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sabato, Luglio 27, 2024
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Tindaro Granata: bomba o non bomba?

tindaro granata antropolaroidELENA SCOLARI e RENZO FRANCABANDERA | Partirono in due ed erano abbastanza. Antropolaroid di Tindaro Granata al Sala Fontana a Milano. L’anno scorso all’Elfo successone. E anche qui la sala è piena per uno spettacolo di narrazione di una classicità cristallina. Lui, due fari, un lenzuolo,la sedia. Un trentenne e poco più di talento, che racconta attraverso la storia di una famiglia proletaria, la sua, le vicende della Sicilia da fine ottocento ai giorni nostri. Lunghi applausi, alla fine.

Lui: allora?
Lei: così così. Per me la granata non è esplosa.
Lui: come così così? Come non è esplosa? Eccola, la solita che c’ha da dire. Sentiamo…
Lei: titolo del genere che non se ne può più. La cosa peggiore era una claque assurda che ha riso sguaiatamente e continuamente a sproposito, che mi ha molto infastidito e anche assai disturbato la visione.
Lui: ma perchè? Dai Antropolaroid è un po’ vintage ma non è brutto. Resta impresso, e poi scusa ma mi pare che questo tuo inizio di riflessione nulla abbia a che vedere con uno spettacolo che invece è riuscito a zittire un numero di studenti portati qui dall’insegnante dem di turno, e che però dopo la raffica di “shhh!” iniziale , tipica dell’adolescenza, sono rimasti inchiodati da una narrazione viva, sincera. Si, tradizionale, ma in fondo ben recitata. Con ritmo. Non puoi negare. Dai dimmi due parole concrete.
Lei: in sintesi penso che lui sia bravino, ma non da segnalare per questo, quello che mi è piaciuto di più è la drammaturgia, un incastro secondo me ben studiato, abbastanza complesso. però fa troppo il verso quando interpreta i personaggi, viene da dirgli “Tindaro: anche meno”
Lui: beh, sempre diminutivi, diminutivi. La drammaturgia è un incastro di storie quasi manzoniane prima e via via di letterarietà novecentesca, fino a dialogare con onirici approdi di teatro contemporaneo. E’ diacronico non solo nella storia ma anche nel percorso che fa nel letterario con cui per tutta la drammaturgia dialoga. Lui è bravo. I bravini non tengono tutti zitti per un’ora e più a sentire pezzi interi in siciliano stretto, recitato con l’aiuto di una maglia che diventa manta della nonna, giacca del nonno e bandiera al vento. A Cesare quel che gli è dovuto. Se proprio vuoi criticare sposta il fuoco altrove…
Lei: si, beh, per me ha fatto delle pessime scelte musicali, pessime, banali e nazionalpopolari nel senso peggiore, e deve licenziare il fonico. Idee sceniche non ce ne sono quasi, anzi, l’unica è piuttosto trita (Libiamo nei lieti calici mentre lui se ne va in giro ondeggiando col lenzuolo durante una festa da ballo…)
Lui: si, beh (le fa un po’ il verso, ndr), se uno fa uno spettacolo stile Baliani, nu faro e na seggiulilla, che idee sceniche vuoi che abbia. Anzi è proprio la povertà di scena a far esaltare la parola. Non so, io esco contento da uno spettacolo onesto, che non vuole ammiccare, recitato con passione, non artefatto, e senza furbizie da analfabeti di teatro allo sbaraglio. E’ uno spettacolo che rimane invece fresco ed avvincente, una melagrana spaccata sul tavolo ad ognissanti.
Lei: rimane una buona storia, alcuni momenti belli, quelli più teatralmente spogli, una saga familiare tragica e simbolica e un bel finale. da lasciar respirare di più, però.
Lui: che donna razionale. Sul respiro sono d’accordo. Un po’ meno, si, non era necessario dire proprio tutto tutto, e quell’onirico finale, della nonna che biascica un futuro impossibile, è un passaggio bello che poteva essere strada anche per altri momenti dello spettacolo. Ma il ragazzo ha tempo per crescere. A inizio anno il nuovo spettacolo al Teatro dell’Elfo. Si va? Però vieni tranquillina eh… Ah, senti, bravina, mi devi una cena o sbaglio? Non ci portiamo troppo avanti con la promessa, che poi ce la scordiamo. Io mi butterei qui in una trattoria zona Isola. Bomba o non bomba.

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Le ossessioni di un artista visionario: Jan Fabre fra scena e arte

fabreLAURA NOVELLI – CARLA RUSSO | Quest’anno il Romaeuropa Festival ha dedicato una ricca retrospettiva all’artista belga Jan Fabre. Scopo dell’iniziativa: verificare l’attualità di quelle ossessioni – il corpo, il tempo, l’eros, la morte, la religione – e di quella visionarietà che hanno rappresentato i perni centrali del suo lavoro. Intervistato di recente a Napoli in occasione della presentazione dell’edizione italiana del suo volume Giornale Notturno (1978-1984), curato dal prof. Franco Paris, l’artista esplicita i cardini della sua poetica e della sua ricerca artistica. Le sue opere inscenano sempre il conflitto, come nel modello della tragedia greca, presente attraverso l’alternarsi di dualismi: attore/danzatore, angelo/diavolo, uomo/donna. Conflitto che necessita di un “corpo disciplinato” per giungere alla performance, come avveniva per Fred Astaire. “Mi chiedevo se i suoi movimenti fossero naturali, invece studiava molto”, ammette Fabre, “l’agilità di Fred Astaire viene repressa dalla disciplina, ma è proprio in quel momento che scaturisce una forza, una resistenza”. Corpo politico, carnale, erotico, palpabile, è forte il richiamo alla tradizione fiamminga, basti pensare a Rubens, Van Dick, Van Eyck, Bosch e Rembrandt. Come spesso accade nell’arte contemporanea,anche per Jan Fabre il corpo si rivela come involucro vuoto che ha cercato di riempire, ad esempio, con le figure-spaventapasseri di Universal Copyrights (1995)Image, ma anche di segnarlo ispirandosi alla figura del Cristo (corpo stigmatizzato) e alla corazza degli animali (tartarughe, insetti,…) affinché il corpo non potesse essere più ferito. E’ da qui che parte l’idea di un nuovo performer, il performer del XXI secolo, consapevole, danzatore e attore insieme, capace di passare dall’act all’acting. Oggi l’attore non è più “spinto da necessità” come lo erano gli attori negli anni ’80 – dichiara ancora Fabre – ha minore passione a fronte, tuttavia, di una maggiore consapevolezza, di un maggiore controllo. Nella sua ricerca, Fabre è attualmente affiancato da un team di scienziati dell’Università di Anversa, dal sociobiologo ed entomologo americano Edward O. Wilson e dallo scienziato italiano Giacomo Rizzolati, che compiono studi sull’empatia attore-pubblico e sui neuroni specchio, nel tentativo di capire cosa accada ad un performer sottoposto a determinati stimoli. Dopo grandi maestri come Grotowski, Brook, Barba, Fabre si è prefissato di compiere il suo personale studio sull’attore supportato da un metodo scientifico. Barbara de Coninck, sua collaboratrice, spiega come la poetica di Jan Fabre sia permeata del medesimo terrore di fronte al mistero della morte e alla legge della continuità della vita presente nei testi ottocenteschi di un altro Fabre, suo bisnonno che di nome faceva Jean-Casimire, studioso d’insetti. Jan Fabre risponde a questo terrore attraverso il corpo, problema e soluzione alle sue domande, sublimato attraverso la metamorfosi. Tutta l’arte di Fabre è un’operazione di esorcismo, per lui la morte non è spettacolare, bensì un avvenimento la cui accettazione permette l’esaltazione della vita.
Non vanno lette perciò come due costole indipendenti le performances presentate all’Eliseo nelle settimane scorse (“The power of theatrical madness” e “This is theatre like it was to be expected and foreseen”) e la mostra “Stigmata. Actions and performances 1976-2013”, in programma al MAXXI fino a metà febbraio. Esse sono, bensì, aspetti imprescindibili di una creatività mai paga di provare nuove strade, nuove provocazioni, nuovi incubi. Ottocento le opere dislocate nel primo piano del moderno museo romano: un materiale sfrenato che mette insieme disegni, foto, installazioni, video, statue, corazze, oggetti, arnesi e citazioni autobiografiche capaci di raccontare un animo in conflitto con la vita, con il reale e con l’atto creativo stesso. Principale bersaglio: il corpo. Un corpo martoriato, trasfigurato, svuotato dei suoi umori, esposto a torture e prove di resistenza (basti citare la performance in cui Fabre si dimena per cinque ore dentro una corazza di ferro). Un corpo-sangue in cerca di atti estremi di “per-for-azione”, ma in cerca soprattutto di un senso e di una bellezza impossibili senza lotta, pericolo, uscita da sé. “Voglio scrutarmi con una lente d’ingrandimento – scrive l’artista – dentro e fuori dal corpo. E dare nuovo senso all’arte della performance. Sopportare!”.
Ed è proprio questa ossessione “scientifica” a rappresentare uno degli aspetti più moderni del percorso artistico di Fabre. Tra i numerosi pezzi in mostra ci ha colpito un video in cui egli dialoga con Edward O.Wilson (studioso di insetti e vincitore di un Premio Pulitzer per la divulgazione scientifica) ponendosi e ponendoci una domanda emblematica: la visionarietà di uno scienziato funziona esattamente come quella di un artista?
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=g7ucz9CYATU&w=210&h=160] Nel primo quadro gli interpreti siedono con le spalle al pubblico (dunque, sono il pubblico?): l’atmosfera è compassata, cupa, indefinita. Poi, a poco a poco, sul palcoscenico scorre l’intero mondo fabriano: l’eros scaduto a voyeurismo, la parola afasica, il corpo guerriero, la fatica di spogliarsi e rivestirsi per ore, l’immagine degli attori immortala da riprese in Superotto, oggetti e corpi appesi a dei ganci di macelleria, il refrain di battute assurte a leitmotiv poliglotta, l’ossessione per la morte. Lo scenario complessivo è inquietante. E insieme distante.
Durante lo otto ore, cediamo, usciamo, rientriamo. C’è chi sgranocchia qualcosa, chi gioca a Ruzzle, chi manda sms dal cellulare. La visione dunque non obbliga alla concentrazione, all’empatia. Al contrario, distanzia. Capiamo che c’è un mondo alla rovina. C’è una vita che si allunga nella morte. C’è un niente che ci attanaglia e ci toglie il futuro. E però qualcosa non regge. Qualcosa appunto ci allontana. Certamente, il titolo suona profetico se solo pensiamo a quanto teatro successivo all’82 sia stato (è o vorrebbe essere) postdrammatico, associativo, antimimetico. Ma rimane il fatto che preferiamo il Fabre del “Prometheus Landscape II”. Preferiamo la compattezza di una regia che si arrovella su un tema specifico. Anche quel lavoro era trasbordante di sovversioni: il destino eroico eschileo veniva capovolto in una desolata anarchia di certezze. Ma si usciva dalla sala “pensosi”. Memori di quel martellante monito/quesito al quale chissà quanti di noi possono rispondere con placida immediatezza: “Who is our hero?”.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=3YyQ-HtxTH0&w=420&h=315]

Chehere &C.: fra arte e media residenzialità non fa rima con identità

Chehere_CinemaGIULIA INDORATO | Secondo il diritto italiano, ogni persona deve dichiarare la sua residenza: una, sola e indivisibile. Non importa dove, perché o per cosa: l’importante è dichiararlo. Congiuntamente allo stato di residenza, procedono negli anni i mutamenti di stati civili e in taluni casi cifre da capogiro. Basterebbe ricordare i coniugi Trump: la famosa Ivana, lasciata dopo quindici anni di matrimonio (i riferimenti a storiacce extraconiugali si sprecano) chiede milioni di dollari e proprietà. Cornuta sì, ma con immobili al seguito (come le lumache).

C’è chi decide di rimanere chiuso in Casa, sotto l’occhio di attente telecamere ed accorte strategie di marketing (che osano citare senza pudicizia l’opera di G. Orwell). Mobilio lussuoso, cerbiatti a primavera svoltando ogni angolo, fiumi di lacrime, scherzoni, cameratismo, omicidi tentati e sventati, amori usa e getta, tette, culi e indice Auditel alle stelle (nelle prime edizioni). Da quella Casa nessuno vuole uscire.

Poi c’è chi decide volontariamente di spostarsi, ma non volendo legami identitari con l’ambiente, rimane impantanato tra la modulistica sanitaria e quella comunale. Persevera il richiamo alla lumaca. Essere invertebrato che lascia una scia di muco al suo passaggio. E’ dotata di due tipi di corna (antenne con occhi alle estremità e tentacoli sensoriali) e causa grossi danni ai vegetali in coltura. Non si muove in branco. La lumaca ha la sua casa sul groppone, edificio fai da te non Ikea, garanzia di protezione dal mondo esterno. Potrebbe essere considerata parente dell’essere umano, che lascia il segno del suo passaggio con vari mezzi (costruzioni, deviazioni, gallerie, immondizie) e distrugge luoghi in cui si insedia. L’essere bipede ha momenti di vita sociale, necessità di condivisione, ma è fondamentalmente solo. Dettaglio non trascurabile: niente casa a portata di gobba.

Ha forse centrato il punto della questione con le sue Flying Houses l’artista francese Laurent Chehere. Vecchie case volanti, amovibili, in cui tenere affetti, affanni e affettati. Strutture che spostandosi non scalfiscono l’IO territoriale degli inquilini. Niente contatto con il contorto territorio e le sue regole, bypassare confini e poteri. Nessuna legge da rispettare, mobilità totale. Il dittatore orwelliano è presente anche qui, sotto forma di graffito sulla facciata della Red Balloon, ma non fa paura e appare un gradito tributo.
L’Arte ha la risposta agli interrogativi dell’anima (e del codice civile) oppure la residenza non esiste? Forse è solo un appellativo che si dà ad un’idea astratta, un posto a cui piace pensare nei momenti di umana tristezza, a cui guardare pensando che l’attuale spiacevole realtà è solo passeggera e la serenità ci aspetta sempre lì (a “casa”). In questi giorni di infinita compilazione moduli e di attese allo sportello anagrafe, mi assalgono dubbi e montano turbe. Sognando cieli pieni di edifici, la realtà mi sbatte in faccia un grande interrogativo: “Signorina é sicura di voler sposare la residenza?”

Chehere &C.: fra arte e media residenzialità non fa rima con identità

Chehere_CinemaGIULIA INDORATO | Secondo il diritto italiano, ogni persona deve dichiarare la sua residenza: una, sola e indivisibile. Non importa dove, perché o per cosa: l’importante è dichiararlo. Congiuntamente allo stato di residenza, procedono negli anni i mutamenti di stati civili e in taluni casi cifre da capogiro. Basterebbe ricordare i coniugi Trump: la famosa Ivana, lasciata dopo quindici anni di matrimonio (i riferimenti a storiacce extraconiugali si sprecano) chiede milioni di dollari e proprietà. Cornuta sì, ma con immobili al seguito (come le lumache).

C’è chi decide di rimanere chiuso in Casa, sotto l’occhio di attente telecamere ed accorte strategie di marketing (che osano citare senza pudicizia l’opera di G. Orwell). Mobilio lussuoso, cerbiatti a primavera svoltando ogni angolo, fiumi di lacrime, scherzoni, cameratismo, omicidi tentati e sventati, amori usa e getta, tette, culi e indice Auditel alle stelle (nelle prime edizioni). Da quella Casa nessuno vuole uscire.

Poi c’è chi decide volontariamente di spostarsi, ma non volendo legami identitari con l’ambiente, rimane impantanato tra la modulistica sanitaria e quella comunale. Persevera il richiamo alla lumaca. Essere invertebrato che lascia una scia di muco al suo passaggio. E’ dotata di due tipi di corna (antenne con occhi alle estremità e tentacoli sensoriali) e causa grossi danni ai vegetali in coltura. Non si muove in branco. La lumaca ha la sua casa sul groppone, edificio fai da te non Ikea, garanzia di protezione dal mondo esterno. Potrebbe essere considerata parente dell’essere umano, che lascia il segno del suo passaggio con vari mezzi (costruzioni, deviazioni, gallerie, immondizie) e distrugge luoghi in cui si insedia. L’essere bipede ha momenti di vita sociale, necessità di condivisione, ma è fondamentalmente solo. Dettaglio non trascurabile: niente casa a portata di gobba.

Ha forse centrato il punto della questione con le sue Flying Houses l’artista francese Laurent Chehere. Vecchie case volanti, amovibili, in cui tenere affetti, affanni e affettati. Strutture che spostandosi non scalfiscono l’IO territoriale degli inquilini. Niente contatto con il contorto territorio e le sue regole, bypassare confini e poteri. Nessuna legge da rispettare, mobilità totale. Il dittatore orwelliano è presente anche qui, sotto forma di graffito sulla facciata della Red Balloon, ma non fa paura e appare un gradito tributo.
L’Arte ha la risposta agli interrogativi dell’anima (e del codice civile) oppure la residenza non esiste? Forse è solo un appellativo che si dà ad un’idea astratta, un posto a cui piace pensare nei momenti di umana tristezza, a cui guardare pensando che l’attuale spiacevole realtà è solo passeggera e la serenità ci aspetta sempre lì (a “casa”). In questi giorni di infinita compilazione moduli e di attese allo sportello anagrafe, mi assalgono dubbi e montano turbe. Sognando cieli pieni di edifici, la realtà mi sbatte in faccia un grande interrogativo: “Signorina é sicura di voler sposare la residenza?”

Parola e Potere: ovvero del Frost/Nixon all’Elfo e non solo

frost nixon 1
foto laila pozzo / nep-photo

RENZO FRANCABANDERA | Ci sono momenti della Storia di cui l’arte fornisce traduzione in maniera difforme, ma che vengono ricondotti visibilmente a filoni di indagine comuni.

E’ così che in un lasso di tempo relativamente breve, parliamo di mesi, arrivano sui palcoscenici italiani proposte volte ad indagare il filone non del potere in generale, ma del rapporto fra parola e potere, tali da restituire un corpus di approfondimento davvero interessante.
Pensiamo in primis allo spettacolo che muove questa riflessione, ovvero il riuscito e brillante Frost/Nixon, in scena in questi giorni all’Elfo di Milano, ma anche al lavoro di Fanny&Alexander arrivato al secondo capitolo e iniziato l’anno scorso con Discorso Grigio, una riflessione proprio sulla deframmentazione della mimica e della parola nel suo rapporto con il potere, la finzione, la realtà.
Sul rapporto invece di forza e su come la parola sia in grado di incorporarlo, non possono non venir menzionati due spettacoli ispirati allo stesso testo, “Le Benevole” di Jonathan Littell, e che sono il Die Wohlgesinnten di Latella e il Lingua Imperii di Anagoor. Spettacoli questi usciti negli ultimi mesi e che portano lo spettatore ad addentrarsi in una materia che è ricchissima.
Ma andiamo a Frost/Nixon, co-produzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile dell’Umbria, inserita nel programma di Autunno Americano del Comune di Milano, spettacolo particolarmente accessibile e costruito ispirandosi a due principi che sempre, a mio avviso, occorrerebbe cercare in un esito scenico, ovvero il principio di accessibilità e il principio di semplicità/necessità.
Quanto al primo, Frost/Nixon, nella riproposizione pressochè integrale della drammaturgia di Peter Morgan scritta nel 2006, che ebbe immediata versione cinematografica da parte di mani-d’oro-Ron-Howard, il principio trova pieno rispetto in un meccanismo drammaturgico ad orologeria, brioso, thriller, capace fra rewind e fast forward temporali e spaziali di creare tessere fattuali che vanno ad incastrarsi perfettamente nel mosaico narrativo. La storia è davvero semplice, di una non casuale maschile dominanza di figure (unica donna Claudia Coli), e racconta di fatto di come l’anchorman Frost (Ferdinando Bruni) all’apice del successo televisivo, accetti, dopo le dimissioni, di realizzare una serie di interviste con l’ex presidente Richard Nixon (Elio De Capitani).

foto laila pozzo / nep-photo
foto laila pozzo / nep-photo

Il manager del presidente (Luca Toracca) negozierà una fee altissima per l’esclusiva (precorrendo i tempi); a fianco dell’ex leader azzoppato ci sono uomini d’ordine dell’apparato che hanno ogni interesse a non veder scalfito quanto fatto durante la presidenza (Nicola Stravalaci). Sarà il gruppo di giovani giornalisti e reporter (Alejandro Bruni Ocaña, Andrea Germani, Matteo De Mojana) che con il loro fiuto da segugi riuscirà a trovare le prove necessarie a portare Nixon alla confessione in quell’epica serie di duelli cui è dedicata di fatto la seconda parte dello spettacolo.

In una scena di fatto vuota, eccezion fatta per qualche monitor tv e quattro poltrone in pelle che diventeranno, allineate, interno d’aereo o di automobile e sala di registrazione, le luci di Nando Frigerio, riescono a trasportare lo spettatore in ambienti Seventies davvero evocativi, con pochi giochi d’ombra e un mood californiano da età del surf, a cui si intonano anche i costumi. E qui siamo al principio di semplicità. Questo esito, pur con il grande lavoro che ovviamente mostra di avere alle spalle, è di fatto scenicamente povero, non vuole stupire, come pure avrebbe potuto fare, con effetti speciali inutili.
Ed è proprio qui la sua forza vera. Che poi è la vera grande forza del teatro, ovvero l’attore. Dalla titanica prova di Elio de Capitani, già a suo agio in ruoli analoghi a cinema, a quella di Bruni, capace di beccheggiare fra euforie e depressioni tipiche di quel genere di caratteri, e in generale la prova convincente del gruppo, votati a creare quella solidarietà da giovani segugi da Untouchables e il profilo delle figure di regime.
La cosa più entusiasmante e drammatica, nella visione di Bruni/De Capitani, risulta l’assoluta aderenza del modello di discorso politico tanto agli stilemi oggetto dello studio puntuale di altri studiosi della scena, Fanny&Alexander su tutti in questo caso, quanto alla realtà e alla tragica mimica dei governanti dell’età dei mass media, protagonisti del nostro tempo e cui inevitabilmente il pensiero volge.
Dal Watergate in avanti, fino ai parimenti miserabili “gates” dei giorni nostri, la storia è sempre dei grandi che arrivati all’apice finiscono per palesare le loro miserie in affari di piccolo cabotaggio, losche storie di prostituzione, e quel seguito di figurine di regime che sempre attorniano il potere. E che lo trascinano inevitabilmente a fondo quando è tempo.

Parola e Potere: ovvero del Frost/Nixon all'Elfo e non solo

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foto laila pozzo / nep-photo

RENZO FRANCABANDERA | Ci sono momenti della Storia di cui l’arte fornisce traduzione in maniera difforme, ma che vengono ricondotti visibilmente a filoni di indagine comuni.

E’ così che in un lasso di tempo relativamente breve, parliamo di mesi, arrivano sui palcoscenici italiani proposte volte ad indagare il filone non del potere in generale, ma del rapporto fra parola e potere, tali da restituire un corpus di approfondimento davvero interessante.
Pensiamo in primis allo spettacolo che muove questa riflessione, ovvero il riuscito e brillante Frost/Nixon, in scena in questi giorni all’Elfo di Milano, ma anche al lavoro di Fanny&Alexander arrivato al secondo capitolo e iniziato l’anno scorso con Discorso Grigio, una riflessione proprio sulla deframmentazione della mimica e della parola nel suo rapporto con il potere, la finzione, la realtà.
Sul rapporto invece di forza e su come la parola sia in grado di incorporarlo, non possono non venir menzionati due spettacoli ispirati allo stesso testo, “Le Benevole” di Jonathan Littell, e che sono il Die Wohlgesinnten di Latella e il Lingua Imperii di Anagoor. Spettacoli questi usciti negli ultimi mesi e che portano lo spettatore ad addentrarsi in una materia che è ricchissima.
Ma andiamo a Frost/Nixon, co-produzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile dell’Umbria, inserita nel programma di Autunno Americano del Comune di Milano, spettacolo particolarmente accessibile e costruito ispirandosi a due principi che sempre, a mio avviso, occorrerebbe cercare in un esito scenico, ovvero il principio di accessibilità e il principio di semplicità/necessità.
Quanto al primo, Frost/Nixon, nella riproposizione pressochè integrale della drammaturgia di Peter Morgan scritta nel 2006, che ebbe immediata versione cinematografica da parte di mani-d’oro-Ron-Howard, il principio trova pieno rispetto in un meccanismo drammaturgico ad orologeria, brioso, thriller, capace fra rewind e fast forward temporali e spaziali di creare tessere fattuali che vanno ad incastrarsi perfettamente nel mosaico narrativo. La storia è davvero semplice, di una non casuale maschile dominanza di figure (unica donna Claudia Coli), e racconta di fatto di come l’anchorman Frost (Ferdinando Bruni) all’apice del successo televisivo, accetti, dopo le dimissioni, di realizzare una serie di interviste con l’ex presidente Richard Nixon (Elio De Capitani).

foto laila pozzo / nep-photo
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Il manager del presidente (Luca Toracca) negozierà una fee altissima per l’esclusiva (precorrendo i tempi); a fianco dell’ex leader azzoppato ci sono uomini d’ordine dell’apparato che hanno ogni interesse a non veder scalfito quanto fatto durante la presidenza (Nicola Stravalaci). Sarà il gruppo di giovani giornalisti e reporter (Alejandro Bruni Ocaña, Andrea Germani, Matteo De Mojana) che con il loro fiuto da segugi riuscirà a trovare le prove necessarie a portare Nixon alla confessione in quell’epica serie di duelli cui è dedicata di fatto la seconda parte dello spettacolo.

In una scena di fatto vuota, eccezion fatta per qualche monitor tv e quattro poltrone in pelle che diventeranno, allineate, interno d’aereo o di automobile e sala di registrazione, le luci di Nando Frigerio, riescono a trasportare lo spettatore in ambienti Seventies davvero evocativi, con pochi giochi d’ombra e un mood californiano da età del surf, a cui si intonano anche i costumi. E qui siamo al principio di semplicità. Questo esito, pur con il grande lavoro che ovviamente mostra di avere alle spalle, è di fatto scenicamente povero, non vuole stupire, come pure avrebbe potuto fare, con effetti speciali inutili.
Ed è proprio qui la sua forza vera. Che poi è la vera grande forza del teatro, ovvero l’attore. Dalla titanica prova di Elio de Capitani, già a suo agio in ruoli analoghi a cinema, a quella di Bruni, capace di beccheggiare fra euforie e depressioni tipiche di quel genere di caratteri, e in generale la prova convincente del gruppo, votati a creare quella solidarietà da giovani segugi da Untouchables e il profilo delle figure di regime.
La cosa più entusiasmante e drammatica, nella visione di Bruni/De Capitani, risulta l’assoluta aderenza del modello di discorso politico tanto agli stilemi oggetto dello studio puntuale di altri studiosi della scena, Fanny&Alexander su tutti in questo caso, quanto alla realtà e alla tragica mimica dei governanti dell’età dei mass media, protagonisti del nostro tempo e cui inevitabilmente il pensiero volge.
Dal Watergate in avanti, fino ai parimenti miserabili “gates” dei giorni nostri, la storia è sempre dei grandi che arrivati all’apice finiscono per palesare le loro miserie in affari di piccolo cabotaggio, losche storie di prostituzione, e quel seguito di figurine di regime che sempre attorniano il potere. E che lo trascinano inevitabilmente a fondo quando è tempo.

Dietro il velo nero di Romeo Castellucci

castellucci-four-season-3BRUNA MONACO | L’ultimo capitolo della trilogia di Romeo Castellucci ispirata a Il velo nero del pastore, novella di Nathaniel Hawthorne, è finalmente arrivato in Italia a più d’un anno dal debutto francese al Festival d’Avignon. The four season restaurant inizia nel buio totale. I primi protagonisti sono suoni appena sopportabili, illustrati da didascalie scientifiche: sentiremmo press’a poco quei rumori a trovarci a vagare nello spazio in prossimità di un buco nero, se il nostro orecchio potesse percepire quelle frequenze.

Si alza il telo nero, ennesima rappresentazione del velo del pastore di Hawthorne: simbolo della fuga dall’immagine, filo conduttore della trilogia. Siamo all’interno di una palestra anonima: una spalliera svedese, palle mediche, cassapanche porta attrezzi. Una dopo l’altra, entrano dieci donne, indossano abiti casalinghi da paesane d’altri tempi uguali per tutte, grembiuli e sabot. Una dopo l’altra, respirano forte, si cavano con una mano la lingua di bocca, una forbice nell’altra mano: fra gemiti e sangue lasciano cadere ognuna un brandello di carne. Un cane viene a ripulire il palcoscenico.

La gestualità delle attrici è stilizzata, scandita e lenta fino al parossismo. Come pure la declamazione, a tratti parodica, della tragedia poetica scritta da Hölderlin sul finire del ‘700 e rimasta incompiuta. Si tratta de La morte di Empedocle, in cui si narra dell’infelice destino del filosofo prima amato da uomini e dei, poi d’improvviso ripudiato da tutti. Scambiandosi le corone d’alloro, le interpreti si passano il ruolo di Empedocle. Poi smettono di declamare, e la loro voce arriva dagli altoparlanti.

Quando crediamo che lo spettacolo sia finito, quando le attrici sono uscite una alla volta dal palco con la stessa inesorabile lentezza con cui erano entrate, The four Seasons Restaurant cambia improvvisamente registro. Tolte le attrici, Castellucci diletta lo spettatore con le creazioni scenotecniche che tanto bene gli riescono, anche se sono creazioni già viste, perlopiù. Quindi belle, ma poco incisive.

In The four Seasons Restaurant, come sempre in Castellucci, gli ingredienti utilizzati sono compositi. E come sempre sta allo spettatore rintracciare il senso districandosi fra i linguaggi, i riferimenti e le citazioni esplicite. Ma questa ultima creazione sembra meno riuscita del solito. Sono meno organiche le relazioni fra le parti, a volte un po’ pretestuose; per la prima volta i segni appaiono vuoti, al più calligrafici. Nell’ultima mezz’ora, poi, riprende con rielaborazioni minime interi segmenti de Il velo nero del pastore, seconda parte della trilogia, sicuramente più efficace di The four Seasons Restaurant: i detriti che vorticano sospinti da un vento tumultuoso, il corpo di un cavallo morto svelato dal sipario che arretra. Si può parlare di ripresa del filo del discorso e della necessità di ritesserlo nello spettacolo che chiude la trilogia. Eppure, questo filo, più che aprire nuovi orizzonti, sembra un po’ ripiegarsi su se stesso.

Arte e Tecnologia: la digitalità nell’esperienza museale – il videoreport

console 2VALENTINA SOLINAS | Sembra passata un’eternità da quando nel 2008 a Ercolano è stato inaugurato il Mav, il Museo Archeologico Virtuale o da quando è stata completata la ricostruzione virtuale dell’antica via Flaminia di Roma e della villa di Livia al Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano; nei musei italiani sempre più frequentemente si sta diffondendo l’uso della tecnologia.
Un esempio recente di interazione fra cultura museale e nuova digitalizzazione si trova a Pisa nel Museo Nazionale di San Matteo, che si pone come obiettivo futuro l’utilizzo estensivo delle applicazioni tecnologiche. A fine dicembre del 2012, con la convenzione della Scuola Superiore di Sant’Anna e la collaborazione dell’associazione culturale Mnemosyne, spin off del laboratorio di robotica PERCRO, nella sala della Chiesa della Spina è stato introdotto un supporto video costituito da slide che riassumono cronologicamente la storia della chiesa pisana, mostrando le principali date e le foto d’epoca. L’innovazione più interessante per un museo dedicato all’arte antica si trova nella sala adiacente, che ospita pale e polittici dei pittori tardo gotici e rinascimentali; là è situato il polittico di Santa Caterina D’Alessandria di Simone Martini. L’opera del pittore senese è ritornata al suo posto a maggio del 2013, dopo due anni di restauro, consumati in un’altra sala dello stesso edificio. Per non privare il museo del capolavoro trecentesco si ovviò con una riproduzione digitale dell’opera, in scala 1:1.
L’associazione Mnemosyne realizzò un progetto che per la sua spettacolarità poteva essere considerato un’istallazione di software art: uno schermo con il quale si poteva interagire tramite l’interfaccia grafica di un touch screen, su cui erano organizzate informazioni a più livelli, nozioni storiche e artistiche, notizie sui precedenti restauri, integrate da due video del risanamento che si stava realizzando al museo, con l’aggiunta della sezione dedicata alla diagnostica. La parte più strabiliante era l’opzione pan-zoom sullo schermo che permetteva di visualizzare da vicino un punto scelto nell’opera, offrendo la possibilità di una visualizzazione approfondita e dettagliata, altrimenti impensabile.
Finito il restauro, lo schermo digitale è stato sostituito dal lavoro originale, ma ad affiancare il polittico è rimasto il supporto interattivo con le schede testuali e i video. La console ha un effetto estremamente attrattivo, tanto che il giorno dell’inaugurazione che sanciva il reintegro dell’opera, molti visitatori si sono fermati a comprovare la duttilità del touch.
Dopo aver visto il progetto sul Martini viene quasi da sperare in una totale rivoluzione tecnologica per tutti i musei italiani, in quanto la console che supporta il polittico di Santa Caterina D’Alessandria è un valido aiuto nella diffusione delle notizie storico – artistiche, soprattutto perché l’opera rimane l’attrazione principale.
Per molti addetti ai lavori, e in fondo dal contributo di Benjamin in avanti, il tema per le tecnologie è se il loro utilizzo, nel riprodurre o replicare un’opera d’arte alteri o meno la percezione naturale dell’oggetto, offuscando l’oggetto dell’esperienza museale che è l’esposizione pubblica e in luogo idoneo dell’opere d’arte.
Negli Stati Uniti, sempre a maggio del 2013, ha avuto molta risonanza la rivoluzione digitale del museo di Cleveland di cui l’attrazione principale è la spettacolare Gallery One, una parete multimediale di oltre 12 metri, composta da 10 aree interattive che si differenziano a seconda del target di visitatori (ad esempio ce ne sono due dedicate ai ragazzi) o in base alle preferenze: gli interessati possono scegliere o creare un proprio percorso per visitare le collezioni, scaricare l’itinerario tramite apposite apps, e armati di iPad esplorare il patrimonio artistico del museo. Un caso che ha fatto scalpore e acceso un dibattito intenso.

Nell’attuale panorama museale si corre il rischio che l’intervento creato per incrementare la fruizione dell’oggetto artistico o ideato per divulgarne la conoscenza storica si possa trasformare in un prodotto d’intrattenimento più “interessante” dell’oggetto stesso. É lecito domandarsi quanto realmente siano necessarie certe misure d’intervento; soprattutto nei casi in cui agli occhi dello spettatore si presenta un’esposizione tecnologica (come per Cleveland); dove lo strumento concepito per facilitare l’esplorazione dei beni artistici quasi si sostituisce ad essi.
Per maggiori chiarimenti sulla questione, abbiamo intervistato il direttore del Museo di San Matteo, Dario Matteoni, e la realizzatrice del progetto sul polittico di Simone Martini, Chiara Evangelista, socia e fondatrice dell’associazione culturale Mnemosyne.

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Arte e Tecnologia: la digitalità nell'esperienza museale – il videoreport

console 2VALENTINA SOLINAS | Sembra passata un’eternità da quando nel 2008 a Ercolano è stato inaugurato il Mav, il Museo Archeologico Virtuale o da quando è stata completata la ricostruzione virtuale dell’antica via Flaminia di Roma e della villa di Livia al Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano; nei musei italiani sempre più frequentemente si sta diffondendo l’uso della tecnologia.
Un esempio recente di interazione fra cultura museale e nuova digitalizzazione si trova a Pisa nel Museo Nazionale di San Matteo, che si pone come obiettivo futuro l’utilizzo estensivo delle applicazioni tecnologiche. A fine dicembre del 2012, con la convenzione della Scuola Superiore di Sant’Anna e la collaborazione dell’associazione culturale Mnemosyne, spin off del laboratorio di robotica PERCRO, nella sala della Chiesa della Spina è stato introdotto un supporto video costituito da slide che riassumono cronologicamente la storia della chiesa pisana, mostrando le principali date e le foto d’epoca. L’innovazione più interessante per un museo dedicato all’arte antica si trova nella sala adiacente, che ospita pale e polittici dei pittori tardo gotici e rinascimentali; là è situato il polittico di Santa Caterina D’Alessandria di Simone Martini. L’opera del pittore senese è ritornata al suo posto a maggio del 2013, dopo due anni di restauro, consumati in un’altra sala dello stesso edificio. Per non privare il museo del capolavoro trecentesco si ovviò con una riproduzione digitale dell’opera, in scala 1:1.
L’associazione Mnemosyne realizzò un progetto che per la sua spettacolarità poteva essere considerato un’istallazione di software art: uno schermo con il quale si poteva interagire tramite l’interfaccia grafica di un touch screen, su cui erano organizzate informazioni a più livelli, nozioni storiche e artistiche, notizie sui precedenti restauri, integrate da due video del risanamento che si stava realizzando al museo, con l’aggiunta della sezione dedicata alla diagnostica. La parte più strabiliante era l’opzione pan-zoom sullo schermo che permetteva di visualizzare da vicino un punto scelto nell’opera, offrendo la possibilità di una visualizzazione approfondita e dettagliata, altrimenti impensabile.
Finito il restauro, lo schermo digitale è stato sostituito dal lavoro originale, ma ad affiancare il polittico è rimasto il supporto interattivo con le schede testuali e i video. La console ha un effetto estremamente attrattivo, tanto che il giorno dell’inaugurazione che sanciva il reintegro dell’opera, molti visitatori si sono fermati a comprovare la duttilità del touch.
Dopo aver visto il progetto sul Martini viene quasi da sperare in una totale rivoluzione tecnologica per tutti i musei italiani, in quanto la console che supporta il polittico di Santa Caterina D’Alessandria è un valido aiuto nella diffusione delle notizie storico – artistiche, soprattutto perché l’opera rimane l’attrazione principale.
Per molti addetti ai lavori, e in fondo dal contributo di Benjamin in avanti, il tema per le tecnologie è se il loro utilizzo, nel riprodurre o replicare un’opera d’arte alteri o meno la percezione naturale dell’oggetto, offuscando l’oggetto dell’esperienza museale che è l’esposizione pubblica e in luogo idoneo dell’opere d’arte.
Negli Stati Uniti, sempre a maggio del 2013, ha avuto molta risonanza la rivoluzione digitale del museo di Cleveland di cui l’attrazione principale è la spettacolare Gallery One, una parete multimediale di oltre 12 metri, composta da 10 aree interattive che si differenziano a seconda del target di visitatori (ad esempio ce ne sono due dedicate ai ragazzi) o in base alle preferenze: gli interessati possono scegliere o creare un proprio percorso per visitare le collezioni, scaricare l’itinerario tramite apposite apps, e armati di iPad esplorare il patrimonio artistico del museo. Un caso che ha fatto scalpore e acceso un dibattito intenso.

Nell’attuale panorama museale si corre il rischio che l’intervento creato per incrementare la fruizione dell’oggetto artistico o ideato per divulgarne la conoscenza storica si possa trasformare in un prodotto d’intrattenimento più “interessante” dell’oggetto stesso. É lecito domandarsi quanto realmente siano necessarie certe misure d’intervento; soprattutto nei casi in cui agli occhi dello spettatore si presenta un’esposizione tecnologica (come per Cleveland); dove lo strumento concepito per facilitare l’esplorazione dei beni artistici quasi si sostituisce ad essi.
Per maggiori chiarimenti sulla questione, abbiamo intervistato il direttore del Museo di San Matteo, Dario Matteoni, e la realizzatrice del progetto sul polittico di Simone Martini, Chiara Evangelista, socia e fondatrice dell’associazione culturale Mnemosyne.

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Giovani compagnie tra maratona, gabbiani e sogni nel cassetto

vanaclu

VINCENZO SARDELLI | Fisicità e dinamismo sono i tratti comuni di tre spettacoli di scena a Milano durante il ponte di Ognissanti. Chi non è partito ha potuto apprezzare un teatro di movimento e figura, in fuga dai cliché tradizionali.

A partire da Maratona di New York, soggetto di Edoardo Erba, con Cristian Giammarini e Giorgio Lupano, in programma al Leonardo. E qui è doveroso un cenno a Zuzzurro e Gaspare, che avrebbero dovuto inaugurare la stagione del teatro di piazza Leonardo da Vinci; al dolore per la morte di Andrea Brambilla, clown in impermeabile dalla comicità gentile.

Giammarini e Lupano, registi e interpreti, iniziano sul palco un’ora di corsa. Si allenano di notte per preparare la maratona della Grande Mela. Corrono, corrono. E intanto parlano. Lo straniante brainstorming lambisce ricordi, rimpianti, aneddoti, con una sceneggiatura leggera di disarmante realismo. Il ritmo della corsa varia. Il taglio onirico è accentuato da un mega video che proietta sullo sfondo immagini in bianco e nero di rara bellezza, poi flash di vita vissuta. C’è un che di tridimensionalità, luci lunari e anabbaglianti. Intanto scorre l’originalissimo sound post-rock dei Sigur Rós, lunghe suite mistiche, paesaggi sonori di atmosfere fredde e rarefatte. Ma dove vanno davvero i due amici? Chi taglierà per primo il traguardo: quello dalle ampie falcate che precede, o l’altro che segue con andatura sbilenca? La matassa si dipana con sviluppi surreali. Particolare questa road-story dalle venature introspettive e dai geli cosmici. Lo sforzo fisico si accompagna a una buona capacità recitativa (Giammarini è di scuola ronconiana). Tutto è calibrato e contenuto in un’ora di spettacolo, tempo adeguato anche alla complessità dei temi toccati.

Coraggioso il tentativo della compagnia Vanaclù di «dis-adattare» il Gabbiano di Anton Cechov, riproponendolo in chiave farsesca con il titolo di GabbiaNO (di scena al Tertulliano). Perché Cechov è complesso già di suo, straordinariamente contemporaneo, e non richiede aggiornamenti. In questa storia balneare di amori traditi, successi effimeri e solitudini i personaggi girano a vuoto intorno a un ombrellone e a una piscina gonfiabile che richiama un lago. Afa, noia esistenziale. Tutti dialogano con tutti. Senza comunicare davvero. È la gabbia che Treplev rifiuta. E si spara, sulle note di Tenco. La fitta è eccessiva per chi ama il cantautore genovese, stride con la messinscena leggera. Altre varianti rispetto all’originale: lo scrittore Trigorin, amante dell’attrice Irina, madre di Treplev, nelle mani non ha una lenza ma un videogioco; Sorin, fratello di Irina, è un disabile in carrozzella sin dall’inizio, e passa dalla radio canzoni stile vacanza-impegnata (Mina, Lauzi, Graziani, Martino). Costumi sgargianti, occhialoni da sole, riviste gossip e luci al neon, con l’esilarante trovata di By This River di Brian Eno cantata a cappella, sono il marchio di questo progetto di Woody Neri, regista e attore in scena. Che richiede ulteriore labor limae. La commistione di generi e la scansione delle scene vanno meglio dosate per evitare derive pulp di cui non è chiaro l’esito. Alti e bassi nella recitazione, dove svetta Marta Pizzigallo. Stefania Medri, Massimo Boncompagni, Loris Dogana, Gioia Salvatori, Liliana Laera e Mimmo Padrone completano il cast.

Cresce la compagnia Idiot-Savant, cui la regia di Benedetto Sicca reca un valore aggiunto. Il silenzio dei cassetti (al Teatro di Ringhiera) è una pièce a quadri che mette insieme teatro di figura e d’ombre, con una prova attoriale intensa e generosa di tutti i protagonisti (Pierpaolo d’Alessandro, Paola Michelini, Valentina Picello, Filippo Renda, Matthieux Pastore, Mattia Sartoni, Laura Serena, Simone Tangolo). Anche qui si copre bene il palco, meno bene il vuoto esistenziale. I personaggi hanno identità multiple. L’ipocrisia e il tornaconto sono le regole di base di quest’umanità in disarmo. Pressioni, trame, tresche, senso di precarietà. E lo spiraglio che il bisogno d’autenticità sia soddisfatto, che l’amore vinca. Tanti cassetti. A dar voce a ognuno di essi non solo gli attori, ma gli stessi spettatori, in un territorio dove tutto è possibile. Luci da piano-bar, musiche stranianti registrate alla viola in una grotta da Chiara Mallozzi. E un lenzuolo che diventa sipario, schermo, alcova, pavimento. E scandisce le scene fino a volare via sulle nostre teste, sulle ombre dell’anima. E scopre un cenno di danza tra due innamorati. Sulle foglie secche, citazione di Autumn in New York.

Maratona di New York
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