo poi a All- in, uno spettacolo di Roberto Nugnes sull’ossessione del giocarsi il tutto e per tutto. Il protagonista Ernesto accoglie, addormentato su una poltrona, il pubblico che prende posto.

Ernesto ha il vizio del gioco d’azzardo e si è ormai giocato tutto pur di assecondare il suo desiderio di volere sempre di più. Abbandonato dalla moglie e dalla figlia è nei debiti fino al collo. L’amico Ruggero cerca di aiutarlo proponendogli uno scambio che gli farà cancellare tutti i suoi debiti: un rene da donare al suo creditore per l’annullamento di oltre duecentomila euro di debiti. Uno spettacolo amaro che mostra il disfacimento fisico e psicologico di un uomo che ormai ha perso tutto, anche se stesso. Comico in alcuni punti che donano un po’ di ritmo alla scena, lo spettacolo è decisamente lungo trascinando il pubblico in un cambiamento temporale repentino forse un po’ azzardato.

Il protagonista è chiuso in gabbia come i suoi due animali domestici, le uniche cose che gli siano realmente rimaste. La sua vita è scandita da gratta&vinci. “Non dire mai ad uno sconfitto che è uno sconfitto se vuoi guadagnarti la sua dipendenza”. “Non hai vinto” è diverso da “hai perso”: ti dà la forza di perseverare per poi trascinarti in una strada senza alcune via di fuga. Una roulette russa devastante porrà fine al gioco che nel frattempo è diventato anche un po’ ansiogeno anche per chi guarda.

Nessuno può negare però di aver mai provato piacere nell’aver trovato sotto la striscetta argentata di un gratta&vinci la scritta “HAI VINTO”, anche se si trattava solo di 5 euro. “Hai mai vinto qualcosa, tu?” chiedo al mio ormai grande amico roditore, mentre prendiamo ognuno la strada verso casa. Non mi risponde ma sicuramente stasera ha vinto contro l’AMA Roma, perché continua indisturbato, proprio fuori il parco, a consumare la sua cena di fortuna.

Tagad’Off, 2a parte: tra vincitori e non, trionfa la nuova drammaturgia

FRANCESCA CURTO e VALENTINA SORTE | phoca_thumb_l_demo-uno.immagine134Con il palinsesto della sua IV edizione, Tagad’Off si rivela utile non solo alla valorizzazione della nuova drammaturgia ma anche alla riscoperta di generi teatrali su cui spesso grava il pregiudizio di non riuscire a coinvolgere anche il pubblico adulto. A vincere il festival quest’anno, superando ampiamente ogni preconcetto, è infatti il teatro per ragazzi di Schedía Teatro, che presenta un’originale rivisitazione del piccolo gioiellino di Eric Emmanuel Schmitt, “Oscar e la dama in rosa”, firmata da Riccardo Colombini.

Anche in “Senza francobollo”, come nel romanzo a cui si ispira, il protagonista ha dieci anni, è malato di leucemia ed è consapevole di avere ancora pochi giorni da vivere. E proprio ai bambini dai dieci anni in su, Schedía Teatro rivolge la sua riflessione, riconoscendo loro l’età della ragione e quella dei primi interrogativi a cui nemmeno gli adulti sanno rispondere: chi è Dio, che faccia ha, perché permette che esistano le malattie e perché la morte fa così paura a tutti, soprattutto quando riguarda i bambini. Ma prima di essere uno spettacolo sulla morte, “Senza francobollo” vuole porre l’accento sul tempo che rimane, sul viaggio piuttosto che sulla destinazione, trasformandosi in un percorso di iniziazione suscitato dalle sincere domande del piccolo Mario (Oscar), mittente di una lettera blu, senza francobollo, scritta a mano e indirizzata a Dio.

Poiché Dio non ha genere, numero, né indirizzo e non si fa mai trovare perché ama essere cercato, due postini gli si sostituiscono nella mancata risposta e invitano Mario a immaginare di vivere dieci anni in un giorno. L’esistenza del bambino si snoda così in dieci buste azzurre appese ad un esplicito filo rosso, contenenti le sue amicizie, i primi amori, il matrimonio e la vecchiaia, fino all’ultima lettera e al sonno da cui solo Dio è autorizzato a svegliarlo.

Per trattare un tema tanto delicato, Colombini si avvale dell’esperta recitazione di Valerio Bongiorno e Sara Cicenia, che con poesia e ironia arrivano al pubblico più vario con un dialogo ben scritto – valorizzato da carillon e cambi di luce – che gioca con la parola “morte” paragonandola alla pioggia. Pensa (e quindi esiste) alla vita come un’impronta di passaggio, all’apertura di una lettera come l’inizio di un viaggio e alla morte come qualcosa che non può essere ignorato. Ma ricalcando la leggerezza e lo stile irriverente del testo originale, Colombini riesce a sdrammatizzare con originalità il tema spinoso collocandolo in un ufficio di smistamento postale dai tratti onirici, in cui lavorano due improbabili postini ispirati al clown bianco (Bongiorno) e all’Augusto (Cicenia). Sono loro i sostituti di quella che in Schmitt era “la dama in rosa” e quindi gli intermediari tra il mondo degli adulti e quello dei piccoli, perché attraverso i loro momenti di intelligente comicità sono disposti persino a giocare con la “pioggia”.

Se attorno a questo gioco permane un po’ di amaro, Schedía Teatro rimedia con un’equilibrata commistione di fisicità, poesia e metafisica e si merita la residenza artistica presso Ilinxarium per aver spiegato ad adulti e bambini che l’ineluttabile si vince col sorriso.

cingommaAnche “Cingomma” di e con Jessica Leonello si è distinto fra le varie proposte del festival per la vivacità dei linguaggi utilizzati, ma anche per la capacità di far riflettere, senza prendersi troppo sul serio. Lo spettacolo, vincitore nel 2012 del premio Lidia Petroni e nel 2014 del premio OFFerta Creativa, potrebbe risolversi in questa semplice formula: “Dimmi come viaggi, e ti dirò chi sei”. È infatti attraverso la lente d’ingrandimento del viaggio, e nella fattispecie dei mezzi di trasporto, che la giovane artista riesce a parlare con ironia e leggerezza dell’Italia di ieri e di oggi.

“Cingomma” si apre sulle note di Also sprach Zarathustra di Strauss, con una citazione diretta di 2001 Odissea nello spazio. Sulla Terra e in scena si affaccia un nuovo esemplare di homo sapiens sapiens, ma al posto di brandire la clava trascina un trolley. Il suggerimento è chiaro: l’evoluzione della specie va di pari passo con l’evoluzione dei trasporti, perché ogni rivoluzione tecnologica è prima di tutto antropologica. Su questo parallelismo, la Leonello alterna con abilità momenti di narrazione a sequenze più performative. I primi diventano delle vere e proprie cerniere nella successione dei vari quadri.

Come narratrice, ripercorre e commenta i cambiamenti nei nostri modi di viaggiare e delle nostre nevrosi: dall’orario Grippaudo ai tempi di FS all’Alta Velocità, dai treni a lunga percorrenza ai voli low cost, dal passeggero come viaggiatore al passeggero come cliente. Come performer invece – grazie alla sua formazione di Mimo e Commedia dell’Arte – riesce a ricreare in modo convincente le atmosfere e i personaggi che hanno vissuto e vivono tuttora questa trasformazione. Il bestiario è ricco e vario.

L’Espresso Milano-Palermo catalizza tutta l’attenzione della Leonello, e lo spettacolo diventa a sua volta un viaggio. Viviamo così insieme all’attrice questa transumanza delle famiglie del Sud verso il Nord. Ripercorriamo il loro controesodo estivo. Nelle roventi carrozze FS, la lotta per i braccioli diventa accesa e la vicinanza dei sedili esclude qualsiasi intimità, come di notte, quando dalle cuccette si leva un singolare concerto di sibili e di respiri affannosi. Il monologo di Cingomma si arricchisce man mano delle voci degli emigrati e diventa polifonico, affrontando il tema dell’identità come ricerca delle proprie radici e come intima appartenenza ad un luogo. L’immagine del chewingum evocata dal titolo è quindi azzeccata.

La riflessione riesce a essere ironica e poetica, mai noiosa o scontata. Jessica Leonello si destreggia molto bene tra una comicità più fisica e una comicità di parola, come nel caso degli scioglilingua degli annunci ferroviari, ispirati a Blaise Cendrars. La sua interpretazione è eclettica e strizza l’occhio anche al teatro di figura. La sequenza con le hostess di volo, suggerite dalle teste di due manichini e animate nella voce e nei gesti dall’attrice è infatti riuscitissima. Il disegno luci di Luca Serafini e le musiche – da La dolce vita di Nino Rota a Sapore di sale di Gino Paoli – fanno il resto, amalgamandosi perfettamente all’equilibrio che contraddistingue tutto lo spettacolo.

AAA, Nuova Drammaturgia Lombarda cercasi: Tagad’Off 2015 – IL VIDEOREPORTAGE

FRANCESCA CURTO e VALENTINA SORTE | imageConsiderata la situazione in cui versa il teatro italiano, inserirsi nei circuiti italiani ufficiali è sempre più difficile, soprattutto per le compagnie emergenti. A Tagad’Off va sicuramente il merito di offrire ai giovani teatranti lombardi la possibilità di presentare il proprio lavoro all’interno di una vera rassegna e di confrontarsi con un pubblico di addetti ai lavori e non, interessato alla Nuova Drammaturgia.

La IV edizione di Tagad’Off affida a un frigorifero l’apertura e la chiusura del festival. Il primo è quello che Teatro Ex Drogheria riempie di sogni, aspettative violate e desideri che non trovano posto altrove, per essere realizzati. È il frigo costantemente vuoto della generazione anni ’80 che guarda al passato con nostalgia, lottando contro l’attuale perdita di equilibrio – lavorativo e climatico – ed un futuro incerto. In “21°” Sara Pessina affronta con speranza e ironia il tema della crisi e lo inserisce in un microappartamento “sostenibile” fatto di cassette della frutta, ma sceglie per la sua commedia un finale congelato.

Infatti, che i tempi d’oro in cui la vita era più semplice siano giunti al termine, lo afferma anche Jessica Leonello con il suo “Cingomma”, un monologo sagace sull’evoluzione dei mezzi di trasporto che racconta con la stessa malinconia dei tempi che furono il viaggio sull’ormai soppresso Milano-Palermo. Il ricordo di un treno che puzza, dove i braccioli non sono mai abbastanza e le porte degli scompartimenti rimangono sempre aperte è il pretesto per non dimenticare la difficoltà dell’emigrazione, il desiderio di tornare alle origini, e la sensazione di percorrere un intero “continente” per osservare dal finestrino uno spicchio di mare.

Molte volte infatti, più della destinazione, è il viaggio che conta. Se per la Leonello sono le piccole restituzioni della sua infanzia di siciliana trapiantata al nord a fare da collante al suo viaggio attraverso lo Stivale, per Schedía Teatro sono le lettere di un bambino malato di leucemia a fare da fil rouge in una storia già conosciuta, quella di “Oscar e la dama in rosa”, che Riccardo Colombini riadatta con originalità sostituendo alla dama due semplici postini. “Senza francobollo” è una riflessione metafisica sulla morte – una parola difficile anche solo da pronunciare talvolta – che immediatamente rimanda alla presenza di Dio e al suo ruolo di fronte alle ingiustizie. Al razionale “penso dunque sono” di Cartesio, Colombini oppone così tutte le incertezze che fanno vacillare la fede di fronte al tema della morte che, ispirandosi al romanzo, tenta di superare con il gioco. È un teatro per ragazzi intenso anche per gli adulti, ma che arriva indistintamente ad ogni pubblico per la delicatezza e l’ingenuità con cui sceglie di affrontare temi tanto importanti.

Nella riflessione sulla precarietà della vita e sulla presenza di Dio, sul suo aspetto misterioso e la sua potenza, si colloca anche lo studio che CampoverdeOttolini opera con “DI A DA”, un monologo onirico e di forte impatto visivo, che incarna nelle mani di un personaggio bambinesco di nome Me, la logica di costruzione e decostruzione di un mondo fatto di mattoncini, bambole di pezza, pesci di stoffa ed un cane di legno di nome Spike. Attraverso la metafora della pesca e del cerchio biologico che regola la natura, il personaggio di Me si dispone al di sopra di ogni scelta, distrugge senza consapevolezza, gioca senza rispetto, uccide e non ammette di averlo fatto, fino a negare persino la sua indefinita esistenza.

In maniera concentrica Tagad’Off si conclude infine con il frigorifero di “SocialMente” il primo lavoro dei ragazzi di Frigo Produzioni, che si presenta come uno spaccato sul congelamento delle relazioni dovuto alla presenza dei social e della televisione. Da un tema super masticato, il duo Alberici/Marsicano riesce a indovinare una maniera fresca e dirompente per raccontare la degenerazione e i sogni di gloria di giovani pilotati dai media, lavorando sull’immagine di un frigorifero contenitore di social, su cui è appuntata la “F” di Facebook. In questa commedia nera sull’assenza – di dialogo, di azione, di pensiero – i suoi personaggi infilano la testa nel frigo alla ricerca di relazioni virtuali, fino a dimenticare persino la spontaneità della relazione con il proprio vicino, esasperando la difficoltà di essere se stessi nella più stravagante morte delle relazioni sociali.

GUARDA QUI IL NOSTRO VIDEOREPORTAGE SU Tagad’Off 2015

La città distopica di Mahagonny. Il Mulino di Amleto alle prese con Brecht

GIULIA MURONI | “Gli «uomini di Mahagonny» costituiscono una banda di eccentrici. Soltanto gli uomini sono eccentrici. Soltanto attraverso soggetti a cui compete per natura la potenza virile può venir dimostrato illimitatamente fino a quale grado i riflessi naturali dell’uomo siano stati resi ottusi dalla sua esistenza nella società odierna. L’eccentrico non è altro che l’uomo medio ridotto all’osso. Brecht ne ha messi insieme parecchi in una banda.”

Così si pronunciava Walter Benjamin a proposito di “Ascesa e caduta della città di Mahagonny”, libretto a cura di Bertolt Brecht sull’opera musicale di Kurt Weill.  Si tratta della parabola scenica di una città sfavillante dominata dal denaro, dalla prostituzione, dalla lussuria; una sorta di paese dei balocchi per adulti. In questa acuta disamina Brecht anticipa in modo geniale le nevrosi e le schizofrenie della società dei consumi. Mahagonny sembrerebbe rappresentare l’utopia, presa nel suo senso etimologico di “ottimo luogo che non è in alcun luogo”,  in cui esiste tutto ciò che normalmente si può soltanto desiderare, fino al momento in cui la sua costruzione si rivela una clamorosa débâcle, il cui destino è sgretolarsi, travolgendo con i luccichii illusori i suoi abitanti.

La compagnia Il Mulino di Amleto, guidata dalle regia di Marco Lorenzi, ha portato la sua originale lettura del capolavoro brechtiano con il titolo “Mahagonny. Una scanzonata tragedia post-capitalistica, come prima nazionale nel cartellone della ventesima edizione del Festival delle Colline Torinesi, in corso a Torino dall’1 al 20 Giugno.

tiziana lorenzi
ph: tiziana lorenzi
L’azione sul testo brechtiano sembra volerne risaltare l’attualità senza riproporre fedelmente i passaggi testuali o le scelte estetiche e tuttavia non abbandonando l’ordito della narrazione. È la collettività dei personaggi a raccontare la vicenda, agendo sulla scena perlopiù nella sua totalità. Gli abitanti di Mahagonny sono sette uomini, camicie a scacchi e magliette stampate, e una donna: la prostituta Jenny Hill, occhiali da sole, caschetto biondo e tubino rosa. Senza quinte, sul bianco abbacinante del tappeto pochi elementi: delle sedie, un tavolo, il calco in gesso di una città sulla ribalta. Da un lato, extradiegetico, un individuo fa da voce narrante esterna: un po’ riprende le fila della faccenda, raccontando i fatti, un po’ li infarcisce di aneddoti e facezie; assume il ruolo straniante delle didascalie nel teatro brechtiano. Nell’altro lato ma fuori dalla scena è un pianoforte a coda, suonato da Gianluca Angelillo, a contrappuntare o sottolineare l’andamento della narrazione.

La coralità che costruisce lo spettacolo è energica e efficace nel disegnare una massa disordinata. Durante gli intervalli musicali (soprattutto “Bill” dei LunchMoney Lewis) è una danza di gruppo, gestuale e dinamica a movimentare la scena, invasa di una diffusa luce bianca. Luce che invece si fa ambrata e accompagna i dialoghi tra due o tre personaggi, focalizzando geometrie luminose dove si situa l’azione. Le musiche di Kurt Weill sono abbandonate, per dare spazio a melodie dei nostri tempi. Nel complesso lo spettacolo, pur presentando delle acerbità, mostra di essere animato da un’idea vivace e dal fresco talento della compagnia. Il regista, Marco Lorenzi, dice che “lo spettacolo punta a raccontare il contemporaneo come una barzelletta che non fa ridere”; perciò il registro grottesco è quello dominante e la parabola brechtiana si fa immediata metafora della fallacia della nostra epoca. La seconda parte sembra risentire di un ritmo un po’ troppo concitato e una tonalità sempre frenetica, tuttavia gestita con brio dai giovani interpreti.

Lo scenario distopico di Mahagonny è stato concepito dall’autore come compromesso tra teatro “gastronomico” borghese, volto ad una fruizione più superficiale, di pancia, e il teatro epico-critico, in cui lo spettatore, rifuggendo ogni forma di immedesimazione, è reso consapevole della propria condizione sociale e invitato all’azione. Il genio brechtiano continua a interrogare e scalzare dalle posizioni comode chi fa teatro e chi ne usufruisce, lodevole la volontà di mostrarne la pregnanza ai giorni nostri.

Tagad’off parte 1a – iniziamo dalla fine

RENZO FRANCABANDERA | Si è chiusa domenica la IV edizione di Tagad’off, il Festival di Nuova Drammaturgia Lombarda che si è svolto fra Inzago e Cassano d’Adda, esito di un concorso rivolto a giovani compagnie/artisti (under 35) e compagnie/artisti costituiti da meno di 3 anni, operanti in Lombardia, che potevano fare domanda di partecipazione presentando una loro produzione.
Tra tutte le compagnie e artisti che hanno partecipato al bando ne sono state selezionate 5 che hanno portato in scena i loro lavori durante i 3 giorni del Festival. Il vincitore avrà diritto a una residenza creativa presso la Residenza Teatrale ILINXARIUM nel periodo estivo, usufruendo gratuitamente dei nostri servizi tecnici per produrre un nuovo spettacolo, la presentazione nella Rassegna Tagadà 2015/16 della produzione realizzata durante la residenza secondo le modalità concordate con la direzione artistica e la partecipazione come compagnia presentata dalla Residenza Teatrale ILINXARIUM all’edizione 2016 del Festival Ritorno al Futuro.
Iniziamo dal fondo raccontando dei due spettacoli andati in scena Domenica 14 giugno nella sede dell’Associazione ESCO – CASSANO D’ADDA.

Foto Stefano De Ponti
Foto Stefano De Ponti

Si tratta di DI A DA – Me e gli Uomini, della compagnia CampoverdeOttolini, su testo e regia di Elisa Campoverde, interpretato da Marco Ottolini, con la supervisione drammaturgica di Carolina De La Calle Casanova e i particolarissimi oggetti di scena di Francesca Lombardi e Paola Tintinelli, spettacolo finalista del Premio per le Arti LIDIA ANITA PETRONI 2015

Diciamo innanzitutto che Di A Da è un’opera ancora in fieri: la compagnia stessa tiene a specificarlo con una serie di bigliettini lasciati agli spettatori sulle sedie prima dell’inizio.
Abbassate le luci si entra in un mondo piccolo, di segni d’infanzia, dove quello che appare come un giovane uomo si crogiola in affanni con giochi, pupazzi, piccoli manichini: un cane di legno, dei pesci di stoffa, dei piccoli pupazzi di stoffa appesi a delle corde così da creare una serie di piani spaziali mentre a sinistra del palcoscenico si trova una sorta di tavolino alto dove lo spettacolo inizia con il nostro protagonista che ci si rifugia sotto, mimando l’atto del pescare. Raggiungerà dopo il suo cagnolino di legno, che nella sua fantasia prende vita e con cui condivide questo ambiente di illusione, mentre una traccia audio piuttosto composita realizzata da Stefano De Ponti segue l’evoluzione dei fatti in modo abbastanza costante.

Il bambino/adulto dopo aver ambientato questo mondo di giochi, pare entrare in una logica creativa, e parte del narrato si completerà sul tavolino, dove il “creatore” darà vita alla miniatura di un villaggio e come un demiurgo proverà a costruire un mondo di felicità, abitato da un uomo e una donna. I due si ameranno, voleranno in cielo come i protagonisti dei quadri di Chagall, ma un atto di violenza di lui su di lei porrà fine all’idillio.
Se questa vicenda sia una sorta di emersione dall’inconscio, come quella di un bambino che racconta giocando i suoi traumi, non è del tutto chiaro.

Lo spettacolo ha ancora una serie di irrisolti sia drammaturgici che registici di una certa significatività. Il protagonista vive in un universo dai contorni indefiniti, di cui  quello che viene narrato è un insieme abbastanza scollegato di vicende, tutte afferibili ad un mondo interiore, ma la cui texture drammaturgica non arriva ad un sistema integro di segni.

Tale liquidità testuale costringe anche l’attore ad una via di mezzo ibrida nel recitato che ha forse bisogno di un calibro più deciso, con il registro infantile che appare un po’ sforzato. La regia ha bisogno di trovare, in questa fase di costruzione, strade per collegare testo, scena e personaggio, dando alcuni passaggi meno per scontato e riducendo  incognite e angoli oscuri che lasciano troppo in sospeso la fruizione. E questo inevitabilmente porta lo spettatore fuori dalla vicenda. Sicuramente il lavoro può crescere.

maxresdefaultIl secondo spettacolo presentato la sera di Domenica è stato SocialMente di Frigo Produzioni, da un’ ideazione e regia congiunta di Francesco Alberici e Claudia Marsicano, con il primo che firma anche la drammaturgia. Lo spettacolo è stato già Vincitore del Premio Pancirolli (qualche giorno fa in scena a Campo Teatrale dove lo avevamo visto), del Festival Young Station 2014 e Vincitore di OFFerta Creativa 2014.

Due giovani adolescenti inebetiti davanti al classico monitor emittente; le mani sono anchilosate nella presa del telefonino. E si parlano a monosillabi. Lui ha un’aggressività di fondo da sfogare, lei velleità artistiche di ogni sorta. Entrando e uscendo da un frigorifero marchiato Facebook i due danno vita a personaggi che sono sostanzialmente multipli e sotterranei della loro personalità principale. In parte velleità e sogni, in parte angosce e frustrazioni.

Il nostro tempo non permette a nessuna delle nostre personalità di sedimentarsi e dominare le altre. E anzi finiamo per essere dominati da un vortice social che congela di fatto ogni ambizione e speranza. Questo almeno pare dirci il finale dello spettacolo, con i due interpreti che, come se tutto fosse stato un sogno, tornano davanti al monitor, seduti al divano, a scambiarsi monosillabi senza senso.

Lo spettacolo vive ed è costruito attorno alle diversità di Alberici e Marsicano, il primo più orientato ad un attoralità di prosa, mentre la Marsicano con abilità quasi performative, stando a quanto si è avuto modo di vedere.

In questa composizione, che pure a tratti indugia e si crogiola un po’ sulle rispettive sicurezze, i due attori riescono comunque a trovare un’amalgama interessante che, pur con la necessità di leggere il ritmo interno della drammaturgia in modo più dinamico, costruisce una composizione in cui le capacità dei due si combinano.

E’ evidente che i prossimi lavori dovranno prevedere altre dinamiche, perché le giovani professionalità in formazione sono davvero differenti e la necessità che ciascuna delle due riesca a svilupparsi senza andare a scapito dell’altra prefigura un percorso di serio impegno nel cercare strade non facili, che non devono ripetere un modulo in cui, occorre comunque dire, la figura della Marsicano appare più forte, a tratti dominante, nella memoria persistente del costrutto scenico.