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sabato, Maggio 10, 2025
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Il teatro di Elfriede Jelinek secondo Andrea Adriatico

LAURA NOVELLI | 541622_10151494113850287_1119237104_n“Oggi qui c’è un sole bellissimo. Il posto è molto carino e l’atmosfera accogliente. E’ la prima volta che partecipo al Festival Orizzonti di Chiusi e ne sono felice”. Rubando qualche minuto alle preziose prove che precedono l’imminenza di un debutto, Andrea Adriatico – regista, giornalista, architetto, cineasta e direttore artistico di Teatri di Vita – non nasconde il suo entusiasmo e la sua ammirazione per il teatro di Elfriede Jelinek, nota scrittrice austriaca premio Nobel nel 2004 alla cui produzione drammaturgica la realtà bolognese dedica quest’anno ben tre lavori. Dopo Delirio di una TRANS populista (interprete Eva Robin’s), debuttato a fine giugno in seno al festival Cuore di Brasile (e che vedremo al teatro India di Roma a settembre nell’ambito di Short Theatre 2014), è ora la volta di un secondo allestimento, Jackie e le altre (dal testo Jackie del 2010) il cui battesimo è previsto a Chiusi in questi giorni (nel cast figurano Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s e Selvaggia Tegon Giacoppo) e che, già prenotato in diverse piazze per la prossima stagione, anticipa il terzo movimento del trittico, Un pezzo per Sport.

Da cosa nasce questo profondo interesse per la scrittura di Elfriede Jelinek?

Sono innamorato di questa autrice assai poco rappresentata da noi soprattutto per la complessità linguistica della sua drammaturgia. Una drammaturgia calata totalmente nella cultura mitteleuropea e ben consapevole della tradizione epica che ha alle spalle ma che, nello stesso tempo, riesce a leggere con estrema lucidità il contemporaneo. Questo è ciò che davvero mi interessa: la visione chiara e originale di un teatro politico che sappia interpretare le emozioni sociali”.

Questi elementi di cui parli come si ritrovano in Jackie e le altre?

“Nel suo Jackie la scrittrice austriaca propone una rilettura del mito di Jackie Onassis dove, senza trascurare gli elementi storici, ricostruisce il tracciato di una donna contemporanea che ha fatto un rivoluzionario percorso di appropriazione della propria identità. La Jelinek ci consegna un lungo monologo pieno di spunti strepitosi: un testamento dove la first lady passa in rassegna la propria vita soffermandosi sulla differenza tra carnalità e mistero e facendoci capire come attraverso la moda, gli abiti, ella si sia appropriata della propria funzionalità femminile. Nel mio lavoro ho attivato un meccanismo di moltiplicazione per cui in scena ci sono quattro attrici che moltiplicano il mito stesso di Jackie; attraverso la ripetizione credo possano emergere meglio tutte le tensioni sociali e culturali che il testo sottende”.

Di quali tensioni sociali, culturali e politiche ci racconta invece il primo lavoro del Progetto Jelinek, Delirio di una Trans populista?

“Qui c’è un chiaro riferimento alla figura di Jörg Haider, ex-governatore della Carinzia noto per la sua omosessualità sul filo della pedofilia, e c’è soprattutto un comizio in cui si ritrovano tutti i tratti peggiori dell’Europa contemporanea, tutti i meccanismi perversi dei discorsi autoreferenziali: ho detto IO tutto il tempo, recita una battuta. Si parla di uomo-massa, di emozione privata-emozione condivisa, di consenso. Nello spettacolo il comizio è affidato al personaggio di una trans e dunque diventa ancora una volta terreno di appropriazione di identità, cosa che di fatto esiste anche nel testo”.

Lavori con Eva Robin’s dal ’93, dai tempi de La voce umana di Cocteau: cosa c’è alla base di questo felice sodalizio artistico?

“Non sono uno che sente di avere una compagnia. Forse perché faccio cose diverse non ho il concetto del gruppo. Con Eva credo che si sia stabilito un rapporto di fiducia soprattutto perché è una bravissima attrice, e le recensioni lo confermano. Il linguaggio della Jelinek, ad esempio, le calza alla perfezione, soprattutto quando è ironico e c’è da dire che in Jackie e le altre poi la sua presenza rimanda proprio all’idea di essere attraverso l’abito, attraverso l’involucro”.

In autunno debutterà anche la terza produzione dedicata alla Jelinek di cui firmi ancora la regia. Cosa ci puoi anticipare?

Un pezzo per Sport si ispira alla pièce Sport – Un pezzo che è stata rappresentata una sola volta a Vienna in una allestimento spettacolare. Il tema di questo lavoro è la massa ossessionata dal culto del corpo e dell’immagine. Ma si tratta soprattutto di un testo incredibile: sulla carta risulta quasi illeggibile, ostico, ma scomponendolo si scoprono quali sensibilità e genialità ci siano dietro. La Jelinek (alla cui produzione teatrale l’Emilia Romagna, a dicembre, dedicherà un’ampia rassegna, il Focus Festival Jelinek diretto da Elena Di Gioia, ndr) non è paragonabile a nessuna altro autore e mi piace perché non dà asserzioni bensì punti di vista. Ci dice semplicemente: io penso questo”.

Teglio Teatro Festival Valtellina: sei anni di passione ad alta quota

4578_foto_rev0RENZO FRANCABANDERA | E’ disperatamente bella l’Italia. e le sue passioni piu’ antiche, coltivate in territori che sono scenari fantastici, scenografie naturali che davvero nulla altro hanno da richiedere per donare l’emozione del teatro. E’ cosi’ dalla Sicilia alla Valtellina, da Siracusa a Teglio, localita’ fra Sondrio e Bormio dove da sei anni, d’estate, si respira la passione per la scena. Sono passati sei anni. E anche quest’anno, da quel lontano 2009, ha preso il via venerdì 1 e si prolunghera’ fino a mercoledì 13 agosto, con appuntamenti teatrali e musicali nelle valli e nei rifugi, sentieri d’arte e di storia e percorsi di gusto, coinvolgendo numerosi comuni della Valtellina.

“Fiabe e sogni di ieri e di oggi” il tema scelto quest’anno per la rassegna, organizzata e diretta dall’associazione Incontri di civiltà, guidata da Maria Agnese Bresesti. storie di vedovanza con una straordinaria Licia Maglietta (ne “Il difficile mestiere di vedova”, 1 agosto, Palazzo Juvalta a Teglio) sogni di gioventù con la bravissima Arianna Scommegna (con “Potevo essere io”, 4 agosto, Palazzo Juvalta a Teglio,) sfide realizzate con un omaggio ad alta quota ad un grande alpinista come Walter Bonatti (sabato 9 agosto, Prato Valentino, con proiezione del docufilm W di Walter, ideato e realizzato proprio a Dubino , con la regista Paola Nessi, dalla sua incantevole compagna di vita, Rossana Podestà, scomparsa ad fine 2013), musica e passione popolare con Francesca Mazza (Omaggio a Napoli, lunedì 11 agosto a Tirano e martedì 12 agosto ad Aprica) e ancora dimenticate fiabe valtellinesi (presentazione di un preziosissimo libello del 1928) per far rivivere i cortili storici, raffinati concerti nei palazzi e nei rifugi più belli (sabato 2 agosto, a 2mila metri al Rifugio Schiazzera di Vervio con il pianoforte di Chicco Cotelli), presentazioni di libri con gli autori e racconti con la tipica merenda valtellinese, poesia sotto le stelle (nel magnifico Palazzo Besta, Teglio), passeggiate e biciclettate lungo i sentieri più caratteristici con storici dell’arte e ampio spazi anche quest’anno a giovani talenti della Valtellina: maghi, pianisti e narrastorie.

Filo rosso di quest’edizione è il “racconto”, a volte fiabesco e a volte memoria di un passato che non si può dimenticare. Sogni e riflessioni su cos’eravamo e cosa stiamo diventando: voci dal passato e novelle da riscoprire, a volte dimenticate e più spesso rimosse che tornano a farsi sentire.

, si aprirà venerdì 1 agosto: alle ore 10,30 nella casa comunale di Teglio si torna indietro nel tempo con la presentazione di un preziosissimo libello di fiabe “Ometto e le sue novelle”, illustrato a colori, pubblicato nel 1928 da una scrittrice tellina, Annetta Morelli, vedova dell’astronomo Michele Rajna. A seguire un omaggio – con una mostra a lui dedicata – a Felice Chiusaro, mai dimenticato componente del Quartetto Cetra che proprio a Teglio, dopo averla tanto amata, ha deciso di essere seppellito. Alle ore 21 entra nel vivo la kermesse a Palazzo Juvalta a Teglio con la passione e la fantasia di Licia Maglietta e il suo “Il difficile mestiere di vedova”, un monologo di Silvana Grasso, storia di provincia, paradossale ed esilarante, che offre uno spaccato di realtà che la Maglietta, regista ed interprete, fa dinamica rappresentazione, accompagnata dal mandolino del maestro Tiziano Palladino.
Sabato 2 agosto si continua nello storico e affascinante borgo di Nigola (in dialetto significa “nuvola”) con la sagra “Borgo che rivive”, dalle ore 20, con banchetti di artigianato, cena con polenta taragna e prodotti tipici (su prenotazione) e spettacolo con il gruppo folcloristico “I Tencitt” di Cunardo (Varese). Al rifugio Schiazzera (Sernio) l’appuntamento è invece, sempre sabato 2 agosto, con il pianoforte di Chicco Cotelli e il flauto di Alessandro Ruggeri.

Domenica 3 agosto si apre a Mazzo di Valtellina con un suggestivo concerto d’organo nella chiesa di Santo Stefano (ore 10,45) per continuare a Poggiridenti alle ore 17 con la storica Franca Prandi che accompagnerà il pubblico alla scoperta della terra tellina. Alle ore 21 (Teglio – Salone Oratorio) sarà presentato lo spettacolo teatrale “Fuori Fuoco” di e con Alessandra Merico e Eloisa Atti. Lunedì 4 agosto sarà un’altra grande donna della scena teatrale italiana, la giovane Arianna Scommegna in “Potevo essere io”, testo di Renata Ciaravino, anche qui storia appassionata ed amarissima, ambientata nella periferia milanese degli anni ottanta, a cui la Scommegna dà voce con straordinaria sensibilità, alternando momenti di intensa comicità e ad altri di aspra inquietudine. Martedì 5 agosto a Tirano, nello storico Palazzo Torelli (ore 21) sarà presentato invece lo spettacolo “Le donne di Dante” di Silvia Bragonzi. Grande attesa per “Essere donna” ( mercoledì 6 agosto alle ore 21) ormai tradizionale appuntamento della Valtellina con omaggio al femminile in musica e poesia con Grazia Levi (arpa e voce di Giuliano Mattioli). Ad animare il borgo di Teglio ci penserà giovedì 7 agosto Giacomo Occhi con Rivoluzione stazionaria in concerto (Teatro di pietra di Teglio, ore 21) mentre venerdì 8 agosto per le vie del borgo le leggende, fiabe e musica della Valtellina prendono vita con Miriana Ronchetti, Chicco Cotelli, Monica Clementi, Alessandra Bedognè e Francesco Dei Cas (a seguire degustazione di sciatt, formaggi e vini e dolci locali)

Sabato 9 agosto appuntamento speciale a Prato Valentino con un concerto ad alta quota con la band Caronte e la proiezione (alle 14.30) dell’appassionante documentario W Walter, realizzato proprio in Valtellina dalla regista Roberta Nessi e da Rossana Podestà, storica compagna di Walter, scomparsa lo scorso dicembre (alla sua passione e tenacia è dedicato l’evento). La serata si conclude a Tirano (alle ore 21, a Palazzo Torelli) con “Storie che camminano da sole” con Matteo Gazzolo (seguirà degustazione prodotti tipici). Nei giardini dello splendido Palazzo Besta di Teglio a cura della Biblioteca Comunale e dell’Accademia del Pizzocchero si svolgerà domenica 10 agosto la decima edizione di “Poesia e musica sotto le stelle” e a seguire il concerto “Italia Harmonist, omaggio ai Cetra” con gli artisti stabili del Coro del Teatro alla Scala di Milano. Francesca Mazza e Guido Sodo a Palazzo Torelli di Tirano lunedì 11 agosto presentano Passione – Omaggio a Napoli (in replica ad Aprica, sala Congressi martedì 12 agosto ore 21). Spettacolo di burattini con Daniele Cortesi a Teglio matedì 12 alle ore 21 nella splendida cornice di Palazzo Juvalta.

Il festival si chiude in bellezza nel Salone dell’oratorio di Teglio con “Piccoli Grandi Sogni” di Giulia Bresesti e Tiziano Giudice e la premiazione dello spettacolo vincitore.

Tutti gli incontri sono ad ingresso gratuito. Per il calendario completo degli eventi: Ufficio I.A.T. di Teglio – Tel. 0342/78.20.00 – www.teatrovaltellina.it iatteglio@valtellinaturismo.com

Quel punk di Riccardo III, intervista scritta e video a Michele Sinisi

SinisiANDREA CIOMMIENTO | Il teatro è sempre occasione per rifondare il senso sociale di appartenenza di una comunità. Collinarea Festival si è consacrato da quest’anno motore essenziale e simbolo di questa tensione.

Un tentativo politico che si riversa anche sulle scelte in cartellone, e nel caso del nuovo lavoro di Michele Sinisi queste scelte si distanziano dall’idea di spettacolo approdando alla performance. Un lavoro che ha lasciato la comunità festivaliera di Lari piacevolmente disturbata nel suo ascolto.

Come potremmo giustificare il tentativo, anch’esso politico, di Riccardo III prodotto da Teatro Minimo e Pontedera Teatro? La performance è un progetto scostante e maleducato che lede la pazienza del pubblico. Il tentativo dell’attore è chiaro: sollecitare quella comunità che lo accoglie, rischiare spezzando l’immagine che si ha di lui. Il risultato è stato raggiunto ovvero affondare le mani in un terreno più minaccioso in scena, senza intreccio drammaturgico e in una relazione sfacciata con lo spettatore.

Il Riccardo III che hai presentato a Collinarea vive di un’atmosfera punk al contrario del precedente Amleto che vive di un proprio sviluppo drammatico comprensibile a tutti…
Tutto è partito da una sfida ovvero l’idea di lavorare al di là della “parola che significa”. Ritornare indietro alle suggestioni, ai piaceri e alle scommesse di questo lavoro, tornare a una curiosità di linguaggio verbale di pancia, prendere solo il testo di Shakespeare e farne farne uno spettacolo che tenga non più di quarantacinque minuti. Ho deciso di lavorare non sulla comprensibilità logica e drammaturgica tradizionalmente intesa ma su dei segni per far sentire la realtà di Riccardo III senza raccontarla.

Ci sei tu insieme a un indelebile e a uno spray di colore rosso utilizzati per imprimere immagini e parole scritte sul ferro zincato. L’esperienza che ne facciamo è olfattiva e visiva al tempo stesso…
Il colore così come il ferro zincato del tavolo, la maglia, il microfono e i puntelli li ho utilizzati per raccontare una spinta di pancia dal punto di vista emotivo e rituale, intellegibile nell’immediatezza ovvero il superamento del disegno con lo stencil che svuota il percorso e la memoria presentandone i passaggi più evidenti del figurativo contemporaneo.

Che obiettivi ti sei dato?
Riuscire a lavorare su dei segni che appartengono a una memoria comune, giocare sull’assemblaggio di questo linguaggio che definisco popolare, figlio di questo tempo sezionato e rimontato rispetto al rapporto della tv e del cinema o adesso della rete, e capire quanto evolve un linguaggio e quanto riproporlo in scena come uno spaccato.

Perché usare Shakespeare per entrare dentro il sangue?
Riccardo III è una fascinazione attoriale. C’è l’idea di interpretarlo. Ho deciso di partire da qualcosa che rappresenta l’archetipo e l’artificio, la sua deformità per cominciare a sciogliere chimicamente questa idea, questa immagine di Riccardo che abbiamo, questo cliché per certi versi, e cominciare ad abbassare sempre più il risuonatore dell’immaginazione al punto di renderlo viscerale. Lo shock continuo in scena è l’equivalente che noi proveremmo se solo avessimo a che fare con una vita vissuta in quel modo. Riccardo è disposto a tutto pur di raggiungere il potere. Nel mio caso il potere di tenere il pubblico.

Estratto video dall’intervista con Michele Sinisi:

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=kLMpqYYFM-U&w=560&h=315]

A Dio che non risponde, intervista scritta e video alle Vie del Fool

Schermata 2014-08-04 alle 12.18.36ANDREA CIOMMIENTO | Luna Park è la testimonianza solitaria di un Don Chisciotte disperso e circondato da architetture senza umanità simbolo della desolazione della provincia italiana. Il monologo delle Vie del Fool, ospite a Collinarea Festival 2014, racconta le geometrie di palazzine e tangenziali dimesse che racchiudono l’esistenza di un uomo in scena in compagnia della luce elettrica, unica presenza “umana” tra strade vuote e notti senza sonno. Sarà il sogno a farlo da padrone, il sogno nella ricerca di Dio o degli Alieni, il sogno che alimenta gli ultimi brandelli di immaginazione come ripetizione alterata dei suoi vissuti, a volte troppo carichi di aspettiva, a volte incisivi e capaci di portarci nel suo mondo immaginato.

Il vostro spettacolo è l’ultimo capitolo di una trilogia che cerca risposte a domande universali. In Luna Park ascoltiamo dall’inizio alla fine la domanda: “Dio dove sei?”
Luna Park è l’ultimo capitolo della trilogia dove si va a stringere sulle domande fondamentali. Non potevamo non prendere anche la religione. Spesso le risposte che ci vengono fornite lasciano un vuoto più che colmarlo. Volevamo lavorare sui non luoghi, sul tema del vuoto e su un paesaggio che fosse desolato. Abbiamo pensato alla desolazione di una tangenziale di notte dove non passano più le macchine, nel nostro caso è la tangenziale est di Roma. Siamo partiti da quel silenzio.

Come lo collegate agli altri due lavori?
Siamo partiti da un lavoro che ha sollevato una riflessione su tutto il pensiero esistenzialista comprendendo le Operette morali di Leopardi e il Mondo invisibile di Ionesco, e piano piano abbiamo cercato un nostro modo per rispondere alle nostre domande più urgenti: la prima di tutte era il confronto con l’esistere. Lo abbiamo affrontato usando come pretesto la figura del Pinocchio; cosa gli succede nel momento in cui diventa un essere umano in carne e ossa. Poi la resistenza/esistenza con Ulisse, il suo viaggio e ritorno a casa. Un lavoro sulle resistenze quotidiane. E alla fine siamo arrivati a Luna Park dove abbiamo cercato di dare una risposta a queste domande e al senso della vita. A questo Dio che non risponde.

In queste domande a Dio quanto ha inciso la figura del Don Chisciotte?
Abbiamo cercato di attraversare il pensiero che sottende l’opera del Don Chisciotte. Non abbiamo preso tanto il personaggio e la sua storia quanto il modo manierista di affrontare il dualismo irreale/reale, materiale/immateriale, sogno/concretezza. Per questo il personaggio principale è un personaggio estremamente concreto non è di certo un eroe però è a suo modo un idealista, vede duelli impossibili in un pacchetto di biscotti mangiato nel bar della stazione, mulini a vento sulla luna, autovelox che sono altre cose, antenne che sono radar per cercare Dio in pausa pranzo. Ci siamo chiesti se possono essere dei Don Chisciotte moderni coloro che insistono nel vedere un’altra realtà oltre a quella esistente.

Che risposta vi siete dati?
Non arrendersi alla realtà che c’è ma cercare di privilegiare l’idea e l’ideale rispetto alla realtà. Questa è la metamorfosi, la cosa non è quello che è ma quello che rappresenta per me. Il nostro Don Chisciotte inventa cani immaginari e scarpe a lato della tangenziale in un modo tutto suo, per questo è incomunicabile e proprio per questo appartiene a tutti noi.

Il personaggio che avete creato assorbe come una spugna tutta l’umanità incontrata e che davanti a noi reinterpreta tramite il suo modo di guardare al mondo…
C’è il tentativo di contenere tutte le letture, sguardi e tempi in un momento preciso. Vale anche per gli stili teatrali, non abbiamo uno stile o un linguaggio o una poetica. Cerchiamo di non fossilizzarci in categorie o scelte e questo è un atteggiamento tenuto dall’ideazione, alla scrittura e alla realizzazione.

Estratto video dell’intervista con Simone Perinelli e Isabella Rotolo:

Villaggio d’artista: le arti performative fuori dalla città. Il videoreportage

Phoenix_Wunderland_luglio2014_Villaggio d'artista_Meina_ph Samantha KleinRENZO FRANCABANDERA | Un festival di arti performative fuori dalla citta’. Transfrontaliero per vocazione. Meina, bellissima localita’ in provincia di Novara, sul Lago Maggiore, ha ospitato fra fine giugno e luglio la seconda edizione del Villaggio d’artista, una residenza comunitaria per artisti, uno spazio di convivenza sociale e naturalistica, occasione di performance live, danze site specific, incontri formativi con gli artisti in residenza e attività ludico-educative organizzata dall’Associazione LIS lab Performing Arts, con la direzione artistica di Antonella Cirigliano.

Siamo tornati ad un anno dal debutto di questa particolarissima iniziativa, e ci pare che LIS, diventata bottega nell’ambito del programma di residenze della Regione Piemonte, abbia dato all’evento una struttura solida e definita, per direzione e intenti.
Undici gli appuntamenti, distribuiti su diversi fine settimana, che hanno visto all’opera artisti di diversa esperienza e formazione: Zerogrammi (Italia)- TricksterP (Svizzera) – Sara Marasso(Italia) – Senza Confini di Pelle (Italia) – Filippo Armati e Francesca Cola (Svizzera/Italia) – Associazione Didee (Italia) – COORPI(Italia) – Tommaso Sacchi (Italia) -Wunderland (Danimarca-Norvegia-Svezia) – Francesca Amat(Italia).

Il video reportage che segue si riferisce in particolare al secondo week end di luglio, che ha visto ospite la compagnia danese Wonderland, su cui torneremo in seguito con un approfondimento.

Si ringraziano Marzia Zorzetto e Giacomo Pisani per parte la documentazione video resa disponibile, e per le foto Samantha Klein, che hanno reso possibile questo documento.

Al link che segue, è possibile accedere al videoreportage

http://youtu.be/5uB2GAy872o

Se il carcere è umano, insegna a rialzarsi: teatro e carcere a Roma

ilmurofotoLAURA NOVELLI | “La vita in prigione è dura/ Carcerati senza scrupoli e senza paura/ Il coraggio per primo e poi amico ti stimo / Tra le sbarre si sente il calore / Poi si passa all’orrore / L’orrore che uccide /L’orrore che decide / L’orrore che graffia la vita che passa/ Penso alla mia vita / Una vita sprecata / La giustizia ingannata / Una vita dannata /Per salvare l’onore / Seminare il terrore /Ma il mio tempo è finito / E mi sono pentito / Voglio ricominciare / Voglio dimenticare/ Far capire al mondo / di non sbagliare / di seguire esempi giusti […]”. Non sono parole tratte da opere di intellettuali e scrittori celebri bensì – più semplicemente – le parole di un rap sul tema carcerario che, circa due anni fa, hanno scritto alcuni ragazzi di dodici/tredici anni, oggi miei ex-allievi, in occasione del concorso “Conoscere il carcere” promosso nelle scuole medie inferiori e superiori della Penisola dal Ministero della Giustizia, in sinergia con il MIUR. Concorso tra l’altro vinto, ex-equo con un liceo romano, proprio dalla mia ex classe con questo testo “Voglio ricominciare” e con un altro rap, “Oltre le sbarre”, anch’esso sugellato da una chiosa significativa (“nel futuro io ci credo/ se chiuso gli occhi lo vedo/ la cosa più importante/ da pensare è che/ nella vita si può sbagliare”), entrambi musicati artigianalmente e cantati dai ragazzi stessi.
Perché ne parlo? Mi sono tornati in mente in questi giorni dopo aver assistito a due lavori teatrali a loro modo connessi: “Una Bella Prigione (il Mondo)” che il  hanno presentato il 28 luglio all’interno della rassegna “I solisti del teatro” e lo spettacolo “Il muro”, scritto e diretto da Angelo Longoni, che dopo il debutto proprio a Rebibbia per un pubblico di detenuti e i consensi raccolti durante le repliche romane al teatro Lo Spazio è stato proposto al Fontanone del Gianicolo e sarà ripreso durante la prossima stagione.
Credo che la sensibilità ancora acerba ma evidentemente permeabile al mondo dei miei giovani alunni abbia intercettato con luminosa puntualità il senso di queste due operazioni teatrali. Ovverosia: la necessità di interrogarsi sulle ricadute umane di un’esperienza drammatica come la detenzione leggendola come un passaggio verso una seconda vita, una seconda possibilità, un cambiamento, una rinascita.
La pièce di Teatro Libero aveva un sottotitolo emblematico, “Un Talk Show su Bellezza e Giustizia”, e attori storici della compagnia come Sasà Striano (lo ricordiamo in “Gomorra “ e nei panni di Bruto in “Casare deve morire”), Fabio Rizzuto e Giovanni Arcuri (Cesare nel medesimo film dei fratelli Taviani, Orso d’Oro al Festival di Berlino del 2012), accompagnati al piano da Franco Moretti e coordinati da Fabio Cavalli, hanno passeggiato tra le pagine di Shakespeare e Genet, virando simpaticamente verso canzoni popolari come “Il barcarolo” e verso una spontaneità cabarettistica carica di autoironia, per raccontare con partecipato entusiasmo un carcere che sia aperto alla cultura, al teatro, ai libri; un carcere che non si imponga di “rieducare” ma piuttosto insegni ad essere diversi, a capire angoli sconosciuti di mondo, a comprendere meglio se stessi; un carcere che permetta di mantenere la propria dignità, che abbia cura dell’umanità di ciascuno, che offra un’opportunità concreta di rinserimento sociale. C’è stato un momento di forte commozione, quando Striano ha recitato un monologo tratto da “L’enfant criminel” di Genet, e c’è stato un tempo lungo di riflessione, di dibattito e confronto con il pubblico quando, a fine lavoro, il costituzionalista Marco Ruotolo ha ribadito i punti caldi della questione e, Cesare Beccaria alla mano, ha parlato di “umanizzazione” del carcere: Poesia e Legge possono camminare, dunque, su un unico binario.
E possono farlo anche quando in ballo c’è l’esperienza di una coppia messa a dura prova da una carcerazione improvvisa che rompe la felicità di un matrimonio e fa vacillare ogni sicurezza personale e familiare: quanto racconta Longoni ne “Il muro”, piccola ore rock ispirata alle musiche dei Pynk Floyd egregiamente eseguite dal vivo dal gruppo soundEclipse, ha il sapore agrodolce di una favola sentimentale usata a pretesto di un moderno pamphlet filosofico su tutti quei muri che, al di qua e al di là del carcere, delimitano le nostre vite, le nostre emozioni, la nostra realizzazione umana e sociale. Se il riferimento a “The Wall” è ovviamente esplicito, ben più simbolico vuole essere la costruzione di un testo scandito in diversi quadri e intervallato da numerosi inserti musicali (arricchiti da uno splendido montaggio di immagini) che fotografa l’incontro casuale tra un uomo (Ettore Bassi) e una donna (Eleonora Ivone), la crescente consapevolezza di un amore che si trasforma in progetto comune e poi la caduta, il ribaltamento, la galera per un brutto affare di tangenti e di corruzione. Questo muro cancella d’un tratto il senso stesso dell’identità, annulla il passato, annebbia il futuro. Fin quando il protagonista capisce che – appunto – dopo si può ricominciare, riprendere a sognare e a costruire. Pensare addirittura ad un figlio. Tra flash-back e monologhi paralleli, le scene si avvicendano l’una dopo l’altra, con un ritmo a tratti forse troppo lento e un linguaggio che passa volentieri dal quotidiano al lirico, lasciando intendere il dipanarsi di un tempo che è soprattutto, come sempre, una dimensione interiore. L’energia più spontanea passa attraverso la musica e – davvero bravi i cinque musicisti in scena – ci trasporta in un tumulto di emozioni e ricordi collettivi. Alla fine viene voglia di ballare: il muro diventa inno, bandiera, liberazione.

Le risate dei Maniaci: video intervista ai Maniaci d’Amore

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ph: Andrea Macchia

GIULIA MURONI | Delle sagome di legno, figure di mostri nella mai sepolta psiche infantile, fanno da sfondo al duo che sulla scena entra e esce da una parete in tulle, confine del luogo schizofrenico di dialogo terapeutico e liti simil-amorose. Troni in legno il cui schienale è una ghigliottina aiutano a comporre uno scenario dalle più facce, dove luci e ombre convivono e, nel loro alternarsi, mostrano e celano la paradossale e schiettamente ridicola compresenza dei numerosi aspetti del reale.

Interrogandosi a partire da “Il libro sul riso e sull’oblio” di Kundera sulla portata del riso, come latore di senso o al contrario distruttore dello stesso, Maniaci d’Amore, guidati dalla regia di Filippo Renda nella trasposizione di una drammaturgia di loro pugno, propone “Morsi a vuoto”. Prima assoluta all’interno del cartellone del Festival delle Colline Torinesi, lo spettacolo vede in scena i due autori-attori, Francesco Maniaci e Luciana d’Amore, che intavolano un dialogo fittissimo intorno ai dubbi, le paranoie e le incontrollabili risate di lei. Mentre lui impersona tre personaggi differenti, i cui confini talvolta si dilatano e assottigliano, perché in fondo siamo tutti un po’ di tutto, lei invece è sempre sé stessa, immersa nella vischiosa coltre di insicurezze di chi non riesce mai a prendersi sul serio. Simona, la protagonista, infatti ride sempre perché non ha niente da ridere: così recita il comunicato stampa e in questa frase è racchiusa la tragicità della perdita di senso, della reazione che non corrisponde a nessuna azione, ma vaga in un indistinto senza colore in cui non c’è più bene e male, giusto o sbagliato e il rischio è di affogare, di sentire la testa che gira e non focalizzare una strada. Altrimenti, come fa Simona, si può ridere della morte di Dio, della caduta di qualsivoglia orizzonte di senso, e procedere navigando a vista, in superficie, sghignazzando delle proprie e delle altrui miserie.

I personaggi ritratti sono creature irrimediabilmente moderne, nate da uno sguardo attento e ironico sulle peculiari deformità dei giorni nostri. Qualche lungaggine e un esplicito rimando a una performance di Marina Abramovic che tende a sbiadire il finale, sono elementi di difficoltà all’interno di un quadro brillante, amaro e pungente che conferma la compagnia come giovane fucina creativa.

Abbiamo chiacchierato con loro dopo la seconda replica di “Morsi a Vuoto”. Di seguito il link al nostro video reportage

http://www.youtube.com/watch?v=SuwTINB_xWo

Archivio Zeta, la cura per la ferita di Volterra lascia di sasso

La Ferita / Logos – Rapsodia per Volterra @ M. Brighenti

MATTEO BRIGHENTI | La città franata risorge pietra su pietra. Il cuore di Volterra batte in Piazza dei Priori al suono di sassi bianchi e levigati, passi di un distacco che si colma di speranza: affrontare la tragedia dei crolli delle mura medievali rendendo visibile, umano, sanabile lo squarcio dentro lo sguardo di ognuno. La XXVIII edizione di VolterraTeatro ha riflettuto sull’idea di “Ferita” e il progetto di Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni di Archivio Zeta, La Ferita / Logos – Rapsodia per Volterra, ha tracciato geometrie di rinascita annodando i luoghi-simbolo del borgo con 20 chilometri di nastro rosso.

Sassi contro la terra, sassi contro altri sassi. Lasciano tracce, polvere sulle mani, detriti. La caduta è una miriade di frammenti. Per questo, scelgo di seguire l’azione stando su una piattaforma multi-mediale: il cellulare per tweettare e fotografare, la radio per collegarmi al Radio Walk Show (Urban Experience) di Carlo Infante, una conversazione itinerante che moltiplica viste e visioni. Insieme a me altri colleghi di Rete critica raccolgono la sfida di farsi causa ed effetto, di stare dentro e intorno, tra lo spazio de La Ferita e quello evocato in cuffia da Infante. Le righe tra cui state leggendo sono il triplo salto verbale che ricompone tutto questo nel dopo, solitario e freddo, dello schermo di un computer.

Il filo rosso comincia a dipanarsi dal Carcere al termine di Santo Genet della Compagnia della Fortezza. Intanto, in Piazza dei Priori una Babele di legami, un coro di stoffa, una trama di separazioni condivise ci unisce per le mani e le gambe. Dal Palazzo del Comune scende un lungo ritaglio rosso che incrocia la ragnatela giù, tra la gente, e poi su, tra le finestre di fronte. Un drone telecomandato sorveglia dall’alto ogni più piccolo movimento. Arriva il corteo, riunito in un sol battito dei sassi. Silenzio. Risuonano le parole di Giordano Bruno, il frate renitente all’abiura degli infiniti mondi possibili. Siamo nel rogo, perché siamo fiamme, il rosso della stoffa è il sangue versato dalle pietre che hanno scolpita tutta la sapienza di questa rocca umana. Il nodo è stretto. La ferita è un passato che rimane, resta addosso. Per proseguire, allora, bisogna tagliare, separare, spartire. L’unione è nella forza delle braccia, non nella lunghezza della stoffa.

Il nastro a brandelli ci lega al cammino in direzione di Piazza dei Fornelli, là dove il maltempo si è abbattuto quest’inverno, aprendosi un varco di 30 metri nell’esistenza, fino ad allora sicura, di Volterra. La ferita è sotto i piedi, intrecciata nei fili lasciati a terra, e davanti agli occhi, sul muro dove deponiamo i sassi bianchi come uova di una covata cittadina che schiuda nuova solidità. Sullo sfondo, la gru della ricostruzione, che qui ti segue ovunque, come l’orizzonte, come il respiro.
Uno squillo di trombe omaggia il sole e introduce il pensiero di Leonardo Da Vinci. Non piove. No. Oggi cadono solo parole forti come pietre. Ogni frase è come se fosse la più importante e quella che segue non si sapesse o non esistesse proprio: conta solo il momento presente, l’istante, ora, prima e poi non esistono.

La Ferita, quindi, non è semplicemente teatro itinerante, performance, o visita drammatizzata, è un rito sacro, è trasmissione, salvaguardia, è mantenere accesa una testimonianza che se si spegne è persa, come il fuoco prima della scoperta delle pietre focaie. Lo spettacolo diventa tutto, Gianluca Guidotti, Enrica Sangiovanni, i cittadini del laboratorio teatrale, il cielo, le case, le strade e i nomi che si portano dietro mute, il pubblico che si fa pagina bianca su cui scrivere e riscrivere ancora. Siamo quello che abbiamo dimostrato di essere, come gli attori-detenuti della Compagnia della Fortezza quando, nel finale di Santo Genet, portano in processione le loro sagome di cartapesta: non abbiamo altro che noi stessi per rappresentare la nostra Storia.

La stazione ultima del progetto di Archivio Zeta è l’antico teatro romano. Può una rovina, una maceria, essere la base su cui ricostruire i legami tra le persone e i luoghi che abitano? Quando le pietre sono state vive lo rimangono, a dispetto del tempo, anche se mancano di più parti, in più punti, continuano a parlare l’alfabeto per intero. Soprattutto quelle di un teatro che hanno sorretto migliaia di storie, vere o presunte. Si leva alto l’avvertimento di Vincenzo Consolo: lo sfascio dei costumi non deve farci chinare il capo, deve darci forza. La ferita è là, negli occhi di ogni giorno. Dobbiamo cercarla, farla nostra, accoglierla. “Muro che crolla, muro che crolla.” Rullo di tamburi. Cade anche l’ultimo ostacolo, la quarta parete tra il presente e il futuro. Adesso andiamo in scena. Sul palcoscenico della vita.

Per ripercorrere tutto il Festival qui il Visual Storytelling a cura di Simone Pacini / fattiditeatro.

Teatro a Corte e il confronto con la scuola scandinava del nouveau cirque

imageRENZO FRANCABANDERA | Arriva alle battute finali, ma anche quest’anno ha saputo guadagnarsi un seguito di pubblico, critica e riferimenti internazionali di primo piano. Parliamo di Teatro a Corte, festival piemontese con un suo specifico assai particolare, svolgendosi per gran parte nelle meravigliose ambientazioni delle dimore sabaude. Da anni la proposta di questa rassegna è un mélange di teatro-danza-arti performative e nouveau cinque che non ha eguali in Italia e che propone agli spettatori uno sguardo originalissimo sulle evoluzioni meno tradizionali dei linguaggi scenici. Lontano da roboanti tromboni della prosa, dai soliti nomi noti e dall’asfittico giro fatto dei soliti quattro-cinque registi-star internazionali che approdano in Italia, il Festival ogni anno stringe un legame con una nazione diversa e in una logica di valorizzazione reciproca del patrimonio di conoscenze e di proposte eterodosse, ospita il meglio delle nuove proposte dell’arte performativa.

Quest’anno è toccato alla penisola scandinava, una macro-regione che da alcuni anni sta portando avanti, con esperienze diverse e declinazioni peculiari, un ragionamento che potrebbe definirsi finanche d’avanguardia sulle forme del teatro-danza che si legano alla fisicità dell’arte circense.

Per molti il termine circo evoca ancora una forma spettacolare stereotipata e obsoleta, mentre per altri versi l’estrema spettacolarizzazione di esperimenti consolidati come Le Cirque du Soleil, hanno spinto il tutto verso una forma più commerciale e adatta a palcoscenici istituzionali, con un pubblico sempre più numeroso. Non è un caso se il Piccolo teatro di Milano da diversi anni ospita lo Slava Snow Show, o i lavori di Finzi Pasca siano sempre più presenti nei cartelloni.

Ma ancora non ci siamo. Perché Teatro a Corte non è niente di tutto questo. E’ un’intersezione assai raffinata, a suo modo esclusiva, di un linguaggio certamente non facile, molto di confine, e sul quale mancano forse anche adeguate competenze e conoscenze per la stampa che deve raccontarle: la nuova clownerie, l’acrobazia che si fa danza e intervento performativo nello spazio metropolitano, il physical theatre fra drammaturgia del corpo e linguaggio non verbale.

Come riuscire dunque a raccontare senza abdicare a quel germe di stupore quasi infantile che comunque questo codice deve mantenere e per certi versi finanche ricercare, e la necessità, almeno per chi scrive, che la proposta artistica mantenga una sua integrità formale che la renda assoluta, limpida, necessaria in ogni sua componente, senza fare troppo l’occhiolino allo spettatore, ovvero che sappia stupire con discrezione ed eleganza senza che il gesto fisico venga accompagnato dal classico rullo di tamburo che per anni ha raccontato la prodezza circense?

Alcune risposte è possibile averle ancora per qualche ora in Piemonte per gli ultimi appuntamenti della rassegna che chiude questo fine settimana, e che abbiamo incrociato nella prima delle tre settimane di festival.

Siamo passati, fra il 17 e il 18 luglio dal circo più coreografico dei francesi Bistaki (a Venaria), alle principali compagnie finlandesi, fino a quello più clownesco ma contemporaneo di Thomas Monckton, ma siamo rimasti colpiti anche e forse più dai video di circo contemporaneo realizzati da Circo Aereo, di cui uno coprodotto dal festival, ambientato a Torino e nei castelli. Colpiti perché raccontare il gesto circense in questa declinazione contemporanea non è affatto facile nella forma filmica, mentre i due video proiettati al Teatro Astra davvero segnano un passo discontinuo, riescono ad essere onirici e non insistiti, leggeri e mai ripetitivi, qualità che le due proposte spettacolari di Monckton alle quali fanno da intervallo per certi versi un po’ mancano.

Suggestiva anche la perfomance del danzatore finlandese Ima Iduozee, This is the title. Racconta un’idea della corporeità molto fotografica, che riporta agli occhi memorie da Mapplethorpe, fra esibizione e riflessione, ostentazione e respiro. Manca qui forse lo slancio verso l’ulteriore e lo spettacolo si chiude un po’ su se stesso.

Una sensazione che per certi versi lascia la proposta surreale e visionaria dei francesi Collectif G. Bistaki con Cooperatzia/Maison spettacolo di “circo coreografico di ricerca” in cui tegole dei tetti e borsette fanno da domino emotivo, attivando visioni e quadri viventi che, come la compagnia spiega a fine spettacolo, dovrebbero essere concepiti in una dimensione itinerante e non unitaria che qui invece, complice la coercizione scenica cui il palcoscenico allestito a Venaria Reale li forza, non può suggestionare il pubblico in forma più discontinua. E così lo spettatore cerca una sorta di unità drammaturgica, un senso logico di fondo che non arriva. Un intento forse voluto, ma che in realtà è a nostro avviso un vulnus anche ove la performance non avesse avuto quella unità spaziale, che invece esalta proprio per questo motivo l’esilità di alcuni passaggi.

E’ indubbio che altri siano di particolare lirismo e portino lo spettatore in quella dimensione sognante e particolarissima di cui abbiamo parlato, ma è una dimensione che a volte è possibile raggiungere con molto meno, con pochissimo, a volte con una cuffia auricolare e pochi oggetti di uso quotidiano. Lo dimostrano a Teatro a Corte da diversi anni i creativi bergamaschi de La Voce delle Cose, che accolgono gli spettatori fuori da Venaria con una proposta davvero originalissima di narrazione con oggetti semplici, in cui lo spettatore è artefice vero del mistero del teatro, e la fiaba diventa metafora dell’assenza e gioco di manipolazione. E’ questa una ricchezza indimenticabile che chiunque abbia provato anche solo una volta la proposta di questi notevolissimi artisti non può che voler riprovare. E’ possibile farlo ancora in questo week end, a margine degli spettacoli del festival ancora in programma, magari consultandolo su www.teatroacorte.it

È dalle ferite che nasce la bellezza del teatro: intervista ad Armando Punzo

immaginesantogenet-compagniadellafortezzaFRANCESCA GIULIANI | Il festival è appena finito. Volterra ancora una volta è stata incontro, apertura, reclusione, separazione. Le contraddizioni di un evento che ha luogo fra la città e il carcere, che coinvolge la cittadinanza (e gli appassionati che vengono sempre numerosi da fuori) e la parte della città separata dalle mura di cinta della vecchia fortezza, ora carcere; e Armando Punzo, combattivo trait-d’union fra il dentro e il fuori. Lo abbiamo intervistato alla fine della rassegna teatrale conclusasi in questi giorni. 

Partiamo da La Ferita. Com’è nata la collaborazione con Archivio Zeta e come ha risposto la cittadinanza alla chiamata per la performance La Ferita/Logos-Rapsodia per Volterra?
Dopo il crollo di una parte delle mura che cingono Volterra, avvenuto lo scorso inverno, si è parlato tanto della ferita inflitta a questa città. Il restare impassibili e il rimanere aggrappati solo alla negatività dell’evento era l’aspetto più temibile. Come accade per un artista la ferita può essere produttrice di bellezza e ho lavorato in questo senso, cercando di ragionare intorno alla ferita in maniera propositiva partendo proprio da quella che è un’esperienza d’artista. Abbiamo pensato di costruire un evento collettivo, sull’onda di quello che era stato, lo scorso anno, il lavoro Mercuzio non vuole morire. Ho riunito tutti i gruppi, le associazioni, le persone di Volterra che sono impegnate nel mondo della cultura e anche i semplici cittadini che avevano voglia di impegnarsi in un progetto e ho chiesto se avevano intenzione e possibilità di collaborare a un nuovo progetto collettivo dopo Mercuzio. Una volta che mi sono assicurato che una parte attiva di Volterra avrebbe partecipato, ho delegato la realizzazione del progetto alla compagnia Archivio Zeta, che ha suggerito il lavoro di Maria Lai, Legarsi alla montagna. Questa idea di comunità che si lega insieme attraverso il legame tra la città ferita, le mura e le persone è stata sostenuta positivamente da tutti i partecipanti che insieme hanno iniziato a lavorare in questa direzione.

In una lettera a Roger Blin Jean Genet scriveva Le pièce di solito dovrebbero avere un senso … non questa. È una festa composta di elementi eterogenei, che non celebra un bel niente. Di una festa io credo si sia trattato in Santo Genet, una festa dove non c’è uno spazio, non c’è un tempo, dove probabilmente la libertà (benché all’interno di un carcere) non è pensata ma agita, quel luogo dove anche i personaggi di Genet posso riprendere vita. Volevo chiederti se ti ritrovi in questa visione e perché hai scelto l’opera di Genet?
Siamo partiti da una riflessione interna alla compagnia per arrivare a Genet. Ci chiedevamo continuamente perché ci incontravamo da ventisei anni dentro quella cella-teatro. Ho chiesto alla compagnia e a me stesso se tutto questo fosse un niente o se lì accadeva qualcosa di diverso. E lì qualcosa accade, qualcosa che non può accadere al di fuori di quella stanza, qualcosa di straordinario, necessario, importante che non accade nelle altre attività all’interno del carcere e non accade normalmente nelle nostre vite. Questo è il teatro: permettere di essere in un tempo fuori dal tempo, in uno spazio altro. Questa esperienza è un’esperienza fondamentale. Da qui ho chiesto quale autore poteva comunicarci per ragionare intorno a questo tema e ho pensato a Jean Genet. Il drammaturgo francese, anche lui proveniente dal carcere, dove ha vissuto gran parte della sua vita, mi ha colpito, come mi aveva colpito già nel 1996 quando facemmo I Negri, per questo essere perfetto alchimista nel trasformare quella che sembra una materia vile in oro. Qui sta il sublime, nell’averci consegnato questa materia vile trasformata in oro. Quindi mi sembrava l’autore giusto da affrontare. Lo scorso anno siamo approdati a Genet con uno studio parziale su una parte dell’opera, mentre quest’anno l’abbiamo attraversata integralmente. La forma finale non la vedo come una festa che non riconduce a nulla. Credo invece che ci sia il senso del teatro, quel morire a se stessi cercando altre possibilità dentro di noi. Io ho lavorato veramente sul suggerimento artistico-estetico che ha dato Genet, su questa capacità di morire a se stessi e di trasformarsi in qualcun altro dentro di noi: noi siamo qualcosa, pensiamo di essere qualcosa invece siamo e possiamo essere altro, negando quello che è il nostro essere quotidiano. Uccidere se stessi per far emergere altro da noi stessi. Questo credo sia il teatro e questo è quello che volevamo raccontare.

Com’è avvenuta la scrittura scenica di Santo Genet?
Tutto il lavoro nasce con gli attori. Io porto delle idee, delle suggestioni, degli spunti di partenza, ma poi tutto si realizza con gli attori e attraverso gli attori. Io non so mai prima quello che sarà, ho una visione ma non significa nulla, è un punto di partenza.

Da uno spazio eterotopo all’altro: carcere, specchi, nave, cimitero… teatro. Come hai lavorato alla trasformazione del carcere in teatro, passando da uno spazio all’altro in previsione anche dello spettatore che avrebbe varcato quelle soglie?
La trasformazione degli spazi è necessaria perché la presenza del carcere può essere invasiva e totalizzante. Non ci interessa il carcere. Io e la compagnia abbiamo bisogno di altro, di uno spazio altro, di un tempo altro, di visioni altre. Come la strada, come la fabbrica il carcere è un luogo banale del reale, ha la stessa valenza di un luogo del quotidiano, di noi stessi, del nostro essere e va superato. Non c’è fascinazione, non c’è necessità di mostrare il carcere. La presenza di quel luogo rimane, comunque, fissata nella mente dello spettatore. Noi lavoriamo per sconfiggere questa presenza, per annientare questa idea, queste immagini che lo spettatore si porta dentro facendo si che venga traghettato in un altrove. Quando poi si esce in tournée, com’è successo il 26 luglio, quel teatro esce fuori. Tutto quello che si è visto all’interno del carcere, lo spazio bianco e lo spazio interno al braccio, è stato adattato in uno spazio all’italiana. La nuova dimensione e le nuove dinamiche attivate trasformano lo spettacolo che mantiene sempre la fedeltà a ciò che è stato detto all’interno del carcere. Cambia la forma, cambia la prospettiva, ma lo spettatore, seppur seduto, rimane partecipe di alcune scene come avveniva nel carcere.

Ripensando al mio ruolo di spettatrice all’interno del carcere ho avuto dei dubbi sulla ricercata seduzione di un certo spettatore “teatrale”, fatta attraverso la costruzione dello spazio (dal bianco accecante ai semibui corridoi dove era difficile orientarsi e seguire per la troppa calca) e dagli immaginari filmici e teatrali che richiamano gli attori. È voluta questa sorta di disorientamento dello spettatore verso un’alterità che c’è ma sembra “forzata”?
Questo dipende dal tuo imaginario, che è sicuramente diverso dal mio.

Perché hai scelto di portare il rito teatrale all’interno del carcere e da ventisei anni a oggi lavori con detenuti spesso condannati all’ergastolo, per tenare una redenzione, per concedergli una vita migliore, o perché è qui, nella solitudine e nell’abbandono che hai trovato più verità e nuova linfa e forza per l’arte?
Il carcere non c’entra nulla, è una cosa che dico sempre. Il detenuto è una persona con la quale lavoro. Non c’è dentro e fuori nel mio lavoro. Al teatro non interessa se sei un detenuto, pensa all’uomo. Io ho scelto di lavorare nel carcere per una sorta di auto-reclusione. Io mi preoccupo del mio ergastolo, non del loro ergastolo. Il carcere e i detenuti sono metafora di qualcos’altro, di qualcosa di molto più filosofico di quella che si può trovare in una porzione di realtà, forse anche meno interessante. Non c’è niente di esaltante per me nel carcere. Ciò che mi affascina è la metafora, il fatto di pensare al mio essere detenuto, nonostante mi senta libero. Il carcere e i detenuti mi sono serviti per arrivare alla metafora e non all’aspetto reale. Il carcere potrebbe essere anche un monastero. È un luogo dell’espiazione della pena nella realtà quotidiana ma può restituire anche altre suggestioni. Le celle le posso immaginare come i rifugi dei monaci che si appartano per riflettere, per pensare e non perché sono colpevoli. I filosofi si appartano in mezzo alle persone, e da questo punto di vista, anche se vivono in una comunità, sono persone che si recludono per interrogarsi. È questo che mi affascina, questo che mi ha interessato del carcere, la dualità di sentimento: alcune persone possono vedere il carcere in quanto carcere, i detenuti in quanto detenuti, quindi affascinarsi o schifarsi; ad altri interessa la metafora.

Per chiudere sul Teatro Stabile. A che punto siete arrivati e che ostacoli pongono le istituzioni?
Se penso al festival, agli spettacoli all’interno del carcere, al nostro lavoro artistico io credo che idealmente sia già realizzato. Non ci manca niente per esserlo e probabilmente abbiamo anche qualcosa in più rispetto a chi si dichiara Teatro Stabile nel nostro paese. Il problema è che da una parte siamo sicuri che già stiamo realizzando questo già con il festival che avviene all’interno del carcere, un evento unico al mondo, dall’altra sappiamo che ci manca qualcosa. Ciò che ci manca è la costruzione di un teatro, un prefabbricato all’interno del carcere, che ci consenta di svolgere il nostro lavoro al meglio. Ci sono resistenze, ci sono opposizioni, ci sono letture deformate della vicenda ma sono ottimista e penso che prima o poi riusciremo ad ottenerlo.