RENZO FRANCABANDERA | A scorrere le immagini di repertorio sul loro sito http://www.tamteatromusica.it si ha l’impressione netta di qualcosa iniziata davvero in un altro tempo. Un altro tempo sia per potenziale tecnologico che per tipo di linguaggio attorale.
Fa quindi poi una certa impressione trovare e perdersi nella contemporaneità dei lavori di TAM Teatromusica, una contemporaneità che sa guardare alle nuove tecnologie ma che se parla di Chagall o Kandinski pare rivolgere lo sguardo sul movimento dell’attore alla biomeccanica e alle tecniche coeve ai grandi pittori, alla ricerca di senso e coerenza.
Approfittando delle date al CRT (lo spettacolo su Chagall in scena fino ad oggi e poi la prossima settimana PICABLO – 04-05/11 e VERSO KLEE… UN OCCHIO VEDE, L’ALTRO SENTE – dal 06-09/11 abbiamo intervistato due dei fautori di un sodalizio plurale che anche dal punto di vista delle persone coinvolte ha saputo rinnovarsi, mantenendo il legame attorno ad alcune figure storiche come l’artista visivo e digitale Michele Sambin.
Noi abbiamo incontrato Flavia Bussolotto e Alessandro Martinello prima di una replica di “Ho un punto fra le mani” andato in scena alla Società umanitaria di Milano; un dialogo che guarda alle essenzialità delle loro scelte artistiche e umane.
RENZO FRANCABANDERA | La svolta è stata con Tony Kushner. E’ lì che gli Elfi hanno trovato una dimensione capace veramente, a tanti anni dalla fondazione e dopo tanti cambiamenti, di contenere tutto e tutti. Tutto il loro percorso, le loro ricerche individuali e le loro individualità attorali e registiche.
Anno dopo anno uno snocciolare, come la nonna in sincrono con il rosario di Radio Maria, lavori che sembrano avere una sorta di assonanza interna, una sorta di polifonia su un unico, grande giro armonico che come per il rosario non garantirà forse la vita eterna ma riscalda il cuore a chi lo recita, e ogni tanto droga chi lo ascolta.
Quindi che si parli di Kushner o dei più recenti avvicinamenti ad Alan Bennett o Peter Morgan, la sostanza resta nel profondo abbastanza invariata, perché al di là delle variabili drammaturgiche e sceniche, c’è un ritmo di fondo, un respiro, una meccanica molto assonante, versi di una stessa preghiera contemporanea, laica, senza dio, umana, troppo umana. Non c’è trucco e non c’è inganno, se non proprio il trucco e l’inganno di essere nel luogo in cui il reale si veste di falso e viceversa.
Ne Il vizio dell’arte, Bennett stesso sceglie l’inganno del teatro nel teatro, intrecciando due storie: la prima è quella di un gruppo di attori (Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Ida Marinelli, Umberto Petranca, Alessandro Bruni Ocaña, Michele Radice, Vincenzo Zampa, Matteo de Mojana) del National Theatre (dove per la cronaca c’è stata la prima rappresentazione di The habit of Art nel 2009) che sta provando un nuovo spettacolo: “Il giorno di Calibano” (la vicenda A). E poi c’è la storia vera e propria de il giorno di Calibano che loro stanno rappresentando (la vicenda B) incentrata su un fantomatico incontro in età matura fra Wystan Hugh Auden (Bruni) e Benjamin Britten (De Capitani), dopo gli anni di frequentazione fra le due grandi guerre.
Quanto ruota intorno ai due personaggi si intreccia con le dinamiche che riguardano il gruppo di attori che provano, arrivando a quella amorevole confusione che è proprio la base della volontà della scrittura; una scrittura che non cerca climax, quasi scientificamente brechtiana nello smorzare ogni emotività con continue interruzioni, per un intento completamente diverso da quello cercato (e ottenuto) da Peter Morgan con il Frost/Nixon proposto nella passata stagione.
Lì l’intreccio narrativo era lineare, convergeva, per arrivare, al massimo del pathos, al confronto fra i due protagonisti. E quel confronto era il centro, la piazza rinascimentale, il luogo verso cui convergevano le strade. Lì succedeva qualcosa. Anzi, lì succedeva tutto. Durante il confronto fra i due protagonisti: attorno alle parole dei due, il silenzio.
Ne “Il vizio dell’arte” invece tutto corre in modo scomposto, sguaiato, verso la vicenda del finto incontro senile ma non risolutivo, evento-non evento, durante il quale, di fatto non succede nulla, o quasi, perché ogni volta che qualcosa impattail piano emotivo o sentimentale, ecco che arriva un disturbo, un’interferenza, una mano che cambia stazione radio sul più bello, passando dalla vicenda A alla vicenda B apparentemente senza una ragione, se non proprio quella di portare allo spasimo il sentimento del finto. Più di The history boys questo testo respira le morbosità di Bennett, quei suoi tentativi di indagare l’inconfessabile, fra eros, inconscio e falsità umana. E la fetida scatola di biscotti che il poeta tiene in credenza e che repelle anche solo a immaginarla, è poi il ritratto di un’umanità alle soglie dell’incontinenza, fondamentalmente forse autobiografica, tanto che poi sul disinibito erotismo senile Bennett si è prodotto con una short novel successiva, di quattro anni fa.
Ma anche se centrata sulla solitudine e una devastante malinconia, forse quello che ha convinto a scegliere questo testo deve essere stato davvero il suo porsi su latitudini concettuali analoghe eppure diametralmente opposte a quelle di Frost/Nixon. Qualcosa che assomigliava, che metteva ancora al centro un incontro-scontro, ma che era invece tutto diverso da quanto già visto e fatto. Sarà stato questo ad aver reso l’operazione affascinante per Ferdinando Bruni e Francesco Frongia cui si deve lo spettacolo, partito, come non di rado accaduto in questi anni, dall’amorevole traduzione di Bruni stesso.
La resa si realizza entro le mura di una finta scenografia ospitata in forma scheletrica e incompleta al centro del più ampio, e vuoto palcoscenico della sala grande dell’Elfo, anche qui a giocare sul doppio. Come nel glorioso Sei personaggi della Compagnia dei Giovani (altra drammaturgia di teatro nel teatro), della prima metà degli anni Sessanta, la compagnia della vicenda A entra in scena dalla platea. Anzi addirittura gli Elfi spostano il mixer luci in prima fila, così che rimanga per tutto il tempo sotto gli occhi del pubblico, visibile macchina scenica. Il musicista esegue le musiche con un playback on stage in puro stile Kathy Mitchell, mentre il finto Britten – De Capitani mette le mani sul pianoforte.
Ci sono anche qui canzoni e interludi, moderno vezzo shakespeariano, presente anche in History boys. E c’è l’omosessualità senile, quel desiderio di gioventù che fa tornare subito alla mente Morte a Venezia di Mann. Tanto che Bennett stesso lo cita.
Gli attori sviluppano tutti una doppiezza nel recitato, che amplifica una sensazione di spaesamento che non arriva mai però a far perdere la direzione, tutto sommato tracciata. Forse è un pregio della drammaturgia, che permette alla nave di arrivare sana e salva in porto, a differenza di altre di Bennett in cui la vicenda e i personaggi appaiono meno tridimensionali. Forse ad un certo punto l’autore avrebbe potuto osare qualcosa in più, ma essere rimasto al gradino sotto il caos permette agli interpreti di tirar fuori la sferzante chiave ironica che sorregge in più punti la drammaturgia. E di giocare una partita di squadra, corale, orizzontale, dove riesce ad emergere anche la crescita d’attore di Bruni Ocaña, e in generale degli interpreti più giovani, Michele Radice, Vincenzo Zampa, e Umberto Petranca.
E’ innegabile tuttavia che il clou sia nel duello: Bruni e De Capitani paiono ormai cercarsi l’anima in questi scontri e incontri in cui i personaggi contendenti si amano in quanto rivali e si odiano in quanto complici. Il loro fronteggiarsi scenico è senza dubbio una chiave di successo di queste proposte. Ma il vizio dell’arte va visto proprio perché il duello alla fine non c’è. I due si abbandonano, restando ciascuno con la propria pistola scarica nella fondina, perché questi personaggi, come in fondo sono spesso gli attori, sono soli. Attorniati da affetti, da amori incondizionati, da applausi del pubblico per anni. Ma poi soli. A fare i conti con se stessi, la vita, quella solitudine malinconica e rancorosa che così bene Bernhard descriveva, e che un po’ si annusa in questo lavoro.
La scrittura di Bennett non arriva alla densità misantropa di Bernhard, questo va detto per onestà. Ma resta amorevolmente più leggera, ironica, autoironica. Masturbatoria, verrebbe da dire, se non fosse per quel vizietto dei pompini. Eh già. i pompini. Che avranno mai a che fare con l’arte? L’interrogativo trova comunque in chi scrive una sua risposta. Ma come Bennett in The habit of art, anche noi dichiariamo che “Questo non è un testo sui pompini”.
MATTEO BRIGHENTI | “Abbiamo studiato per due mesi Raimondo Vianello e Sandra Mondaini: il loro litigio continuo porta avanti il pensiero, svela la profondità con ironia.” Questa è la felicità che Alessio Martinoli cerca, discute, insegue con Laura Bandelloni, compagna di scrittura, di regia e di vita, in Io sono felice – e alla fine dello spettacolo lo sarete anche voi che arriva martedì 4 novembre al Teatro Studio di Scandicci all’interno della IX edizione di Zoom Festival, intitolata “Oscillazioni” dal direttore artistico Giancarlo Cauteruccio. Io sono felice è un varietà di arti, prosa, lettura, danza, canto per dare voce e corpo alla felicità di fare ed essere felici, in un’atmosfera che frizza di gita scolastica, guidata da due saltimbanchi che raccontano una storia personale di cadute e risalite, ma al tempo stesso collettiva, generazionale.
Incontro Alessio nell’ ‘ufficio’ che la sua precarietà teatrale gli ha concesso: il bar del padre in via Cavour, a Firenze. Presto sarà papà anche lui: Laura, infatti, è al settimo mese di gravidanza.
“Per me quella pancia significa che tutti possono creare, non solo l’artista.”
Io sono felice – e alla fine dello spettacolo lo sarete anche voi è un titolo impegnativo.
“Da piccolo facevo le imitazioni davanti ai miei genitori e quando ridevano per me era una soddisfazione: far felice mi rende felice. Questa è l’epoca delle responsabilità e la mia è chiedere il diritto di stare su un palcoscenico. Dobbiamo tornare alle passioni, le uniche che possono ribaltare la crisi e la paura del futuro.”
È uno spettacolo politico?
“Vogliamo fare uscire il teatro dalla marginalità, farlo tornare a essere un avvenimento collettivo. Oggi come oggi il teatro non cambia il mondo, puoi dire cose bellissime, resteranno comunque ai margini. Che si sia d’accordo o no, il calcio è il più grande spettacolo d’Italia.”
E il pubblico che va a teatro vuol vedere i classici. A un certo punto, non a caso, mettete in scena l’inizio del Gabbiano di Čechov, il dialogo nero come il lutto di non essere riamati tra Maša e Medvedenko. “Toccherà fare qualcosa – dici a Laura quasi per scusarti – sennò si scocciano”.
“Per questo lavoro un po’ privato e un po’ condiviso Čechov è stato uno dei primi autori che ho preso dalla libreria di mio nonno, che la domenica mandava gli altri allo stadio, mentre lui andava al museo. Ogni volta, quando pensiamo a qualcosa da fare diciamo: rappresentiamo un bel classico, così come è scritto. In scena, però, lo facciamo da ‘contemporanei’, con i mezzi che abbiamo, che sono poveri, a differenza del teatro classico.”
La felicità allora è un percorso, un incontro, come quando date caffè e biscotti al pubbico: se vuoi lo zucchero devi chiederlo a chi ce l’ha, se vuoi un altro biscotto devi alzarti e andarlo a prendere.
“Per Laura il momento del caffè è fondamentale. Quando entri in casa la prima cosa che ti chiede è: “lo vuoi un caffè?” Questo è un altro aspetto della gestazione ‘casalinga’ di Io sono felice. Poi, il pubblico paga per venirci a vedere e noi dobbiamo restituire, in qualche modo, ciò che riceviamo. Quanto ci vuole a comprare un po’ di caffè e due biscotti? Niente, però trasmette tanta gioia. Da un punto di vista compositivo ci serviva per spezzare il ritmo, perché nella prima parte diamo tante informazioni: mentre la studi capisci che la felicità non finisce più, che non ne sai mai abbastanza.”
Tra gli altri, citate Epicuro, Kant, Camus, il Dalai Lama. Secondo te la felicità viene dal sapere o dal non sapere?
“Dobbiamo essere orgogliosi di vivere in un Paese che ci permette di non essere felici, perché possiamo lottare per esserlo. Se andasse tutto bene che senso avremmo? La ricerca della felicità dà senso all’arte stessa.”
Lo scrive anche Cauteruccio nella nota introduttiva al Festival: “l’oscillazione è una modalità necessaria di questa nuova generazione creativa che agisce in costante movimento e non pone la creazione in una condizione di certezza ma in una ricerca incessante.” “Quello che si può rimproverare al contemporaneo è di ricercare qualcosa che spesso non interessa a nessuno. Ma forse ciò è dovuto pure al fatto che l’Istituzione non cerca più niente: il tempo passa, ma in teatro esiste ancora la stagione, il cartellone di prosa, termini e pratiche antiche, tradizioni che vengono mantenute e invece sarebbero da innovare.”
Il problema di questa “nuova generazione creativa” è di non porsi abbastanza in contraddizione con la precedente? Aspira, piuttosto, a un consenso che finisce per ripetere gli errori del passato?
“ ‘Nuovo’ è una parola che andrebbe abbandonata. Comunque, è sempre chi c’è che deve aprire al nuovo, è Cauteruccio che apre al nuovo, non noi, che non siamo parte di alcuna generazione. Poi, sì, è vero, a Zoom capita di vedere cose che sono più vecchie di lui.”
Il nuovo insomma non si percepisce come tale, ma viene riconosciuto da chi non lo è più. Con la felicità è lo stesso: capisci che eri felice quando sei triste.
“La nostra è una panoramica come quando prendi gli autobus turistici aperti o fai un giro a piedi: non ti può interessare tutto, è il tuo punto di vista che conta. Tutto passa dalle domande: perché viviamo, perché stiamo qui? Quella è la felicità da assaporare, il passo superiore.”
Zoom Festival 2014 dal 3 all’11 novembre vedrà alternarsi sul palco del Teatro Studio di Scandicci 14 giovani formazioni di teatro e danza, un artista brasiliano come Marcelo Cordeiro, due prime nazionali, una performance site specific e, novità assoluta, uno spettacolo per ragazzi. Durante tutta la rassegna un gruppo di giovani critici diretti da Simone Nebbia e Andrea Pocosgnich di Teatro e Critica prenderanno parte al “Laboratorio di riflessione e scrittura critica” e daranno vita a un giornale cartaceo che verrà distribuito in tutta Scandicci.
GIULIA MURONI | Anche nel teatro, anche in questi tempi di magra, esistono realtà virtuose, capaci di raggruppare energie e professionalità per convergere verso un progetto comune. A Gualtieri, borgo di 7000 anime tra Mantova, Reggio Emilia e Parma, un gruppo di tredici persone, ha varcato i cancelli del Teatro Sociale di Gualtieri, ormai chiuso definitivamente dal 1979, L’occupazione dello stabile, un teatro settecentesto ligneo in stile liberty, inserito nel complesso del palazzo Bentivoglio, lungi dall’essere un'”okkupazione”, ha di recente ottenuto un riconoscimento formale da parte del comune di Gualtieri, alla luce dei numerosi lavori di restrutturazione e messa a norma della sala principale. Ancora il lavoro è tanto, ma l’associazione Teatro Sociale di Gualtieri è animata dalla determinazione di chi sta cercando di costruire uno spazio nuovo, fuori da certe logiche logore, e da una certa dose di visionarietà e incoscienza, fondamentali per inseguire un progetto ambiziosissimo. Questo lo spirito con cui hanno organizzato un piccolo festival “Direction Under30”, all’insegna del mutuo soccorso teatrale, nel tentativo di fare massa critica e provare a invertire le tendenze del teatro oggi in Italia.
Ne abbiamo parlato a Gualtieri con Rita Conti e Riccardo Paterlini:
FRANCESCA PEDDONI | Esprimersi con l’arte in modo tradizionale non è di certo facile. Farlo con una performance lo è ancora meno. Lo sa bene Joan Jonas che con la sua “Reanimation” conquista il pubblico dell’Hangar Bicocca di Milano. La performance completa la prima grande mostra personale dell’artista americana, ospitata presso un’istituzione italiana: Light Time Tales, a cura di Andrea Lissoni.
Non è un caso che sia stata scelta proprio lei come rappresentante degli Stati Uniti alla prossima Biennale di Venezia e non è un caso che l’artista, con i suoi settantasette anni, abbia raggiunto l’apice della sua ricerca artistica proprio con “Reanimation”.
Spenti i monitor della mostra e tutte le luci dell’hangar, ecco accendersi i riflettori su un palcoscenico d’eccezione che contiene gli elementi del linguaggio performativo della Jonas: al centro della scena un grande schermo, un tavolo da disegno, un banco da lavoro con una fotocamera sospesa su di esso. In questo modo le azioni delle mani sono proiettate tramite feed live sullo schermo centrale, creando degli effetti di sovrapposizione spettrale. E poi ancora, una lavagna, un mixer e tastiera, in cui dal vivo il musicista e compositore Jason Moran interagisce e collabora con l’artista nella sua esibizione.
Forte è il contrasto fra le silenziose montagne innevate proiettate sullo schermo e i suoni, a volte stridenti a volte ripetitivi, creati con utensili da cucina, fischietti, campanelli e altri ninnoli dall’artista. Le immagini scorrono e gli elementi della natura si susseguono in un alternarsi di disastri ambientali, musica, suoni e disegni. Le mani, in primo piano sullo schermo, e poi UNA mano, quella dell’artista segnata dagli anni, trema, mentre prova ad imbrigliare gli elementi della natura. Con un segno primordiale segue il profilo di montagne, di case, di animali prima della loro scomparsa, dal monitor e dalla realtà… Scorre l’acqua, come scorrono le note improvvisate di Moran che fanno da texture sonora mistica alla narrazione sensoriale di Joan, che guidano e assecondano i gesti e i disegni in un alternarsi di suoni incalzanti e ossessivi a ritmi caldi e delicati suonati al pianoforte.
L’artista, minuta e completamente vestita di bianco, assomiglia allo Zigolo delle nevi: “Tale uccello ha circa il peso di un francobollo”, scrive l’autore islandese Halldór Laxness nel suo romanzo del 1968, “Sotto il ghiacciaio”, a cui Reanimation è ispirata. E’ nella sua apparente fragilità che l’artista stupisce lo spettatore mentre la si osserva diventare parte integrante delle immagini del monitor e trasformarsi in uno sciamano quando improvvisa una danza mistica e profondamente spirituale con la sua ombra, potente presenza alle spalle. Ombra che prende vita anche in una lunga sequenza sullo schermo, allungata e imponente creata da una luce pura, quella del sole all’alba. Il rumore “musicale” delle scarpe che affondano sul terreno ghiacciato, accompagnano l’ombra nel suo cammino e la trasformano da soggetto inconsistente ad essere vivo e positivo nel processo di “Rianimazione”.
Nella performance il disegno è il contatto con la tradizione, capace da sempre di fare da tramite fra l’uomo e Dio, diventa in Reanimation il medium perfetto che interagisce con gli altri componenti della realizzazione, in un’armonia elegante e allo stesso tempo energica e potente. Un dialogo continuo fra la vita e l’essere superiore a cui l’artista si rivolge in un‘ultima preghiera.
Gli applausi e l’entusiasmo del pubblico, abbracciano calorosamente il piccolo “zigolo delle nevi” che con tutta la sua energia è pronta ad appassionare il pubblico della prossima Biennale di Venezia.
RENZO FRANCABANDERA | Perché è così complesso fare cultura in Italia? Quali questioni esistono nel rapporto fra arte e società e come la direzione artistica in un moderno incubatore culturale ha il compito di mettere in comunicazione gli uni e gli altri.
A conclusione di VIE Festival 2014 incontriamo Pietro Valenti, a capo di ERT Emilia Romagna Teatro da molti anni, figura senza dubbio di primo piano per il teatro italiano, per le sue dinamiche produttive e di circuitazione.
Ne viene fuori un’intervista secondo noi di grande impatto e interesse che scolpisce in modo molto chiaro una tipologia di operatore culturale particolare, per molti versi atipica e che mira a coniugare la passione per la diffusione culturale all’obiettivo di rimanere il più possibile estraneo a logiche puramente commerciali e di scambio.
Non mancano quindi considerazioni sulla politica, il pubblico teatrale oggi, il lavoro degli artisti e le considerazioni più intime sul rapporto fra etica e potere.
VINCENZO SARDELLI | Non sorprende che il francese Jean Genet (1910-86), con la sua arte legata all’allontanamento dal reale e dalla storia, sia un riferimento per gli attori-galeotti della Compagnia della Fortezza di Volterra. Adolescente e giovane irregolare, Genet crebbe in casa di correzione. Più volte incarcerato, visse di espedienti.
Una serie di suoi libri rispecchia le sue narrazioni biografiche: opere incentrate sullo sgomento e sull’irrisione della struttura sociale, sentita come feroce e inafferrabile.
Si spiega così Santo Genet, il titolo che Armando Punzo, mente e anima della compagnia del carcere di Volterra, ha scelto per il suo ultimo spettacolo. Uno show sull’opera omnia del drammaturgo transalpino. Che trasforma la lacerazione in sangue vitale. Che crea buchi nella realtà. E immagina «collane di fiori dove c’erano catene, bellezza dove c’era orrore».
Dopo Mercuzio non vuole morire, ecco in prima nazionale al Menotti di Milano, un altro trionfo barocco del potere liberatorio dell’arte.
Santo Genet evoca un tempo fuori dal tempo. Sfilata carnascialesca o sacra rappresentazione, unisce trascendente e profano.
Già scendere dal foyer verso il teatro è straniante per lo spettatore: un uomo-geisha lo accoglie ammiccante; marinai in posa statuaria gli fanno da cornice.
Poi la sala, il palco come una nave o un cimitero. Marmi bianchi, colonne, tombe, candelabri. Specchi dorati, velluti, pizzi. Un organo che suona.
Una sposa immateriale, abito bianco e velo luttuoso, vaga solipsistica tra angeli efebici e monaci orientali. C’è lui, Punzo, abito nero lungo, collana di rose rosse: ridanciano, enigmatico, sciorina versi come cantilene, parole come proclami. Altri personaggi si materializzano in questo carosello: sono morti, pirati, prostitute, figure ibride indefinibili.
Nenie funebri e chiari di luna fanno da sfondo a note di pianoforte, violino, chitarra. Suoni corposi, incalzanti, avvolgenti, a tratti regrediscono e sublimano.
Atmosfere fumose, rarefatte, si addensano in una sinestesia di voci e colori, in un monumentale bazar delle meraviglie. La luce estesa, chiara o policroma, si proietta sul pubblico coinvolto in una processione collettiva tra valzer e piogge di fiori.
Siamo colti da una specie di sindrome di Stendhal. Anneghiamo in un vortice perturbante. Nel comune respiro visionario scopriamo il nostro personale immaginario. È la celebrazione pomposa di una morte che, più della vita, assomiglia al teatro, luogo dove tutto è possibile.
La dualità dei sentimenti appartiene alla realtà del carcere come la contiguità tra colpa e redenzione, sbarre e libertà. La scena è riflesso di un mondo interiore frantumato. Manca ogni meccanismo causale. Punzo si affida a una serie d’immagini di frammenti atemporali e atopici.
Santo Genet sfuma la protesta e la provocazione sociale in immagini oniriche. Si potrebbe rilevare un certo dilettantismo. Come sempre accade nel caso degli artisti iconoclasti, l’opera di Punzo resta avvolta da una fondamentale ambiguità: un doppio registro che glorifica congiuntamente, con maliziosa dialettica, una primitiva ingenuità e un ragionatissimo mimetismo da guitto.
Colpisce il rapporto di Punzo con i maestri antichi e recenti dell’eversione, lungo una linea che da Sade si spinge sino ad Artaud, oltre allo stesso Genet. Astuzia e innocenza sono le due leve simultanee di un’opera la cui denuncia sociale è autotrascesa sino alla pura felicità verbale e alla fanciullesca libertà dell’immaginazione.
LAURA NOVELLI | Possiede la semplicità espressiva di certe regie di Peter Brook e, insieme, la dirompente energia “politica” dei migliori allestimenti del Living l’ultimo, importante lavoro della compagnia bielorussa Belarus Free Theatre che, intitolato Red Forest, è approdato nei giorni scorsi al Vascello di Roma per le Le vie deifestival e poi, in replica, a Modena all’interno di Vie. Si tratta di un ennesimo atto di coraggio, di un’ennesima assunzione di responsabilità civile da parte di un gruppo di (bravissimi) teatranti che – fondato a Minsk nel 2005 dal giornalista e drammaturgo Nikolai Khalezin e da sua moglie, la produttrice teatrale Natalia Koliada – ha costruito sulla dissidenza alla dittatura, sulla denuncia, sulla “necessità” di provocare dibattiti e azioni politiche, sul bisogno reale di credere in un mondo migliore tutta la sua storia umana e artistica (e basti considerare lavori come Beeing Harold Pinter, Zone of silence, Discover Love). Da qualche tempo la compagnia – insignita, nel 2008, sia del Premio dei Diritti dell’Uomo della Repubblica Francese sia del Premio Europa per il Teatro come nuova realtà – risiede a Londra e proprio in sinergia con lo Young Vic londinese ha progettato e realizzato questo nuovo spettacolo: poetico ma inquietante racconto di un disastro ambientale che riguarda ormai tutti i continenti e che minaccia seriamente la sopravvivenza della razza umana. Il tessuto di partenza è imbastito sul filo di storie vere raccolte in Nord America, Africa, Brasile, Giappone e – ovviamente – Ucraina, laddove cioè si estende quella vasta area boschiva che, dopo l’incidente nucleare di Chernobyl, assorbì così tante radiazioni da diventare – appunto – rossa.
A fronte di una materia tanto vasta e diversificata, Khalezin (autore del testo e delle scene e regista) sceglie però la strada della semplicità: palcoscenico vuoto, due fiumi/mari di acqua ai lati e un’area centrale di terra rossa allusiva di tanti luoghi della Terra. Ad avvolgere questo Mondo così disumano e sofferente ci sono poi i musicisti che accompagnano l’intera pièce dal vivo, sovrapponendo le loro note alle azioni degli attori e agli intarsi video previsti da sfondo. Si procede lungo le traiettorie di una narrazione popolare, persino favolistica, a tratti forse troppo illustrativa, che si schiude via via quasi in sordina, senza urla, senza enfasi. Ai corpi, alle danze, alle coreografie corali dei pregevoli interpreti (tutti molto abili fisicamente, così come insegna la migliore tradizione teatrale russa) il compito di inseguire quell’impeto che le parole e la musica sembrano piuttosto voler diluire, soffocare, restituire in modo malinconico e sommesso.
La storia prende avvio in Canada e, parlandoci di popoli estinti, deprivati delle loro terre e della loro identità, ci introduce subito nel vero tema del lavoro: l’estinzione che stiamo rischiando a causa del continuo sfruttamento economico del Pianeta, delle guerre che ne derivano, dell’impiego irrazionale delle materie prime, del miope consumo di acqua e di energia. E’ attraverso la vicenda pietosissima di Aisha, una giovane donna della Liberia costretta a partorire da sola nel deserto del Sahara e a viaggiare con il suo bambino in braccio alla ricerca di un luogo sicuro dove vivere, che la denuncia sottesa allo spettacolo assume l’ariosità del simbolo e della metafora. Le avventure di Aisha attraversano il mondo e tutto il mondo soffre di tragedie simili. Dove? Dove le ruspe abbattono intere baraccopoli per fare spazio agli interessi delle grandi industrie e delle multinazionali. Dove gli smottamenti climatici scaricano litri inattesi di pioggia inondando case e villaggi. Dove il fracking impazzito rompe rocce e assicura terremoti e disastri a venire. Dove l’esplosione di una centrale nucleare diventa fegato e stomaco sputati dalla bocca (il racconto della morte del vigile del fuoco è uno dei passaggi più forti del testo). Eppure, malgrado tutto ciò, malgrado la violenza di cui è vittima, la donna ha sempre con sé il suo bambino/feticcio, il suo vessillo di speranza, il suo angelo da custodire. Ecco allora che Red Forest apre uno spiraglio di fiducia, una visione futura. Dobbiamo lottare oggi – sembra volerci dire la compagnia bielorussa – per garantire uno scampolo di vita serena ai nostri figli e ai figli dei nostri figli. Per questo dobbiamo farci sentire, dobbiamo scendere in piazza (grande successo ha avuto, ad esempio, il flashmob organizzato dal Belarus in un’importante strada di Roma mercoledì 22 ottobre e nel corso del quale è stato srotolato un panno rosso lungo 400 metri per tracciare una linea contro i sistemi pericolosi della produzione energetica), dobbiamo fare teatro, dobbiamo dare voce ai più deboli, ai diseredati della Terra. Sarebbe stata intenzione di Khalezin restituire qui l’idea di un grande affresco epico del dolore degli esseri umani. “Ma durante il processo di creazione della performance – scrive egli stesso – è nato un nuovo genere: anti-eroico. Analizzando centinaia e centinaia di storie di persone costrette a fuggire dalle loro case a causa dei cambiamenti climatici e delle guerre, ci siamo resi conto che i rifugiati non sono in grado di fare cose eroiche, come fanno gli eroi di un poema epico. Al contrario, possono solo reagire alla situazione in modo dinamico, per cercare di sopravvivere e continuare la loro corsa”. Forse però è proprio in questa loro capacità di resistenza e di reazione che essi si impongono come i nuovi eroi del terzo millennio. Probabilmente non funzionerebbero come protagonisti di un’epopea classica, ma come icone del nostro folle mondo suscitano in pari misura rabbia e compassione. Due sentimenti immensi. Da cui ripartire.
GIULIA RANDONE | Se molti eventi culturali ostentano una vocazione all’intreccio tra culture e espressioni artistiche differenti per schiudere prospettive inedite sulla realtà, Incanti, rassegna internazionale di teatro di figura curata dalla compagnia Controluce Teatro d’Ombre, tiene fede all’intento, offrendo anche quest’anno un distillato di proposte fuori dall’ordinario. Tra queste, nel calendario della XXI edizione (Torino, 4-11 ottobre) spicca Les Chants de la Mi-Mort, opera ambiziosa e programmaticamente meticcia prodotta insieme al Festival Scatola Sonora.
Nati dalla mente di Alberto Savinio (pseudonimo di Andrea De Chirico), Les Chants de la Mi-Mort rispondono alla volontà di creare un’opera d’arte totale, che incorpori musica, scrittura e pittura. L’autore ha all’epoca ventitré anni e la convinzione che un uomo nuovo possa nascere solo a patto di voltare le spalle al secolo precedente, dominato dalla triade Dio-patria-famiglia e dal mito del Risorgimento. Cent’anni dopo, il regista Luca Valentino ricompone I canti della mezza morte inventando scene e costumi (i disegni d’autore sono andati perduti) e riunendo un gruppo di giovani interpreti che hanno oggi l’età che aveva allora Savinio. Lo spettacolo, ospitato alla Casa Teatro Ragazzi, è preceduto da un’introduzione del regista, che presenta la figura poliedrica di Savinio, la nascita dell’opera nel contesto delle avanguardie parigine e i suoi debiti nei confronti di Nietzsche e di Così parlò Zarathustra. Ci mette inoltre in guardia dal cercare un nesso logico tra la drammaturgia e la musica, che vanno fruite in maniera indipendente. L’insolita premessa si rivela preziosa perché offre qualche appiglio allo spettatore, che altrimenti si perderebbe tra sonorità volutamente dissonanti, monologhi visionari e composizioni di immagini aperte alle più eterogenee interpretazioni.
Sullo sfondo, gli ombristi creano un collage raffinato e suggestivo: uova colorate, forse in procinto di schiudersi, creature fantastiche, ritagli anatomici che incorniciano cuori rossi e giochi infantili, cedono progressivamente il passo a congegni meccanici, ruote dentate, navi e, infine, a un treno carico di soldati in partenza per la guerra mondiale. Macchine e uomini verso la morte. Al centro, domina la scena una torre di cartone a tre piani, attorno alla quale si consumano l’uccisione di un ragno, schiacciato dalla pantofola di una bambina, e l’omicidio di una creatura ibrida, incrocio di uomo e animale, assassinata da un suo simile. Morti “definitive” che contrastano con l’eventualità misteriosa della “mezza morte” evocata da una figura biancovestita (Paola Roman) rinchiusa nella costruzione. Sarebbe improprio definirla un personaggio, è piuttosto una voce recitante, l’unica, ed erompe da un corpo senza volto. La maschera indossata dall’inquietante narratore ricopre anche il viso delle figure nere e mute che percorrono il palco in configurazioni sempre diverse. Talvolta esseri umani reificati – pezzi di un ingranaggio primitivo o uomini-bersaglio, figli dell’Ubu di Jarry –, talvolta abili manipolatori di oggetti e pupazzi.
Accanto a questa realtà assemblata in concrezioni stranianti, abitata da personaggi senza un compito preciso o impegnati in azioni isolate e sospese nel tempo, scorre una suite per pianoforte irrequieta, talvolta disarmonica, accompagnata da canti, grida e citazioni ironiche dell’inno nazionale. I cantanti e musicisti del Conservatorio di Alessandria, in abiti da concerto, occupano il lato sinistro del palco e interagiscono con ciò che avviene sulla scena seguendo una partitura autonoma ma animata da un’analoga tensione verso le regioni del male, della morte e del mistero.
Tutti gli artisti coinvolti nel progetto meritano un plauso per il coraggio con cui hanno affrontato un materiale così ostico e scoraggiante (lo stesso autore non volle lasciare indicazioni che favorissero l’interpretazione). Chi tra il pubblico aveva familiarità con l’opera di Savinio, ha ammirato la sensibilità e la cura con cui l’ensemble, coordinato da “saviniani” di lungo corso come Valentino e Alberto Jona, ha ricreato il suo mondo surreale e metafisico. Chi invece non la conosceva, ha potuto apprezzare soprattutto le scene di cui, anche grazie alla spiegazione, ha colto il richiamo parodico: a distanza di qualche giorno, le parole del lungo monologo sono evaporate, mentre affiorano alla memoria i percorsi sonori e le immagini di un re Vittorio Emanuele a cavallo che volteggia nell’aria come impazzito o di angeli paracadutisti che vengono abbattuti a colpi di girasole.
Immergendosi nel tessuto straniante dei Canti, Valentino avrebbe potuto lasciare affiorare con maggiore audacia il registro umoristico, che in Savinio non è burla dissacrante ma accesso al reale e presa di coscienza del mistero. In questo modo il gioco anarchico di musica, parola e immagine avrebbe raggiunto l’effetto, auspicato da Savinio, di spiazzare e divertire lo spettatore e, magari, avrebbe anche ispirato al regista una chiave per inglobare la premessa nello spettacolo, trasformandola in un innesto stralunato. Si sarebbe così evitata l’impressione di una restituzione a tratti seriosa e un po’ didattica del genio saviniano.
SILVIA TORANI | Più di due secoli di storia dell’arte sembravano aver smantellato per sempre ogni retaggio di canone estetico. Il brutto, il grottesco, il cattivo gusto sono entrati nelle gallerie e nei musei. Se un orinatoio può essere capovolto e trasformato in fontana, tutto è ugualmente degno di essere rappresentato, tutto può accedere alla condizione artistica ed essere considerato bello. La danza ha solo tardato ad adeguarsi. Come arte preminentemente corporea sembrava opporre una resistenza maggiore all’estetica del brutto: per tradizione classica il corpo umano restava infatti l’esempio più alto di perfezione e bellezza.
Ma l’arte non ci ha liberato dal peso dei modelli: la bellezza in quanto categoria estetica è sopravvissuta. Non l’hanno uccisa Duchamp, Picasso, Schiele e Dalì. Ma non ci sono riusciti nemmeno David Bowie e Lady Gaga. La prima parola che ci viene in mente per definire qualcosa che ci ha colpito è ancora “bello”. Semplicemente, questo grande contenitore semantico si è allargato a contenere nuovi spazi.
Frédérick Gravel sembra ricordarci che siamo ancora lontani dall’aver liquidato il Bello. Il coreografo canadese approda in Italia presentando al Romaeuropa Festival il suo Usually Beauty Fails, uno spettacolo che mette in scena la difficoltà del contatto in un mondo di simulacri e ingombranti canoni normativi. Il movimento si frantuma, si riavvolge come in una danza a marcia indietro. Il corpo perde la propria spontaneità: una volta gettato in pasto al pubblico non sa bene come comportarsi, se non recuperando gesti appresi, copiati e stratificati. L’esibizione è fisica, carnale. Il danzatore dimostra vulnerabilità e imbarazzo esponendo la propria pelle.
Si tratta di una riflessione sul lavoro sotterraneo del corpo che ha molto in comune con Dolce vita di Virgilio Sieni. Anche qui il palco è spoglio e la scenografia assente; anche qui il cambio d’abito e tutto ciò che dovrebbe avvenire dietro le quinte resta invece sulla scena; ma lo spazio della bottega fiorentina cede il passo a quello del concerto rock, costruito da potenti fari che ritagliano sagome in controluce.
Gli episodi di uno spettacolo fortemente bipartito sono scanditi dagli interventi ironici di Gravel, che si impossessa del microfono come il leader di una band per accompagnare gli spettatori nel mondo segreto del backstage. La musica è prodotta dal vivo con chitarre, strumenti elettronici e perfino un’armonica a bocca à la Bob Dylan. L’estetica è cinematografica, postmoderna e pop: soprattutto nella prima parte si ha l’impressione di assistere a un film in cui sfide coreografiche si alternano a momenti di patinata poesia adolescenziale, mentre il nucleo tematico fondamentale si presenta con chiarezza a tratti ridondante soprattutto nella scena del party che domina la seconda parte.
Una festa smette di essere occasione di incontro sociale per diventare emblema dalla mancanza assoluta di spontaneità. La danza a due sembra cominciare naturalmente, ma i corpi iniziano a farsi distanti, a interrogarsi sul proprio movimento, a farsi sempre più artificiali e retorici. L’ansia di conformazione a un modello emerge dai dedali dell’inconscio e ci controlla. E la danza si mostra per quello che è sempre stata; la bellezza si mostra finalmente per quello che è: un codice culturalmente condiviso.
La bellezza è ancora ovunque: affolla le riviste, le vetrine e gli schermi. Pervade le nostre menti e i nostri discorsi, cattura i nostri sguardi, ossessiona i nostri specchi. La bellezza fa vendere, fa andare a teatro o al cinema. La bellezza proclama chi vince e chi perde. Eppure “la bellezza di solito fallisce”. Fallisce nella sua stessa definizione, perché nessun giudizio estetico è assolutamente libero. E perciò non può che rimanere tale.
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