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venerdì, Maggio 9, 2025
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VIE Festival Modena: segnali dall’aldiquà del teatrodanza

Bidefono vie
Disegno Renzo Francabandera

RENZO FRANCABANDERA | E’ un’edizione, quella 2014 di VIE, storico festival che si svolge ogni anno in Emilia sotto la guida di direzione artistica di Emilia Romagna Teatro, che pur non avendo un focus specifico, continua ad attraversare la contemporaneità, cercando di intercettare nuove identità e soggettività nell’ambito dello spettacolo dal vivo.

E queste identità, mai come in quest’ultimo biennio, paiono focalizzare l’attenzione su quello che più la nostra società ha rimosso negli anni, ovvero il rapporto con la malattia, la morte, la crisi dell’individuo. Ma non si pensi a spettacoli struggenti di tono decadente, perché la sensazione mal si coniugherebbe, ad esempio con Au-delà (Aldilà), la coreografia di DeLaVallet Bidiefono, collettivo di danzatori neri che sulle musiche eseguite dal vivo da Morgan Banguissa e Armel Malonga, e con una testualità non meno sonora, recitata roca e a tratti quasi heavy metal da Athaya Mokonzi su testo di Dieudonné Niangouna, andato in scena nel primo week end allo Storchi di Modena. Lo spettacolo nasce a Brazzaville in Congo dove lo stesso Bidiefono racconta di come fare danza in quel luogo lo abbia avvicinato all’esperienza dell’aldilà, dopo giornate intere passate senza mangiare e bere. “Con Au-delà voglio raccontare la storia del mio incontro con la morte, e di come la mia gente l’affrontata. Spero anche di riuscire a raccontare quanto la mia relazione con ‘l’aldilà’ abbia nutrito il mio impegno artistico e politico”. Lo spettacolo mostra un’Africa viva, piena di un’energia quasi mitica, e spesso soggiogata all’idea della morte violenta quasi come retaggio di un colonialismo che a volte come tutte le forme di schiavitù, trova criminali interpreti in loco. Il rapporto fra valore della vita e potere è un altro dei sentimenti che lo spettacolo è capace di indagare con profondità.

Se dal punto di vista coreografico lo spettacolo resta su stilemi già praticati dal contemporaneo, la combinazione con la musica dal vivo e il rapporto con l’energia vitale primordiale offrono, all’interno di un disegno luci (Stéphane ‘Babi’ Aubert) assai sofisticato, ai danzatori Flacie Bassoueka, DeLaVallet Bidiefono, Destin Bidiefono, Ingrid Estarque, Ella Ganga e Nicolas Moumbounou uno spazio d’azione intenso fatto di scene e sequenze composte di testo, movimento, musica. Una musica fatta di sola sezione ritmica, batteria e basso, con qualche ulteriore ingegnoso e suggestivo escamotage sonoro.

Deposizione Sieni Francabandera
Disegno Renzo Francabandera

Un ritmo, un suono e un movimento diversissimo da Crocifissione e Deposizione di Virgilio Sieni, spettacolo-polittico ispirato al Vangelo secondo Matteo da cui sono tratti questi due quadri coreografici, progetto speciale di formazione di Biennale College Danza avviato da Virgilio Sieni nel dicembre 2013, e il cui debutto mondiale è avvenuto a luglio nell’ambito del 9. Festival Internazionale di Danza Contemporanea della Biennale di Venezia, con la regia e coreografia di Virgilio Sieni. Parliamo senza dubbio di una delle sue realizzazioni più alte e poetiche degli ultimi anni, e che si fa forte di quel percorso avviato in tutta Italia di via sociale alla danza.

Da Giuseppe Comuniello, performer già interprete de l’Atlante del bianco, ospite alcuni anni fa proprio qui a Vie, e interprete di Deposizione, allo straordinario gruppo di cantori corali e neo danzatori interpreti di Crocifissione, arriva un’emozione grandissima al pubblico. I venti spettatori ammessi per replica si trovano davvero ai bordi di un’emotività fragile e intensa, come il respiro che i cantori si passano l’un l’altro, gli ultimi di un uomo che si muove lentamente e con sofferenza fra piccoli assi e oggetti di legno. Una danza fragile, che si spegne lentamente.

Crocifissione è realizzato con la partecipazione di quarantatré elementi della Corale G. Saviani di Carpi, che Sieni ha avuto modo di conoscere lo scorso anno in HOME_quattro case, lavoro ideato appositamente per VIE, che danno quest’anno corpo e voce al momento dell’avanzare lento della croce e del condannato al Golgota. Nessuna scenografia e le abituali luci neutre, quasi fredde a cui Sieni ci ha abituato, che portano l’atmosfera in una dimensione di atemporalità e atopicità assoluta. La coreografia rivendica e manifesta la potenza della coralità teatrale, unita alla soavità straziante di un Requiem che viene eseguito sia da una parte dei 43 disposti a coro sullo sfondo che dai circa 20 interpreti dell’azione teatrale. Uomini e donne maturi che compongono e scompongono quadri viventi in movimento di rara icasticità, trascinando gli spettatori verso un Golgota emotivo da cui non si riesce a prendere distanza. Un pezzo di storia del teatrodanza di cui occorre far menzione come uno degli esiti più alti di questo tipo di ricerca scenica.

Coppia aperta, quasi spalancata? Oyes, va tutto bene!

coppiaVINCENZO SARDELLI | Alienazione, crisi dell’io. Senso di vuoto, che ogni tanto diventa vertigine. Acuto bisogno d’amore. Di fondo, una fortissima ironia salvifica. E un umorismo gentile, che è sguardo leggero sulla vita.

La crisi di coppia può essere affrontata in vari modi. Nel confronto paritetico, che magari degenera in conflitto. Oppure nella fuga. Che proprio quando prelude al distacco, offre una chance a umanità e perdono.

Due pièce teatrali, di scena alla Cooperativa e al Tertulliano di Milano, propongono spunti plurimi sull’amore. Storie e generi dissimili. Attori dai percorsi artistici antitetici. Eppure lo spettatore trova il modo di scrutarsi. E riflettere su temi forti.

Vai alla Cooperativa, e capisci che cosa sia la professionalità in questo mestiere. Coppia aperta, quasi spalancata, regia di Renato Sarti, con Alessandra Faiella e Valerio Bongiorno, è uno spettacolo del 1982. Ma gli autori, Franca Rame e Dario Fo, entravano con puntiglio in un rapporto a due sclerotizzato dal maschilismo. Anche dopo le lacerazioni su aborto, divorzio e delitto d’onore, in Italia resisteva una morale ipocrita. L’apertura era intesa in modo unilaterale. Era viatico a un machismo ridicolo. Il mito dell’eterna giovinezza valeva unicamente per il maschio. Che si sentiva autorizzato, lui solo, a tradire.

La regia sobria di Renato Sarti rispetta un testo sferzante, ricco di dialoghi serrati e colpi di scena. Qualche anacronismo attualizza il copione, rendendolo ancora più graffiante. La scena interno casa (di Carlo Sala) attrezzata come una palestra irride il mito odierno della perfetta forma fisica. Gli attrezzi si riempiono di significati simbolici (un manubrio diventa propaggine priapea). Creano movimento scenico.

Sarti, accompagnato alle musiche da Carlo Boccadoro e alle luci da Luca Grimaldi, asseconda la verve comica degli attori. Alessandra Faiella accende l’ilarità con naturalezza disarmante. Padroneggia i tempi della comicità. Non esaspera i toni. L’espressività le appartiene come una cicatrice. Faiella interpreta sfumature variegate dell’animo femminile. Le donne in platea s’identificano con il personaggio. L’incontro rivela persino lati nascosti della loro personalità.

Nel connubio artistico, Valerio Bongiorno ritrova lo smalto migliore. Supera la caratterizzazione bizzosa, esteriore, da commedia dell’arte. Si lascia andare. Dà spessore e complessità al ruolo di marito.

Se l’intelligenza del testo caratterizza Coppia aperta, quasi spalancata, la fantasia scenica è il punto di forza di Va tutto bene, che la compagnia Oyes ha messo in scena allo Spazio Tertulliano.

indexLo spettacolo ideato e diretto da Stefano Cordella (aiutato alla regia da Umberto Terruso, Daniele Crasti e Francesco Meola) tratteggia con delicatezza un’umanità fragile ma mai alla deriva, ossessionata dal bisogno di relazione.

Sullo sfondo di temi universali come la famiglia, l’amore, l’amicizia, il sesso e la morte, emergono figure tragicomiche: Attilio, diciottenne in disarmo alla ricerca di esperienze che lo traghettino tra gli adulti; un giovane amico che gli dà buoni consigli non potendogli dare cattivo esempio; una madre nevrotica, sfatta dai mestieri di casa, sedotta dalla banalità televisiva; un marito assente che la tradisce con Lilly, misterioso angelo biondo (i costumi e le scene sono di Mara De Matteis) motore della vicenda.

Tra balli grotteschi e risa garbate, paradossi, canti eterei e un casto striptease, questo lavoro valorizza le buone abilità recitative di Vanessa Korn, Dario Merlini, Alice Francesca Redini, Umberto Terruso e Fabio Zulli. Le musiche accompagnano i momenti struggenti, intimi e buffi della pièce. La drammaturgia è ironica, mai frivola. C’è catarsi. Forse mancano momenti di genio creativo che facciano esclamare «caspita, non ci avevo mai pensato». Qualche passaggio appare sottotono. Le luci da candelabro di Christian Laface segnano passaggi chiaroscurali tra caldo e freddo. Nascondono però l’espressività facciale, lasciandola irrisolta.

Va riconosciuta, in ogni caso, la capacità di osare di questa compagnia. Che sa mettersi in gioco su temi e generi diversi. Che continua a mescolare i ruoli, e sperimenta. Qualcosa di buono ne esce sempre. Come crescita artistica, ed emozioni da condividere con il pubblico.

L’uomo e le cose: primi passi di Archivio Zeta oltre Archivio Zeta

Archivio Zeta1RENZO FRANCABANDERA | E’ ispirandosi ad un testo abbastanza sconosciuto di Goffredo Parise che Archivio Zeta torna in scena dopo le tradizionali date estive al Cimitero della Futa: una drammaturgia ricavata da due brevi racconti pubblicati nel 1969 e poi totalmente rimossi dalla cultura italiana, mai più ripubblicati e attualmente fuori catalogo.
Invece questi due testi diversi ma prossimi per argomento e concetto sono secondo gli artisti “una meditazione lucidissima sulla barbarie in atto, sulla violenza che regola i rapporti, una diagnosi spietata della nostra tecnocrazia, della nostra discarica morale e materiale”.

Fotografie in formato gigante, alte tre metri e larghe cinque, scattate da Franco Guardascione in una discarica a cielo aperto nel sud Italia delimitano uno spazio quadrato di sette metri per sette. Il pubblico è disposto negli angoli del quadrato. Massimo 20 persone per volta. Seduta al centro di questo spazio geometrico, ridelimitato al suo interno da una pavimentazione di ugual forma in plexiglass lucido, Enrica Sangiovanni si gira su se stessa su di una sedia girevole, mentre Gianluca Guidotti le gira attorno, iniziando un dialogo che ha un che di platonico.

Si parla infatti delle accuse (e ovviamente della difesa) mosse ad un assassino autore di crimini e stragi di massa. Lui l’accusa di strage, lei argomenta in modo paradossale e filosofico, quasi che il cecchino non abbia in animo l’omicidio volontario ma una sorta di malata e totalmente preterintenzionale sfida con il fato. Anzi, la strage sublimerebbe l’intenzione di non scegliere questa o quella vittima, ma di esaltare un compito le cui responsabilità sono esternalizzate spesso in una volontà altrui.

Non casuale dunque il sottotitolo di questo spettacolo, ceneri di logica e morale dal crematorio di Vienna, diretto e interpretato dai due componenti e fondatori di Archivio Zeta in un dialogo che finisce per avvicinarsi ai più famosi paradossi di Zenone che, come scopo, avevano quello di argomentare contro il divenire.

Come nel paradosso della freccia, secondo cui una freccia scoccata dall’arco sarebbe ferma in ciascuno dei luoghi in cui viene a trovarsi, perciò da una somma di stati immobili non si può produrre movimento, così l’etica del cecchino e la casualità nella non scelta delle vittime lo manleverebbe da responsabilità morali, in un susseguirsi di attimi discontinui nell’intervallo fra i quali la morale viene sospesa.
Lo spettacolo fa parte del programma delle Commemorazioni Ufficiali per il settantesimo anniversario degli eccidi di Monte Sole ed è prodotto in collaborazione con la Fondazione Scuola di Pace di Monte Sole-Marzabotto.

La surrealtà dello scambio appare modernissima e interessante. La durata dello spettacolo breve e fulminante. E’ il primo tentativo di Archivio Zeta di andare oltre l’impalcatura di tecnica attorale che finora ha sorretto le creazioni artistiche del duo, per aprirsi ad un mare sicuramente più pericoloso ma dal punto di vista teatrale molto più interessante e fecondo.

Il passo, infatti, vale proprio il riconoscimento di una nuova centralità dell’autore rispetto all’interprete, con quest’ultimo che prova a fare un passo indietro rispetto ad una cifra più “di mestiere” per andare a cercare il suono, il riverbero che è dello specifico drammaturgico. E’ un tentativo dunque centrale per Archivio Zeta, e come tale, in un percorso di crescita dell’intenzione artistica va segnalato come momento fondante e discontinuo. Come tutti i tentativi di cambiamento, ha in sé le tracce di quello che Archivio Zeta è stato finora e quello che può diventare, oltre quanto già fatto.

E’ il vero e grande sforzo di chi fa arte, e per questo L’uomo e le cose, con le sue piccole ma efficaci trovate sceniche, il proiettile come la freccia di Zenone fermo sulla traiettoria fra la pistola del carnefice e il corpo della vittima, merita di essere visto.

Brendulo, il teatro senza paura di Silvia Frasson

Stefania Nanni e Silvia Frasson
Stefania Nanni e Silvia Frasson

MATTEO BRIGHENTI | La rivoluzione è il sacrificio di una vita combattuta con amore. L’unione dà la forza alle parole per diventare frasi: “la terra è di chi la lavora”. E Brendulo, figlio di contadini che non conosce il suo compleanno, è venuto al mondo e ha aperto gli occhi quando l’amico Giulio, figlio di conti, gli ha fatto scoprire i libri. Ma più dell’ignoranza può il timore, giorno e notte, del padrone. È “una triste storia” (e vera) Brendulo – Ovvero il Che Guevara delle colline, monologo di e con Silvia Frasson e le musiche eseguite da Stefania Nanni, andato in scena a Buti (provincia di Pisa) nella bella rassegna “Piccoli fuochi in villa” diretta da Dario Marconcini, vincitore del premio “Nico Garrone” al Radicondoli Festival 2014. Triste, non per questo arresa alla propria tristezza. Silvia Frasson la racconta, infatti, con passione determinata a cambiare il finale. Dei mezzadri di ieri come dei precari di oggi.

Siamo attorno al 1870, nel senese, nel borgo d’origine della stessa Frasson, a Chiusi, arrivata quest’estate alla ribalta della scena artistica nazionale grazie al rinnovato Festival Orizzonti. Vittorio, detto Brendulo per via dei vestiti ‘sbrendoli’, che in toscano significa pressappoco ‘a brandelli’, è un folletto del bosco, un ragazzo che si arrampica sugli alberi per cambiare aria e prospettiva sulle cose. Un contadino rampante. Vive in una Fortezza di proprietà di ricchi conti dove la famiglia lavora a mezzadria. Giulio è rapito dalla destrezza di Brendulo, vorrebbe imparare a salire in alto come lui, agile e svelto, anche se è molto, molto più grasso. I due riconoscono la loro diversità, sociale per l’uno, fisica per l’altro, e ne fanno terreno d’incontro, di uguaglianza. Insieme si arrampicano sull’albero della vita e su quello della conoscenza: Giulio, in cambio della mano tesagli dall’amico, insegna a Brendulo a leggere e a scrivere.
In scena, Silvia Frasson è quell’albero, lo stesso che, molti anni dopo, vedrà Brendulo e Caterina uniti sotto il cielo stellato della prima vittoria sui padroni: ha le radici nella Storia e le fronde nel cielo dell’utopia. Le parole per lei non sono semplice suono, sono muscoli, ossa, giunture di una mimica irresistibile, in concerto continuo con Stefania Nanni che non la perde di vista un attimo e con la sua fisarmonica, discreta e concreta, schizza la scenografia fuori dall’inquadratura del respiro della Frasson, il vento, i pensieri, le cadute.

Nella sala centrale della villa medicea di Buti i nobili se la ridono, perché allora non vedevano più in là del pittore che li ritraeva. Ma il loro tempo stava per finire. Aver allontanato dalla Fortezza l’indisciplinato Brendulo, che ha osato entrare nella biblioteca padronale, non è servito a nulla: una decina di anni dopo lo ritroviamo ventenne a istruire i contadini alla rivolta contro i padroni che li vorrebbero tutti ignoranti come bestie.
Così, il 20 maggio 1901 sono proprio le bestie il centro del primo sciopero. Concentrandosi sui dettagli, sui particolari, per rendere la scena visibile dal di dentro, come se fossimo lì presenti, Frasson racconta la nuvola di polvere alzata da zoccoli e zampe come avvisaglia che quella mattina succederà qualcosa di nuovo. Alla testa di questa fattoria degli animali in marcia c’è Brendulo, che ha dato azione alle idee socialiste del suo nuovo amico, Piero. La notte sarà senza sogni perché la realtà supererà ogni immaginazione: nuovi diritti per i contadini e per Brendulo una futura moglie, Caterina.

Brendulo – Ovvero il Che Guevara delle colline è dunque un alto monologo civile che scuote dal torpore dell’indifferenza. Le parole di Silvia Frasson sono miniere di libertà, sono paesi dove si lascia aperta la porta di casa perché la strada non fa paura, casa e strada conducono entrambe alla ricchezza dell’incontro con l’altro diverso da noi. La realtà, infatti, riprende presto il sopravvento tragico: i diritti non sono acquisiti una volta per tutte, sono un percorso, un processo, una conquista di posizioni. Per questo non si lascia sradicare dall’irruenza e dalla compassione, che talvolta la portano a confondere gli spettatori con i nobili da abbattere, quando invece anche loro sono lavoratori da risvegliare. Frasson resta in piedi fino alla fine, fino a raccontare le sorti di Brendulo “esattamente come andarono” per lottare ancora, lottare sempre. E poter chiamare liberi i figli che avremo e non avremo. La Storia non si può cambiare, il futuro sì.

Il ritmo dell’umanità. Maguy Marin torna a Torinodanza

GIULIA RANDONE | Tre anni fa Maguy Marin ci aveva lasciato con una tavola imbandita e una comica battaglia a colpi di torte in faccia. Così terminava Salves, spigoloso e magnifico affresco dei nostri secoli. Chi ha avuto la fortuna di assistere a quello spettacolo, ritrova in BiT (2014) e Nocturnes (2012), i due lavori della coreografa francese in prima italiana al Festival Torinodanza, richiami sonori e visivi, suggestioni plastiche e la stessa attenzione per le forme assunte dall’essere umano nell’intreccio con i suoi simili. E parlare di forma significa parlare di ritmo, fondamento del lavoro scenico di Maguy Marin, che non a caso presenta la sua ultima opera citando il linguista Emile Benveniste: «Le rythme, c’est la forme, dans l’instant qu’elle est assumée par ce qui est mouvant, mobile, fluide, c’est la forme improvisée, momentanée, modifiable».

Foto di Didier Grappe
Foto di Didier Grappe

In BiT la forma ricorrente, continuamente ripresa e variata, è quella di una danza popolare provenzale, la farandola. Sei figure umane emergono da altrettanti pannelli inclinati, scenografia imponente ed essenziale: tre uomini e tre donne si prendono per mano, oscillano in avanti e indietro e disegnano semplici movimenti con i piedi e le braccia. Questa catena umana riproduce movimenti precisi e convenzionali con lentezza, non conosce ostacoli, traccia diagonali sinuose e si arrampica sui pannelli. Poi si fa prendere dal gioco e aumenta la velocità: la catena è ora un cerchio di mani che tengono il tempo, un lunapark di autoscontri, capriole, salti e giacche di cui liberarsi, per poi ricomporre la fila e riprendere la farandola. A prima vista il movimento ondulatorio appare rassicurante, sembra testimoniare una fratellanza gioiosa; in realtà i danzatori si trasformano in una setta di incappucciati che, con l’accompagnamento di una musica techno, getta a terra un compagno, inscena un compianto e infine abusa della vittima.

Una violenza priva di furia, gelida, meccanica, anticipata da un tableau spaventoso, da girone infernale: dall’alto di un pannello si srotola un tappeto rosso, brulicante di corpi seminudi e intrecciati che scivolano con estrema lentezza fino a rotolare sul pavimento. Qui si accoppiano con spasmi desolati, si scambiano impassibili i partner per poi sparire, arretrando nella penombra. In scena rimangono soltanto due uomini, nudi, con una cintola nera, che si sfidano a quattro zampe, si fronteggiano come animali, avvicinandosi e allontanandosi con i movimenti a scatti degli insetti, finché una creatura non ricaccia nel buio l’altra.

Verso la fine dello spettacolo, anche un uomo e una donna restano isolati sulla scena. La catena umana, arrampicatasi sui pannelli in eleganti abiti da sera, si è spezzata e questa rottura sembra innescare un ulteriore episodio di violenza e prevaricazione sessuale. Come se l’umanità potesse convivere senza soprusi solo assumendo la forma di un festone, perennemente minacciato dal taglio dell’ultima delle tre Parche, che infatti sfilano dietro ai pannelli filando, avvolgendo e recidendo il filo della vita con un secco rumore di forbici.

Se l’ouverture era stata affidata alla voce di Carmelo Bene e ai versi della Divina Commedia, che avevano saturato la scena ancora disabitata del Teatro Carignano, le azioni di questo consorzio umano sono accompagnate da sonorità elettroniche, voci indistinte e distorte, e da un rumore persistente, come di aspirapolvere.

Un suono affine ma più potente riempie il buio di Nocturnes, visto alle Fonderie Limone due giorni dopo BiT. Ricorda un reattore aereo e durante la performance si ha un po’ la sensazione di trovarsi su un aeroplano in fase di decollo, nel tempo sospeso in cui in cabina si spengono le luci e i passeggeri, immersi in quel suono profondo, partecipano allo sforzo della macchina per staccarsi dal suolo e prendere quota. Una tensione verticale che prelude a un apice: quando la resistenza è vinta e la cabina torna a illuminarsi su una situazione ordinaria e tuttavia nuova. Qui, però, nel buio denso di rumore, la tensione del decollo si disperde tra frequenti istantanee di luce, come se i passeggeri giocassero fastidiosamente ad accendere e spegnere la lampadina sul proprio sedile, confinandosi in un eterno rullaggio. Una luce bianca inquadra, per pochi secondi, frammenti di vita quotidiana, apparizioni mute e misteriose, cortesie tra vicini di casa, dialoghi tra persone che parlano lingue differenti, un cumulo di sassi che viene costruito e sempre crolla, uomini e donne che avanzano imprimendo la forma della mano su una lavagna in uno stanzone scuro e disadorno.

Il ritmo è scandito dalla luce, dalla cadenza della lingua francese, italiana, spagnola, tedesca, greca e araba, da un corpo che il buio inghiotte mentre è sul punto di fare qualcosa. I protagonisti – Ulises Alvarez, Kaïs Chouibi, Laura Frigato, Daphné Koutsafti, Mayalen Otondo ed Ennio Sammarco – sono interpreti raffinati. Se in BiT risaltavano come danzatori-attori, qui, in assenza di movimenti danzati, si dimostrano bravi anche a padroneggiare il canto e la parola recitata. Peccato che l’interminabile sequenza di micronarrazioni di Nocturnes, apparentemente non legate da alcun filo logico, spesso ripetute, non incoraggi lo spettatore a operare alcun montaggio personale e, a poco a poco, lo confini in una condizione di annoiata irritazione.

Contemporanea 2014: il bilancio di Edoardo Donatini. La videointervista

introRENZO FRANCABANDERA | E’ passata una settimana dalla fine del festival. Era l’ultima sera e dopo lo spettacolo di Morganti l’organizzazione ha potuto tirare un respiro profondo, come sempre quando si completa un lavoro.

Contemporanea in questi anni ha stretto legami, rinforzato una struttura che negli anni si è consolidata ed ha fatto circuito. E sopratutto ha portato avanti le due direttrici di movimento su cui la direzione artistica da anni ha deciso di muoversi, ovvero il rapporto fra scena e pubblico, una questione quindi eminentemente artistica, e il rapporto fra residenze e sistema teatrale, una questione organizzativa e gestionale di rilevanza nazionale.

E non è un caso che Contemporanea da anni ospiti al suo interno convegni e iniziative volte a mettere attorno al tavolo gli operatori, i responsabili delle residenze, per un confronto che in questi anni, grazie anche a Cresco e al lavoro instancabile di operatori come Edoardo Donatini di Contemporanea, o Fabio Biondi de L’Arboreto, hanno facilitato in questi anni.

La video intervista che segue, una chiacchierata a tutto tondo con Donatini, si occupa proprio di queste cose e fa il punto su un percorso intenso e vivo, condotto da anni con un’applicazione rara e che forse non ha al momento comparabili in Italia.

 

Chi ama brucia. Ortika al Sociale di Gualtieri

Chi-ama-brucia_0061GIULIA MURONI| Potente il monologo ideato e interpretato da Alice Conti. In scena è Croce, crocerossina assunta tramite l’agenzia interinale, a dare vita a un soliloquio a proposito della vita e del lavoro nel Cie, centro di identificazione ed espulsione per stranieri. Le sue parole, impregnate di una crudeltà schietta, titillano inconsapevolmente le viscere del male, indugiando nella descrizione dei detenuti e delle pratiche cui sono sottomessi. Una mezza maschera da boia, indossata da un certo momento in poi, sembra esemplificare con la forza dell’immagine la natura paradossale incarnata dal personaggio: vittima di un sistema malato, di cui non è niente più che una pedina in fondo alla fila, arranca nel tentativo di ritagliarsi un ruolo, divenendo un’aguzzina a metà, fragile ed efferata, oppressa e senza scrupoli.

Ad opera della compagnia Ortika, quarto spettacolo del festival Direction Under 30, lo abbiamo visto presso il Teatro Sociale di Gualtieri (RE), occasione in cui si è aggiudicato il premio della giuria popolare. La tesi in antropologia della regista e attrice Alice Conti ha fornito la documentazione e l’occasione per una lettura nel profondo di quella materia scottante che sono i Cie. Verità inquietanti, a fronte di un’ambiguità sullo statuto legale e la nomenclatura, nascondono realtà atroci: umanità disperate, private di ogni cosa, in bilico perenne tra la salute e la malattia, colpevoli soltanto di essere stranieri in una terra respingente.

Conti, insieme a Chiara Zingariello, ha dato vita a una drammaturgia complessa, stratificata e informata, che non cede alla facile tentazione di polarizzare i personaggi sulla base di una moralità piccolo borghese, ma anzi restituisce con onestà il problema nel suo drammatico avviluppamento alle tensioni sociali e ai rapporti di potere. Spinto da una motivazione forte, lo spettacolo è fortemente animato da un’urgenza e arriva con forza, senza lasciarsi sopraffare dalla tensione comunicativa.

Lungi dall’arrestarsi su un piano di rivendicazione civile, il salto immaginifico avviene anche grazie ad un impianto scenico sapiente, a cura di Alice Colla, che costruisce dei quadri coerenti entro cui Conti si muove freneticamente. Su una lavagna metallica è la piantina del centro, che Croce indica e sul quale dà delle sferzate con una catena. Gli inserti sonori, una voce femminile radiofonica, una canzone natalizia o il suono di un carillon, contribuiscono ad accentuare l’atmosfera parossistica di sottofondo. Frontali e controluci al neon, sui toni accesi del rosso, blu e verde, lampeggiano a più riprese, amplificando lo stato di emergenza che delinea i confini, interni e esterni, di questo lavoro. Sul finale compare Madame Garante, figura archetipica dell’ipocrisia che si cela dietro l’universalismo dei diritti umani, che, con un lungo abito da sera scintillante e una folta chioma platinata, sgambetta fiera al suono degli applausi. Merita l’acclamazione, è anche grazie al suo lavoro di salvaguardia che tali crudeltà scorrono impunite. Una chiusa davvero efficace. La platea si trova ad applaudire il personaggio che appare più riprovevole, quello che si erge a tutela ma che, sotto i luccichii del buonismo e gli strepitii di inutilità, detiene la responsabilità più spietata.

Altofest 2014. Un’Ipotesi di racconto

20141011-011042.jpgSALVATORE MARGIOTTA | Raccontare un evento della portata di Altofest è impresa ardua, cosa per nulla semplice da ricostruire in poche battute. Questioni relative al dono degli spazi privati, alle residenze site-specific che sconfinano nel quotidiano familiare, all’apertura e scoperta di territori quasi inesplorati (non esagero! Lo dico da napoletano che per la prima volta si è trovato in luoghi e spazi cittadini che gli erano sconosciuti), ad una cellula-comunità che performance dopo performance vede allargare il suo raggio d’azione facendo sì che pubblico e artisti trovino sempre un contesto – scoprendosi spesso seduti uno affianco all’altro – all’interno del quale dialogare concretamente, sono motivi di dibattito che meriterebbe più ampio spazio di presentazione e discussione, affrontati – magari – da punti di vista più legati alla sociologia, quando non all’antropologia, ma qui proveremo a raccontarvi Altofest con occhio più specificamente teatrale.
La rassegna organizzata da TeatrInGestazione per il quarto anno consecutivo ha visto susseguirsi – dal 22 al 27 settembre, dalle 11.00 alle 24.00 – in una moltitudine di spazi diversi (case, cantine, terrazze, autorimesse, studi fotografici, etc.) performance eterogenee “giocate” su molti dei registri che caratterizzano il Contemporaneo: dalla danza alle azioni, dal film in digitale a tentazioni sensoriali, passando per il concettuale e il teatro-teatro, frontale, di “parola”.
Tra le performance di matrice fisico-gestuale estremamente interessante ci è parso Body Language. Con l’obiettivo di scoprire come il corpo è in grado di modificarsi in relazione ai diversi contesti environmentali, la coreografa Edan Gorlicki ha presentato un lavoro che trova nell’equilibrio sempre in bilico tra poderoso controllo tecnico dei movimenti – a tratti impercettibili, a tratti vorticosi – e una fragilità intima ed emotiva il punto nodale della partitura drammaturgica. Un solo che nello spazio raccolto di un soggiorno o sterminato di una cava di tufo è in grado allo stesso modo di trasmettere potenza e vulnerabilità.
La programmatica messa in crisi della perfezione tecnica fredda e distaccata è al centro di Un certain Rythme di RIDZcompagnie. Musica electro-progressive, coreografia energica, movimenti a scatti, leitmotiv gestuali permeano il lavoro della compagnia capitanata da Simonne Rizzo. La partitura – frutto di ampi innesti d’improvvisazione – s’incentra da un lato su un senso del ritmo liberatorio e dall’altro sul tema coreografico del “duo” di danzatori che intrecciano i propri movimenti formando e scindendo costantemente la “coppia” staccatasi dal gruppo di quattro. Un’opera contagiosa che ha visto gli interpreti danzare tra il pubblico che occupava lo stesso spazio (casa, cortile, negozio vintage) sfruttato dai danzatori.
Più legati ad un teatro di scrittura dell’immagine è il lavoro di Compagnia Pietribiasi-Tedeschi, Kalsa Compagnia e Opera retablO.
Ispirato all’opera di Julio Cortàzar Bios di Compagnia Pietribiasi-Tedeschi vede lo spazio diviso in due metà distinte, servendosi di una parete separatoria composta da radiografie. Il pubblico posto in ambo le platee assiste a due azioni diverse ma “esistenzialmente” complementari, sorrette da testi recitati da voci off e silhouette che si muovono lentamente.
Me&Me di Kalsa Compagnia è imperniato sul tema drammaturgico “l’altro come emanazione di sé”. L’impianto spettacolare segmenta lo spazio completamente buio attraverso geometriche finestre di luce in cui una coppia di performer-officianti dà vita a una partitura danzata che nella prima parte divide il duo in individualità per poi ricomporlo nella seconda.
Ispirandosi al motivo dell’idolo, declinato sul versante dell’arte massmediaticizzata, Opera retablO nel suo I hate this Job (studio di fatto già molto compiuto) mette in scena lo smontaggio dei meccanismi linguistici della performance visiva. L’amplificazione e moltiplicazione degli elementi iconici è data dall’impiego di diversi supporti tecnologici quali PC, tablet e smartphone che innescano un meccanismo di cortocircuito tra le immagini mostrate e i momenti live, conferendo all’intero lavoro la struttura di labirintico simulacro metariflessivo. La solennità ritualistica di alcuni momenti viene letteralmente incrinata da una ghignante e affilata ironia scarsamente presente, altrove, in opere dello stesso genere.
Phoebe Zeitgeist Teatro è invece la proposta più teatrale di Altofest 2014. La compagnia milanese ha messo in scena in uno degli spazi più suggestivi, una cantina in tufo di un’abitazione, Adulto opera che propone come unicum il montaggio di testi tratti da Pasolini, Morante e Bellezza con la regia di Giuseppe Isgrò. Trait d’union drammaturgico è l’esperienza omosessuale dell’unico personaggio in scena raccontata come in uno stationendrama a tre tappe. Calato in un scena essenziale – composta da poche fila di luci a led, registratori a cassette, oggetti legati al mondo dell’infanzia insabbiati in mucchi di terra strategicamente sistemati – Dario Muratore regala un’interpretazione frenetica, carnale, martellante che ha il pregio di esaltare il cocktail grottesco e tragico del montaggio testuale.

Si chiude qui il nostro racconto parziale sull’ultima edizione di Altofest. Con una certezza: Altofest 2015 – per stessa ammissione degli organizzatori in occasione del simposio conclusivo – è già iniziato.

Virgilio Sieni e il corpo sepolto

Dolce-vita-Virgilio-SieniSILVIA TORANI | Lo spettacolo inizia sommessamente, in sordina, ancor prima che le luci in platea si spengano del tutto, e il pubblico sembra averlo previsto, perché da qualche minuto attende in silenzio. Il palcoscenico del teatro Argentina appare smontato, privato delle quinte, ma ingombro di strani oggetti di scena: cavalletti, pali di legno, coni bianchi di diversa lunghezza; come utensili di una bottega. Lo spazio è reso bidimensionale, schiacciato contro il fondale di tulle da una luce uniforme, metafisica, quella dei maestri del Rinascimento italiano.

I cinque quadri che compongono Dolce vita. Archeologia della Passione di Virgilio Sieni sono in effetti vere composizioni pittorico-scultoree. Ma il tratto del pennello è grezzo, materico, crudo, lontano dalla raffinata perfezione di Botticelli e più simile alle atmosfere allucinate di Pontormo, di Picasso, di Bacon. Gli otto danzatori sono come manichini, fantocci di creta fluida plasmati dalla mano invisibile dell’artista, trasfigurati nel trucco sbavato del clown.

Il Romaeuropa Festival torna a ospitare il coreografo fiorentino e la sua compagnia con un lavoro su un passato di immaginari che ritorna. La sequenza evangelica si stratifica in Annuncio, Crocifissione, Deposizione, Sepoltura e Resurrezione, a formare una serie che è come il percorso iconografico di una galleria d’arte: ogni quadro ha il suo titolo, la sua didascalia. Sono gli stessi interpreti che senza abbandonare la scena segnano la cesura da un’unità all’altra esponendo cartelli che si combinano a formare una parola.

“L’immagine lavora dentro di noi a nostra insaputa” afferma il coreografo durante l’incontro a chiusura dell’esibizione: l’immaginario visivo storicamente dominato dalla fisicità delle storie cristiane si pone così a fondamento di tutta la cultura corporea dell’Occidente. Il tema cristologico imperniava già il Vangelo secondo Matteo, coreografia destinata a duecento danzatori di tutte le età, perlopiù non professionisti, e presentata con successo quest’estate alla Biennale Danza di Venezia, di cui Sieni è attuale direttore.

In Dolce vita l’itinerario dell’umanità di Cristo diventa ancora occasione di scavo archeologico, analisi di quella memoria profonda inscritta nel corpo e che può vivere una resurrezione continua attraverso il movimento. L’apparato coreografico, a una prima impressione confuso e convulso, si costruisce su richiami e ripetizioni, su gesti che risuonano da un danzatore all’altro, da un punto all’altro della performance. Il contatto fisico, l’esperienza tattile della pressione dà vita a pose che sembrano gruppi scultorei, frammenti di vita mummificata.

In particolare, dopo due primi quadri che accostano il tremito di un angelo strisciante agli scatti violenti della crocifissione, l’episodio della Deposizione, forse il più riuscito, mostra in modo sorprendente il processo di costruzione corporea nel suo pieno svolgimento. Corpi passivi, abbandonati, si costruiscono attraverso impalcature mobili che fissano la posa, eternano il gesto, trasformandosi in concrezioni di immaginario che travalicano la frontiera tra universale e individuale.

Tutto il lavoro è imbevuto di quella malinconia felliniana cui il titolo fa esplicito riferimento, ma più che la stanca deriva de La dolce vita sembra condividere la tristezza quieta e rassegnata de La strada, o l’atteggiamento meditativo dei saltimbanchi di Picasso. Un distacco riflessivo che rischia di contagiare lo stesso spettatore. L’eccessiva eterogeneità degli elementi pregiudica talvolta la fruizione, intasando l’esperienza di chi non resiste alla tentazione ermeneutica con la soverchiante mole dei rimandi possibili.

Alice delle (lontane) meraviglie. Arrivederci Primavera d’Europa/02

GIULIA MURONI – GIULIA RANDONE | AliceIl Festival Primavera d’Europa/02 che abbiamo a lungo raccontato si è concluso con Alice delle meraviglie, del collettivo di ricerca e pratica teatrale Macelleria Ettore. Dopo giorni di pioggia il cielo è tornato sereno e lo spettacolo è stato allestito all’aperto, come originariamente previsto. In un cortile affacciato sulla Val di Susa, nel freddo che preannuncia l’autunno, abbiamo visto la performance e poi ne abbiamo chiacchierato insieme.

GR: Interessante, l’Alice di Macelleria Ettore. Dichiaratamente trentenne, è lontana dall’età infantile, ma fermamente intenzionata a non “contrarre l’adultitudine”. In dialogo con un “tu” e con se stessa, fa le prove generali della propria vita in caduta libera, tentando di capire il mondo e aggrovigliandosi nei propri pensieri. Tutto ciò senza mai alzarsi da uno sgabello. A volte spinge le braccia e le gambe lontano da sé, come a voler esplorare il mondo, ma non sembra realmente interessata al contatto fisico con l’esterno: tutto accade nella sua testa.

GM: È un’Alice che perde un po’ di quella naïveté e dell’entusiasmo, misto all’inquietudine, caratteristico del personaggio, per lasciare spazio a uno sguardo quasi disincantato sulla realtà. Mi viene in mente la frase, tremendamente attuale, con cui si definisce: “Per sempre emergente che tenta di emergere dall’emergenza”.

GR: Una definizione azzeccata! Certamente la drammaturgia – costruita a partire dai testi “Alice nel paese delle meraviglie” e “Attraverso lo specchio”, ma anche dalle lettere di Lewis Carroll e dalle inserzioni della regista Carmen Giordano – è un punto di forza dello spettacolo. Presenta diversi snodi poetici, è intrigante e dinamica. L’unico difetto è che risulta un po’ prolissa. Se poi si assiste allo spettacolo alle undici di sera si ha l’impressione che le parole siano davvero troppe…

GM: Anche se “Alice nel paese delle meraviglie” fa ormai parte dell’immaginario collettivo, questa drammaturgia è originale, offre altre prospettive al testo. Riesce a parlarne in modo elaborato, non scontato e la messa in scena è interessante e abbastanza efficace. Secondo me però c’è un problema: Alice è distante. Vive in un mondo buffo in cui accadono le cose come vuole lei, ma non riesce del tutto a essere coinvolgente.

GR: Ti do ragione. Personalmente non vado pazza per il mimo: come linguaggio scenico mi appare un po’ datato. Di conseguenza le scelte in questa direzione, evidenti fin dal trucco e dal costume, mi fanno sentire distante e un po’ mi annoiano.

GM: In particolare a me appare un po’ obsoleto l’habitus corporeo del mimo. Forse per dare respiro alle maglie del testo si sarebbe potuto ricorrere a un maggiore uso dello spazio scenico e del corpo. Che ne pensi della recitazione?

GR: Maura Pettorruso è brava a governare l’alluvione di parole e a mostrare l’ipertrofia della mente della protagonista rispetto al resto del corpo, che infatti si muove per conto proprio. La prova più impegnativa, però, la affronta nella costruzione della trama vocale. I protagonisti del mondo delle meraviglie saltano dentro alla sua voce, fronteggiano Alice e, così come sono venuti, scompaiono. Nel timbro dell’attrice, alcuni si richiamano esplicitamente al modello disneyano. A proposito, hai sentito le risate di un gruppo di bambini invisibili (credo giocassero nel buio alle nostre spalle) quando hanno riconosciuto l’affannato “È tardi! È tardi!” del Bianconiglio o gli imperativi della Regina di Cuori? Sembravano rispondere alle domande di Alice-Pettorruso con un’inquietante risata senza volto, degna dello Stregatto!

GM: È evidente che ci si trovi davanti a una recitazione formalmente di livello, eppure qualcosa è mancato e quest’assenza forse si può ricondurre a un dispiegarsi sempre molto acceso dei timbri vocali o forse alla fisicità costretta. O magari è semplicemente alla base della scelta di proporre un’Alice matura, riflessiva, smarrita tra i rigagnoli dei suoi variopinti pensieri. Un’Alice cerebrale, che concede poco al pubblico in termini emotivi. Tuttavia si tratta di un lavoro senza dubbio elegante, in cui le luci costituiscono una componente essenziale. La partitura di luci, ad opera di Alice Colla, è composta dai colori primari che formano il bianco e si staglia su una scena avvolta nella bicromia bianco/nero. Un fascio dall’alto nei momenti di introspezione, in cui Alice cade dentro se stessa. Controluce e frontali esterni sui toni del rosso, del verde e del blu si alternano in un fitto dialogo con i personaggi. Questo ricco disegno luci, intessuto alla drammaturgia, secondo me dà un valore aggiunto allo spettacolo.

GR: Anche io ho apprezzato moltissimo la partitura luminosa di Colla, che mette in risalto le caratteristiche del discorso di Alice, il suo gioco di dire una cosa e poi il contrario, i ragionamenti bizzarri e le frasi ad effetto. Il dialogo tra parola e luce contribuisce a isolare Alice. Il problema è che allontana da noi anche l’attrice. Forse era l’obiettivo della regista, di certo rende difficile appassionarsi alla storia narrata. È difficile entrare in relazione con questa Alice elucubrante, sentirsi coinvolti, compartecipi.

GM: È vero anche che, di tanto in tanto, ci sono momenti molto riusciti, in cui l’ironia fa da padrona e si attiva un coinvolgimento, non sono intellettuale, con Alice! Purtroppo, però, sono solo una piccola parte. Invece che ne dici della musica nel finale? L’ho trovata stridente rispetto a tutto il resto…

GR: L’attacco mi ha ricordato la punteggiatura sonora minimale di “The Bell Tolls Five” di Peter Von Poehl e mi ha fatto sperare in un epilogo più sperimentale. Invece, una canzone dalle sonorità pop e dal testo didascalico fa da sfondo a una sorta di album in movimento, in cui passano in rassegna le più importanti azioni fisiche dello spettacolo. Peccato.

GM: Nel complesso un esercizio di bravura stilistica, un’architettura scenica ben costruita ma in difetto di emotività. In fondo, e qui mi approprio di quella naïveté che Alice ha abbandonato, l’emozione non è uno dei motivi per cui andiamo a teatro?