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Opere di Bene: dialogo non immaginario ad 11 anni dalla morte

disegno Renzo Francabandera
carmelo bene_francabandera_copyright
Carmelo Bene visto da Renzo Francabandera

RENZO FRANCABANDERA | “Ebbene sì, in tutta onestà credo di poter dire che…” Beh, allora parliamone. Dopo undici anni, mentre si dibatte su quale sia davvero l’eredità, se c’è un’eredità da dividere, e soprattutto su chi (e se ci) sono gli eredi, per la neonata casa editrice FaLvision di Bari, è apparso a marzo un piccolo volume, “Figli di B.: ad una voce per il teatro”, antologia fra teatro, cinema e musica dedicata a Carmelo Bene. Ne è curatore Carlo Coppola, ricercatore dalla variegata formazione in ambito teatrale e cinematografico, che ha cercato di coniugare le intuizioni di chi si è formato nella pratica attoriale e drammaturgica guardando a Bene come fonte di ispirazione, con riflessioni maggiormente sistematiche. Autori della pubblicazione insieme a Coppola sono alcuni protagonisti del teatro italiano e non solo, per lo più giovani: Carlotta Vitale di Gommalaccateatro, Vincenza Di Vita, Mariano Dammacco, Roberto Latini, Giuseppe De Trizio e Pierluigi Ferrandini.

Coppola, cosa possiamo iniziare a togliere al mito di Carmelo Bene per vedere meglio vizi e virtù dell’artista?

Dipende da chi siamo e come intendiamo leggere l’opera di Carmelo Bene. Per molti aspetti, credo sia giusto continuare a mantenere vivo il mito e l’ “incomprensibilità di cui esso si nutre”, così che i perditempo si tengano alla larga. In generale credo che demitizzare sia un peccato gnoseologico quanto quello di mitizzare. Allo stesso tempo occorre puntare proprio i temi essenziali dell’esperienza beniana: la matrice salentina, il rapporto con l’Assoluto, con la Comunicazione e quello con la Morte debbano essere i punti di partenza. Il resto è pettegolezzo, lasciamolo alle servette.

In che cosa la redazione del suo libro l’ha aiutata in questo obiettivo e ci dica se ritiene di averlo raggiunto.

Figli di B.: è un tentativo di riunire una serie di “seguaci” di Bene. Artisti che in qualche modo si siano imbattuti in lui per ventura o per scelta. Amare Carmelo Bene, in vita e in morte non è cosa facile, bisogna essere disposti all’Assoluto, come rispondere ad una chiamata vocazionale. Si ci imbatte per caso in questo Monumento, magari si cerca di staccarsi da esso, ma a fatica. Questo libro in qualche modo è una sorta di antidotum, nasce dall’esperienza pratica di Artisti nel voler Proclamare e in qualche modo Stigmatizzare quanto di C.B. che c’è in loro. Anche per questo tale lavoro non può dirsi definitivo.

C’è del Bene più nel teatro contemporaneo o nell’arte e nei nuovi linguaggi? E che c’è di Male nel teatro e nell’arte contemporanea?

Come molti autori della nostra letteratura, Carmelo Bene non poteva pensare ad una eredità. In modo molto più ardito pensava alla clonazione, ma questa è un’altra storia. Ciò che persiste di lui sono schegge, temi, vocalizzi come di cantante lirico, o voli. Ognuno dei miei compagni di questa pubblicazione ha una diversa idea o un motivo proprio per appartenere all’ “Ordine dei Carmeliani”. Ma per rispondere più compiutamente rispondo con le sue parole dette d’Amleto: “Più tardi mi s’accuserà d’aver fatto scuola. Come sono solo! E quest’epoca non c’entra nemmeno un po’.”

copertina coppola_beneSi può parlare di Bene senza rischiare di annoiare o sembrare un po’ retrò? I personaggi totalizzanti ritiene possano essere misura del tempo presente o studiarli serve anche ad andare oltre? E se si cosa c’è oltre Bene?

Personalmente rifuggo dall’idea totalizzante di esemplarità dell’arte, dalle balene rosse o bianche e dai pachidermi inattaccabili. Per questo studiare C.B. è un rischio anche per me. So che per alcuni è ostico, oltre che antipatico: ben pensanti, snob, per i radical chic, o semplicemente per chi si rifiuta. C.B. è la quintessenza dell’intellettualità meridionale, nella sua accezione più europea. È molto più vicino a Giordano Bruno, e G.B. Vico di quanto non lo sia Dario Fo o a B. Bertolucci, che pure stimava. Oltre Carmelo Bene c’è altra ricerca che parte o meno da lui. Egli ha né mostrata, negandone il pedagogismo, il resto tocca ai nostri contemporanei.

Quello che lei ha trovato nel suo libro è un Bene umano, troppo umano o disumano? E’ giusto che chi fa arte ambisca ad una vita del genere o la ritiene una ricetta estrema e pericolosa, e che solo rarissime eccezioni possono permettersi di indossare un abito come quello? In tal caso gli altri dovrebbero astenersi, in quanto fondamentalmente mediocri (come Bene spesso sottolineava) o esiste un giusto anelito dell’uomo a vivere una sua dimensione creativa sollevata dal giudizio?

Parlare di ritrovamento mi piace meno, e preferisco parlare di esiti di una ricerca e diciamo pure parziali. C.B. pare scherzasse sul suo cognome e sul non portare fiori alla mamma o alla zia per le feste comandate ribadendo lo slogan “Non Fiori ma opere di Bene”. Ho concepito questo volume come una testimonianza di affetto, per Lui morto e per coloro che gli sopravvivono, parenti, amanti, amici. Quanto alla mediocrità, di cui mi si chiede, di fronte al sua cultura enciclopedica e alla originalità della sua sua sintesi perfetta di arte e vita, chiunque è pressoché cieco, sordo e muto, storpio, oltre che stitico. Qualcuno lo è meno di altri, ed io, da curatore di un’antologia, ho puntato e scelto proprio questo qualcuno. Ho cercato di creare una sorta di Canone beniano, come anticamente si faceva nelle Accademie, e per vocazione tutti gli invitati anno risposto alla chiamata.

Bene era un genio? O una persona con una lancinante solitudine che ha chiamato poesia?

Ebbene sì, in tutta onestà credo di poter dire che Carmelo Bene fosse un genio, che avesse capito, come e più di altri che il teatro e l’arte, quindi la poesia, hanno a che fare con l’Assoluto, con il Sacro, non in senso religioso, ma in termini di Metafisica certamente. [Con Lorena Liberatore, l’anno scorso Coppola ha tracciato un profilo del Salento Metafisico di Carmelo Bene, sempre per l’editore FaLvision ndr] Il suo genio, a mio avviso, sta nell’aver colto in un modo lucido questa relazione trascendentale, un po’ come accade nel kathakali, forma espressiva di teatro-danza indiano. Per noi occidentali vedere il connubio tra Arte e Assoluto è difficile, ma Bene era pugliese e salentino, teso ad oriente per costituzione, forse anche per questo a lui era più chiaro. Per lo stesso motivo era famelico e bisognoso di affetto, come poche persone di cui io abbia sentito parlare.

Lolita e BabiloniaTeatri: età preadolescente e transiti complessi

lolita babiloniaRENZO FRANCABANDERA | La ninfa undicenne arriva in monopattino da fondo scena, attraversando la sala illuminata da un faro, mentre l’adulta ha appena finito di elencare la “babilonica” tassonomia di punti di vista, pareri, voci di popolo sul personaggio di Lolita: dal chi non ne sa, al chi la vive nel suo immaginario; la bambina è nell’età di passaggio dall’infanzia all’adolescenza, dove alcuni gesti iniziano a vivere il crinale dell’equivoco, diventa oggetto (e soggetto?) di seduzione. Come le more addentate dallo spiedino, gesto innocente e capace di un potenziale di provocazione adulta di cui chi lo pone in essere (e non parliamo qui della giovane attrice ma di ogni ragazzina di quell’età) può o meno essere consapevole, tutto in quell’età diventa ambiguo. Il corpo cambia, porta i segni dell’età feconda della specie umana, che socialmente si sposta vicino ai 40 anni, ma nella dinamica sessuale inizia invece prestissimo. Sempre più, in un’iconografia di diari, lucchetti, post-it, sms, canzoni di x-factor, fra bambine-ragazze, che giocano con le bolle di sapone e indossano capi di abbigliamento che le trasformano in signorine, che vanno in palestra di karate e di colpo ti sembrano Uma Thurman in Kill Bill, pronte a combattere per la vita.
Tutto questo c’è. Tutto questo nel nuovo spettacolo di Babilonia Teatri è visibile. Noi l’abbiamo visto, dopo il debutto al Napoli Teatro Festival, nella prima data della tournèe, ospitata nel festival L’ultima luna d’estate, storica rassegna di fine agosto che ha luogo nelle dimore d’arte del lecchese, diretta da Luca Radaelli e che prosegue fino all’8/9. (La prossima è prevista a Bassano per Bmotion e poi ad inizio settembre a Roma per Short Theatre).
In scena oltre alla piccola Olga Bercini, anche una Valeria Raimondi che, dopo un paio d’anni di chioma a zero, sfoggia una più tranquillizzante capigliatura altezza spalla. Lei e la ragazza si alternano nella lettura al computer, nelle scene di canto in playback. La Raimondi è volutamente in un ruolo quasi equivoco di madre-amica e regista sul palcoscenico, mentre lo storico collaboratore della compagnia, Vincenzo Todesco, opera i suoi interventi sul palco in maniera kantoriana, irrompendo in scena per sistemare questo o quello, amplificando la logica inganno-disinganno che ovviamente nella parte finale dello spettacolo viene mitigata per evitare che il climax di evocazione della sensualità si interrompa, mentre, come chi ha a che fare con gli adolescenti sa, la parola suicidio appare ogni tre per due fra sms e diari, mista a storie d’amore, racconti di rapporti conflittuali e avidi col cibo.
Lo spettacolo è in questi segni, in continuità con la modalità narrativa e di parola della compagnia, con gli elenchi e le raffiche verbali prive di emotività, di cantilena italica. Necrologi emotivi, asettiche travi a cui inchiodare il pubblico, ma con il tentativo, ormai in corso da alcuni spettacoli, di trovare anche altri segni. Va ad indagare un età su cui in Italia gli spettacoli sono pochi e mal confezionati, mentre molto e anche di grande pregio, vediamo arrivare dal Nord Europa, con proposte spesso di gruppo (le ultime di particolare significatività il lavoro di Gob Squad & Campo “Before your very eyes”, visto a Vie 2011 a Modena, anche quello sul tema dell’età del cambiamento, o il “Once and for all we’re gonna tell you who we are so shut up and listen” Total Theatre Award 2008 al Fringe Festival di Edimburgo, ospitato sia a Teatro i a Milano che a Vie a Modena, con un gruppo di vulcanici preadolescenti e adolescenti belgi).
Questo di Babilonia è uno spettacolo evidentemente di transizione, come l’età che racconta, e che forse sta cercando ancora una quadratura definitiva. Ha maggior compattezza nella parte iniziale, mentre nella seconda mezz’ora alcune buone idee restano un po’ slegate e non incidono quanto potrebbero, ricorrendo a qualche immagine un po’ più usata. Il finale vira sul noir, anche se non vuole definire, sancire, concludere. E anzi anche qui, come in Pornobboy, una macchina di quelle da beach party di Riccione, chiude il lavoro, inondando la scena di bolle di sapone.  E’ la prima volta, tuttavia, che la drammaturgia, la parola, non è il principale elemento. E che le evocazioni visive prendono una consistenza nel complesso coerente, in un equilibrio che può apprezzarsi. Chi ha figli di quell’età li troverà in scena, rappresentati in modo corretto, vero. E già questo, se il teatro è confronto critico col proprio tempo, è un risultato, anche se perfettibile, proprio nella levità poetica e nel progresso del linguaggio della compagnia. Lolita in fondo è un pretesto. Lolita ancora non esiste. Lolita potrebbe essere mia figlia: ma al primo fidanzatino che suona al citofono tiro appresso palloncini d’acqua bollente, giuro !

ExFadda: fantasia al potere in un angolo dell’Alto Salento

downloadVINCENZO SARDELLI | C’è bellezza quando qualche decina di ragazzi si riunisce per progettare, ed esorcizza la routine attraverso l’arte e il pensiero. Tanto più se questo rito apotropaico avviene nel Sud periferico, e ne nasce una fucina creativa in mezzo alla caotica movida salentina.

È un’umanità aperta quella che frequenta l’ExFadda di San Vito dei Normanni, ventimila abitanti tra Valle d’Itria e Salento, patria del tarantismo e delle rezze, tende a doghe sottili che caratterizzano gli usci delle case.

L’ExFadda è uno stabilimento enologico d’inizio Novecento appartenuto alla famiglia Fadda-Dentice di Frasso. Per anni in disuso, l’area, 3mila metri di edifici di pregio architettonico e 15mila metri di spazio verde recintato, è stata riqualificata grazie a un programma della Regione Puglia per le Politiche Giovanili.

L’ExFadda accoglie varie attività: laboratori d’inglese e di teatro, convegni, seminari, spettacoli, mostre, feste, attività sportive e giochi, fiere, mercati a km zero, produzioni audiovisive. Eventi come la rassegna internazionale del cortometraggio Salento Finibus Terrae, luglio inoltrato, con l’esoterica proiezione antelucana di corti noir. Tanti ospiti negli ultimi mesi, da Fausto Mesolella, a Raiz, da Piero Pelù a Niccolò Fabi e Rosalia De Souza.

C’è bellezza nello sguardo dei frequentatori di questo luogo: sciami di bambini, volontari che provano a trasformare gli spazi in contenitori culturali al servizio del territorio. Provano, appunto: perché i ragazzi del posto tendono a scorrazzare altrove, coi rituali edonistici di corteggiamento e di passeggiate in piazza che sembrano sfilate di gala. Paradossalmente, l’ExFadda è frequentata e conosciuta più da gente che viene da lontano. Rimane luogo di nicchia ancora sganciato dalla città. Lo ammette Gionata Atzori Lu Pirata: attore, giocoliere, performer, look da bucaniere. Gionata vuole cambiare la mentalità: smuovere l’atteggiamento di chi non fa, e si limita a spiare di soppiatto “dietro la rezza”.

Gionata è tra i promotori della Festa delle Fate e delle Favole, due giorni tra avventura e fantasy, svolta il 24 e il 25 agosto. Teatranti, giocatori di ruolo medioevali come le Guerre del Caos; prestigiatori, come Mago Vago; note celtiche, con il gruppo di musica irlandese Elfolk; arcieri, cantastorie di fiabe africane come Adama Zoungrana, e tanto altro ancora. Come Rossella Raimondi e Francina  Biffi, che avevano preparato a Milano, in pochi giorni, uno spettacolo sulle donne di strada. Partite in treno venerdì sera, arrivate la mattina di sabato, cammin facendo hanno rivoluzionato il copione per destinarlo ai tanti bimbi presenti. Circe ha ceduto a  Morgana, le prostitute sono diventate fate. Sortilegio del teatro, che materializza in tempo reale la sinergia tra attori e pubblico. A deliziare  i fanatici di Circe ci hanno pensato  gli addomi di Lucienne Musa e Cristina di Venanzio, danzatrici del ventre del gruppo Shadì. Sofisticate odalische, Lucienne e Cristina armonizzano mente e corpo in un cerimoniale che parla allo spirito, prima ancora che ai sensi.

Tutto si trasforma in quella zona franca che è il teatro C’è qualcosa d’ascetico nella giocoleria con fuoco dei Luminal FirePlay: boolas, bastone, devil stick, corde e sputafuoco diventano estensione immateriale.

Fino al Gran Teatro del Click, con Silvio Gioia e Marzia Ghezzo in uno spettacolo d’ombre cinesi: mani-personaggi, dita-cantanti, sagome disegnate dalla luce che riproducono paesaggi, città, club musicali. Fauna e flora evanescenti tracciano il bisogno d’amore. Un viaggio visivo e sonoro. Un alternarsi di comicità e poesia, che affascina.

La festa delle favole e delle fate
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Gioia d’ombre
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“M’hanno rimasto solo”: In Onda e la triste parabola di Luca Telese

teleseALESSANDRO MASTANDREA | Una parabola davvero insolita, quella tracciata dalla carriera televisiva di Luca Telese. Tanto insolita da non poter essere inquadrata sotto la sola lente del giornalismo televisivo. E’ infatti grazie alle sue naturali doti istrioniche che, nel corso degli anni, ha potuto dar prova delle sue indubbie capacità di grande attore, spaziando con disinvoltura tra generi assai diversi: dalla commedia all’italiana, alla tragedia esistenziale, non disdegnando tuttavia le sponde più leggere tipiche della sit-com.
Così, in questa estate 2013, sulla scia di questa parabola –che in verità appare un poco calante- i toni si tingono dei colori del dramma esistenziale, con il Nostro a vestire i panni del sergente Giovanni Drogo, di vedetta su un televisivo “Deserto dei Tartari”. Solo lui rimasto a difendere l’ultimo avamposto informativo di la’ dal quale il nulla sterminato incombe minaccioso. Perché “l’informazione non va in vacanza” ci tiene a sottolineare profeticamente nel promo di “In Onda Estate”, suo personale fortino giornalistico.
E se in vacanza l’informazione non ci va, figurarsi la politica. Sicché spetta proprio all’ex direttore di Pubblico Giornale raccontarcene le gesta in un talk ormai bollito, mentre gli altri suoi colleghi hanno già raggiunto esotiche mete balneari. Eppure poco più di due anni fa la vita sembrava sorridergli. Firma di punta al Fatto Quotidiano e volto noto della TV, amato dal suo pubblico, ha la fortuna di trovare in Luisella Costamagna la propria anima gemella – televisivamente parlando- femme fatale che saprà stregarlo, tenendone a bada l’innata propensione all’autocompiacimento. E’ questa la fase che nella storiografia classica si suole definire della sit-com: due stagioni di In Onda dove l’alchimia tra i due, sebbene sempre sul punto di deflagrare, produce frutti insperati nei loro genuini battibecchi, capaci di coinvolgere anche gli ospiti in studio. Sicché di puntata in puntata, i Nostri somigliano sempre più a moglie e marito sull’orlo di una crisi di nervi.
La felicità dura però troppo poco, e la bella Luisella viene sacrificata sull’altare della par-condicio per far posto al Porro Nicola, faccia nota della politica parlata in TV e nemico giurato del mite Marco Travaglio.
Gli equilibri della narrazione inesorabilmente cambiano, e anche in questo caso è il promo della nuova versione a tradire i futuri esiti da commedia. “In Onda, l’unica trasmissione con l’opposizione dentro”. Chi dei due “soliti ignoti” dell’approfondimento serale sia, di preciso, l’incarnazione dello spirito di “opposizione” non è mai stato chiaro, al contrario, è risultato invece palese come “l’audace colpo” che avevano in animo si sia tramutato in un gioco delle parti che li ha imprigionati. Nessun nuovo modo di scrivere e intendere il dibattito politico in TV, dunque, ma solo un scambio di battute che ricorda tremendamente quelli dei grandi caratteristi della pellicola diretta Mario Monicelli: con il Telese-Capannelle – “che come aspetto si presenta malamente, ma dietro la quale fronte si annidia l’intelligenza della volpe – a rintuzzare il Porro-Ferribotte che, come noto, “quando che parla.. tac, ogni parola è una sentenza”.
Con un piede fuori dall’emittente di Urbano Cairo, nuovamente orfano di co-conduttore, lo ritroviamo oggi a dover presidiare stoicamente questo avamposto in dismissione. Preso in mezzo tra i falchi del PDL e le colombe del PD, a dover discettare di condanne, IMU e agibilità varie, è un Luca Telese assorto quello che vediamo, probabilmente intento a pensare “ma chi me l’ha fatto fare”, o per dirla con le parole di Vittorio Gassman, rivolto ai suoi ex compagni di viaggio: “m’hanno rimasto solo ‘sti quattro cornuti!”.

http://www.youtube.com/watch?v=kXj_xu3Uadk

SignalCantieri: Alessandro Olla si racconta

CANTIERI3High_0GIULIA MURONI | “Che bello che animate questo posto! In questa piazza non si fa mai nulla. A parte le celebrazioni per la festa dei morti….” Ci fa venire un po’ i brividi l’affermazione della cordiale signora di Esterzili. La festa dei morti. Mi trovo a pensare che in fondo molti spettacoli non siano altro che cerimonie di morte. Coazioni a ripetere di maniera, senza vita, senza arte.

Esterzili è un paese di circa 800 anime, sul Monte Vittoria a 1200 metri dal mare, nella Barbagia di Seulo. È un territorio caratterizzato da insediamenti nuragici come Sa Domu ’e Urxia che, secondo la leggenda, era la casa della Maga crudele gelosa della sua botte piena d’oro, resa inaccessibile dalle mosche assassine “Is muscas macceddas”. In questo contesto si è svolta la terza edizione di SignalCantieri, festival organizzato dall’associazione TiConZero in collaborazione con SpazioDanza Cagliari.

La commistione dei linguaggi della musica elettronica e acustica, della danza contemporanea e di alcune incursioni teatrali, si è sviluppata nei luoghi del paese. I vicoli tortuosi, la piazza centrale di fronte al bar, la piazzetta della festa dei morti, le scalinate, sono stati gli elementi costitutivi delle sperimentazioni. Questo piccolo festival, che impegna, lontano dal mare, le nostre giornate di fine luglio da ormai tre anni, in questa edizione ha assunto le forme, per scelta e per necessità, di un cantiere artistico. Un’occasione formativa per incontrarci, fare rete, confrontare linguaggi e approcci e mostrarci al di fuori dei contesti protetti, di quei pochi luoghi conosciuti e rassicuranti. Uscire da quelle nicchie in cui è accettato e riconosciuto il senso del proprio lavoro implica un rimescolamento degli obiettivi, una messa in discussione destabilizzante ma ricca di possibilità. La relazione tra l’arte contemporanea e la cultura nuragica, il senso di lavorare in territori poco permeati da questi linguaggi, il gusto di modellare le performance su piccoli centri: di tutto questo abbiamo dialogato con Alessandro Olla, direttore artistico dell’associazione TiConZero e di SignalCantieri.

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Villaggio d’artista: oltre la dimensione del festival

villaggio d'artista meina giorno due-00RENZO FRANCABANDERA | Fermo restando il fatto che il soggetto pubblico resta in forma determinante il baricentro decisionale e il fulcro per la promozione dell’attività culturale su un territorio, esistono sicuramente tentativi di azione e promozione che cercano di superare l’occasionalità dell’incontro estivo, sviluppando promozione ed educazione al sensibile sul territorio di più lungo termine.

Siamo stati invitati alcuni giorni fa a respirare l’atmosfera di Villaggio d’artista, una tre giorni di studio e presentazione di progetti d’arte e pensiero, tenutasi in diversi luoghi del borgo di Meina (NO), sul Lago Maggiore. L’idea nasce con presupposti quasi utopici di convivenza sociale e naturalistica dove artisti, performer, danzatori e cittadini, in nome della valorizzazione di un’identità transfrontaliera (riconosciuta o da riconoscere), si sono incontrati per partecipare ad eventi e dimostrazioni artistiche, a laboratori e incontri.
Villaggio d’artista è un progetto dal potenziale senz’altro più ampio, di PerCorpi Visionari a cura di Antonella Cirigliano con Rodrigo Boggero e Laura Vignati, finanziato grazie al contributo del PO di Cooperazione Transfrontaliera Italia – Svizzera e dell’Unione Europea e al sostegno di Regione Piemonte e Canton Ticino. Si tratta quindi di un progetto di cooperazione territoriale (e già questa appare una soluzione interessante che prova ad andare oltre la logica del campanile) dal quale sono nati spettacoli, sculture, istallazioni, performances, danze e progetti site-specific degli artisti in residenza, poi aperti al pubblico il 25-26 e 27 luglio 2013 dalle h 17 alle 22, in numerosi spazi cittadini, urbani e rurali. Anche la dimensione “eccentrica” fuori quindi dal contesto metropolitano è un altro elemento che forse non genera grandi ricchezze, ma può fornire possibilità e un nuovo pubblico che invece nelle città è già stimolato.
Il moto artistico che anima la direzione di Villaggio d’artista è orientato al teatro e alla danza fra esperienza e sensi, un lavoro sul rapporto con la scena in cui il pubblico prende parte, è presente e diventa anche parte attiva (in forma più o meno volontaria). ma è proprio in questa fattualità che risiede il focus dell’indagine e le possibilità di un ampliamento del raggio d’azione dell’intervento formativo e di pianificazione.

Foto: www.ilvergante.it

Ecco a voi un video report su Villaggio d’artista

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Filosofia e teatro: una riflessione fra Castellucci, Motus e Latella dopo Dro

imagesRENZO FRANCABANDERA | Sempre maggiore è in me la convinzione che il nuovo ruolo del teatro e delle arti scenico-performative in generale, forme d’arte dal vivo per eccellenza, ormai superata la dimensione Otto e Novecentesca e i suoi portati ideologici dai contorni così definiti, si avvicini moltissimo a quello della filosofia, ovvero diventare un campo di studi che si pone domande e riflette sul mondo e sull’uomo, indaga sul senso dell’essere e dell’esistenza umana e si prefigge inoltre il tentativo di studiare e definire la natura, le possibilità e i limiti della conoscenza, allorquando l’uomo, soddisfatte le immediate necessità materiali, cominci ad interrogarsi sulla sua esistenza e sul suo rapporto con il mondo.

Le questioni sono profonde e lo spunto mi è stato fornito dalla programmazione del recente festival Drodesera, organizzato, come ormai da decenni, da Fies Factory – Centrale Fies, una delle eccellenze del concepire e sviluppare le arti sceniche e performative in Italia: prendiamo tre spettacoli, Motus con “Nella Tempesta”, Antonio Latella/Compagnia Stabilemobile al debutto nazionale di “A.H.”, e Romeo Castellucci con “Attore, il tuo nome non è esatto” (già presentato in forma di studio alla Biennale 2011 di Venezia). Ad alcuni giorni dalla fruizione, queste visioni ci paiono esemplificare la declinazione del filosofico nell’azione e nella prassi scenica oggi.

Si riconosce generalmente che le domande di carattere universale, il problema del rapporto tra l’individuo e il mondo, tra il soggetto e l’oggetto, vengano trattate dalla filosofia secondo due aspetti: il primo è quello della filosofia teoretica, che studia l’ambito della conoscenza, il secondo è quello della filosofia pratica o morale o etica, che si occupa del comportamento dell’uomo nei confronti degli oggetti e degli altri uomini, fino ad arrivare alla declinazione politica del pensiero.

Con questa suddivisione in macro categorie logico filosofiche vorremmo interpretare il fare arte da parte dei registi attraverso gli spettacoli menzionati: alla prima apparterrebbe il lavoro di Castellucci, tutto interno al tema del conoscere, del vero e del falso, della dimensione del sensibile, del materiale e dell’immateriale, ovvero di quella partizione che certa scuola semiotica italiana propose fra materiale e immaginario. Il daimon di questo spettacolo è Artaud: in un ambiente di luce naturale ma reso rosso dalla schermatura delle finestre, alcune attrici interpretano momenti di possessione “demoniaca”, come quella che dovrebbe essere dell’attore. Ma sono voci di possessione o registrazioni di Artaud? Cosa è naturale e cosa è schermato? Sotto quale luce vediamo e assistiamo al fare spettacolo oggi, sembra chiederci Castellucci, giocando forse anche sul ruolo antifrastico fra questa proposta sul daimon e quella del “Volto del figlio di Dio”, che tanto scalpore e fervore religioso era riuscita a suscitare.

nellatempestaAlla seconda macro categoria, quella pratica e poietica apparterrebbero, in questo suddividere, i due spettacoli di Latella e Motus. Siamo consapevoli dell’azzardo argomentativo e vogliamo circostanziare l’argomento a questo momento e a queste proposte artistiche, visto che, come per la filosofia, anche per il teatro non può darsi una definizione ultimativa e specifica: ogni pensiero sul teatro include, infatti, al suo interno una ridefinizione del concetto di arti sceniche, e la riflessione generale stessa sulle arti muta per il contenuto sempre diverso del fare arte, che evolve con l’evolvere della società e delle abitudini del genere umano. Su questo riprendiamo per esemplificare quanto diceva Aristotele stesso: “È giusto anche chiamare la filosofia (philosophian) scienza della verità, poiché di quella teoretica è fine la verità, mentre di quella pratica è fine l’opera (ergon); se anche infatti i (filosofi) pratici indagano come stanno le cose, essi non considerano la causa per sé, ma in relazione a qualcosa ed ora”.

Se dunque Latella e Motus possano essere, in questo tempo del loro indagare, identificati come esponenti di una sorta di filosofia pratica del teatro, cerchiamo di capire in che termini e dove sono le differenze, a nostro avviso.

La restituzione della dimensione spettacolare ad una valenza pratica, sembrava essere stata messa in crisi da talune tendenze della cultura contemporanea, che ritenevano superate le indagini ideologiche novecentesche (quelle à-la-Brecht ecc, per intenderci e semplificare in forma quasi banale).

Ma nell’ultimo trentennio del Novecento, una parte importante della produzione ha invece inteso in vario modo continuare a proporre una dimensione pratica del fare arte, e attraverso quella incidere sull’ambito “politico”. Guardiamo al caso di collettivi come il Living Theatre, e al recentissimo forte legame fra Judith Malina e i Motus, che ha portato a spettacoli più marcatamente “politici” del duo Nicolò/Casagrande. Riterremmo le loro questioni sul fare arte vicine ai temi dell’etica applicata.

Latella invece ha una portata meno immediatamente correlabile alla sfera politica, a cui però arriva per deduzione: il pubblico, infatti, nei suoi spettacoli resta pubblico, non viene portato in scena, non ha un ruolo attivo nell’azione teatrale, diversamente da quanto avviene in tutto il “progetto Antigone” dei Motus, fino ad Alexis, e poi nel finale de Nella tempesta (simile per certi versi a quello di Alexis, appunto). Motus sceglie da alcuni spettacoli di porre al centro il tema del fare, e del fare collettivo in particolare: all’azione collettiva come declinazione del pensiero ha chiamato il pubblico in più d’uno spettacolo, e in questi ultimi esiti in forma molto chiara. Più sfumato il tema del sostrato ideale che possa consentire poi a questo insieme di persone di continuare in forma collettiva ad incidere nella società. Immaginiamo la risposta sia interna al background culturale e politico del duo registico e senza’altro in “Nella Tempesta” il tema è da certi punti di vista meno enfatizzato che nel precedente “Alexis”, ma resta aperto perché non necessariamente ogni aggregazione di più individui mossi da un comune sentire è di per sé un valore.

L’argomento, con una combinazione davvero sorprendente, lo sviluppa sempre a Dro l’A.H. di Latella, la cui posizione sull’agire dell’uomo nel suo tempo appare evidentemente diversa (posizione che sembra restare abbastanza coerente nel tempo, attraverso le indagini su miti teatrali e letterari, da Medea ad Amleto, fino a Don Chisciotte e al Don Giovanni).

Questa posizione rivendica l’uso filosofico della ragione come tecnica più appropriata per rendere lo spettatore autenticamente libero, nel tentativo di svilupparne la riflessione razionale.

“A.H.” che ha un excursus tutto interno al filosofico e al rapporto fra l’uomo, la politica e il suo tempo, marcatamente vuole parlare del concetto di male (prima da un punto di vista esegetico, prendendo spunto dal momento della creazione biblica, “In Principio…Bereshit…”, la prima parola della Torah che inizia con la seconda lettera dell’alfabeto ebraico; e poi da quello morale, indagando non solo sulla figura di Hitler ma sulla fascinazione irrazionale sulla popolazione tedesca della persona e del personaggio).

La questione sollevata da Latella con il suo spettacolo risulta della massima importanza, non solo dal punto di vista spettacolare (spesso lo spettatore è sottoposto ad estenuanti prove di pazienza, con gesti affidati all’attore e allungati fino allo spasmo), ma anche in una prospettiva schiettamente teoretica. Abbia ragione o no, certamente Latella mette in guardia dalla tentazione di assumere la chiamata al momento collettivo come stile o cifra, disgiunta da una necessaria struttura razionale argomentativa, ma anche da un’indagine sull’irrazionalità delle dinamiche di massa, capace di rendere accettabili concetti altrimenti ripugnanti, come quello di violenza, di male, di schiavitù, ma che in più di un’occasione storica hanno ridotto l’uomo, complice la dinamica di massa, allo stato di burattino. La conclusione dello spettacolo tenta di congiungere la riflessione storica -le tragiche esecuzioni dei lager e la cenere dai camini dei campi di concentramento- con quella teoretica, ovvero il biblico “esser cenere” riferito al genere umano rispetto allo stato divino. Sempre che un dio esista.

Le favole rivivono?

Cendrillon_MiKanei_ DVizcayo� Olivier Houeix_01ANTONELLA POLI | C’era una volta….Il fascino della favola di Cenerentola scritta nel 1697 da Charles Perrault e dai Fratelli Grimm perdura e rivive ancora oggi a conferma che antiche novelle possono ancora suscitare l’interesse dei più grandi coreografi e musicisti.

La prima messa in scena sotto forma di balletto é datata 1945 e fu firmata da Rotislav Zakharov. Poi fu la volta di Nureyev, con la sua rilettura moderna in cui Cenerentola diviene una star del cinema, in seguito la grottesca versione di Maguy Marin ove bambole alla Botero calcavano la scena e in ultimo Pontus Lindberg, giovane coreografo norvegese che affronta la storia con un linguaggio contemporaneo ma con un finale borghese.

Nel 2013 é Thierry Malandain, direttore del centro coreografico di Biarritz che ci regala la sua Cenerentola, presentata già in Spagna à St. Sebastien e in Francia all’Opéra di Versailles.

Il coreografo, come lui stesso afferma, non si sentiva pronto a soddisfare la richiesta dell’Opéra di Versailles che gli aveva proposto questa nuova creazione. Il declic é venuto grazie alla citazione tratta dal Cosi parlo Zarathustra di Nietzsche, « bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante ».

E in effetti lo spirito del filosofo tedesco ha ben ispirato Thierry Malandain che é riuscito a fare con la sua compagnia di venti danzatori un lavoro impeccabile. La coreografia é semplice e intensa e il suo stile neoclassico, molto elegante e ricco di spunti originali che sorprendono, mettono in valore le qualità del personaggio femminile che vive il suo sogno fine alla fine divenendo realtà.

Il coreografo si rivela ancora una volta dotato di grande musicalità : ogni passo segue perfettamente lo spartito di Prokofiev ed é proprio la coreografia molto brillante a metterne in risalto la musica, a volte ripetitiva nel tema.

3-Cendrillon_Malandain Ballet Biarritz� Olivier Houeix_11Ci sembra evidente che questa creazione acquisti per Malandain un significato particolare sentendosi qui infatti libero di mettere in scena ció che gli interessa di più da un punto di vista artistico : la purezza delle linee, la costruzione dei duo, la rappresentazione dei sentimenti. E ci riesce benissimo con grande padronanza e mostrando una profonda sensibilità grazie anche alle capacità degli artisti in scena e in particolare di Miyuki Kanei e Daniel Vizcajo, coppia che balla con grande leggerezza facendo sognare il pubblico. Da non dimenticare la scenografia che non cambia mai durante lo spettacolo: decine di scarpe da donna nere con tacchi alti e tutte uguali, sospese lungo fili che discendono dal soffitto del palcoscenico lungo le tre pareti del palcoscenico. Il loro effetto ottico é sorprendente dato che vedendole da lontano si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un volo di rondini.

Questa atmosfera aerea pervade tutto il balletto, non si avverte mai a fondo la gelosia o la superbia delle sorellastre o della matrigna che danza con l’ausilio di due stampelle. Al contrario, l’interpretazione di questi personaggi interpretati da tre danzatori calvi sono carica di ironia. E il finale é a sorpresa: i danzatori salutano il pubblico sulle ultime misure della partizione: un’idea di riempimento della musica che poteva essere troppo lunga o una scelta ragionata? In ogni caso Malandain vince la sfida e afferma ancora una volta di più il suo stile coreografico limpido che nulla toglie ai linguaggi contemporanei a volte troppo oscuri e incomprensibili. Da non perdere quindi al teatro Romano di Verona il 22, 23 e 24 agosto prossimi.

Foto Olivier Houeix

UN VIDEO DELLO SPETTACOLO AL LINK SEGUENTE

Cendrillon par Thierry Malandain à Versailles

“Cosa avrà voluto dirci Rezza con questa intrigante cazzatella?”

antonio rezza_foto valentina pierucciANDREA BALESTRI | OGGETTO: Pensieri su Pitecus, di Antonio Rezza

DOVE: Villa Schiff a Montignoso (MS), all’interno della rassegna Lunatica Festival

QUANDO: 2 agosto 2013

AUTORI: Antonio Rezza, classe 1965, è “il più grande performer vivente senza ombra di dubbio”, come lui stesso si definisce e, chi scrive, non può dargli torto. Flavia Mastrella, scultrice e regista, regala a Rezza le sue creazioni, degli “habitat” in cui il performer mette il suo corpo e il suo volto e intorno ai quali costruisce i vari segmenti dello spettacolo. La coppia lavora insieme da 25 anni e recentemente hanno vinto il Premio Hystrio Altre Muse.

CONCEZIONE: La lista di personaggi che Antonio Rezza ci presenta è immensa, va da Giovanna d’Arco a un progettista di barriere architettoniche, dal misantropo Gidio ai quattro evangelisti. Questo ampio campione di umanità grottesca è interpretata con un’ancor più ampia gamma di espressioni e voci che emergono dalle lacerazioni degli habitat disegnati da Mastrella. Lo spettacolo ha debuttato nel 1985, ma, avendo un apparato scenografico molto “leggero” e mantenendo immutata la sua efficacia, RezzaMastrella lo porta ancora in tour. Però se ne percepisce l’età: in confronto agli spettacoli più recenti questo “è preistoria”, come dice lo stesso Rezza, anche durante la recita.

TROVATE: Spesso Rezza abbandona i personaggi per rivolgersi al pubblico, spesso mortificandolo (“Per me sei solo 12€ che camminano”) o minacciandolo (“Ridi bambino, che prima o poi i tuoi genitori moriranno”). È una formula che ricorre sempre uguale nel teatro rezziano, ormai quasi fondativa, ma strappa sempre risate e applausi.

Ma la vera trovata, in questa particolare recita, gli è offerta dalla musica che proviene dalla vicina festa del Partito Democratico. Inizialmente fa capire che gli è  stato assicurato che il rumore non ci sarebbe stato e che aspetterà il silenzio prima di iniziare lo spettacolo; a un certo punto addirittura si interrompe, ma per poco. Avrebbe ragione a protestare, ma usa questo capriccio come pretesto da tirar fuori nei momenti più inaspettati, creando momenti di improvvisazione esilaranti, al di là delle invettive contro il pubblico.

Prima dell’inizio dello spettacolo è stata trasmessa anche una puntata di Troppolitani, un programma tv di Rezza e Mastrella che andava in onda su Rai3 più di dieci anni fa.

PUBBLICO: Il linguaggio comico su cui si basa lo spettacolo permette di trasformare gli spettatori in vittime e di trattarli come un pubblico che non capisce niente. Questo meccanismo satirico ha una lunga tradizione, ed è tuttora molto diffuso, ma Rezza è particolarmente esperto, e lo porta a livelli esilaranti. Durante l’interruzione dello spettacolo c’è stato anche uno scambio di battute tra uno spettatore –che accusava Rezza di essere presuntuoso- e l’artista stesso, che ha deciso di andare avanti lo stesso, ma solo dopo avergli dato del “coglione”.

Gli applausi sono frequenti, ma, come fa notare l’artista, raramente coincidono con la fine degli sketch. Chi va a vedere Antonio Rezza sa cosa aspettarsi e prova piacere anche nell’essere mortificato.

FOTO: Di seguito, cliccando sull’immagine, è possibile accedere allo slideshow dello spettacolo di Antonio Rezza, visto dalla macchina fotografica di Valentina Pierucci (sua anche la prima in alto) Antonio Rezza in "Pitecus"

Tanz Camerini!

camerini1MARAT | Luglio 1982, Italia Mundial. Ci si abbraccia ai gol di Pablito Rossi. Il partigiano Pertini esulta in piedi davanti al mondo. E si balla. Grazie ad Alberto Camerini, Arlecchino dinoccolato, esploso l’anno prima con Rock’n’roll robot. È l’estate di Tanz bambolina, via di mezzo fra i Kraftwerk e i falò sulla spiaggia. Pare qualcosa di nuovo. In un paese quasi da bere, grasso di droghe, rigurgiti fascisti, Moncler. Ascesa e caduta di un genietto bruciatosi col fuoco. E con un Sanremo disperatissimo. Prima di tornare in forma. E vederlo a Ferragosto al Carroponte di Sesto. Che (non) si esce vivi dagli anni Ottanta.

Camerini, vieni definito un precursore.

«Merito anche di Roberto Colombo, mio storico produttore. Insieme eravamo sintonizzati su quello che succedeva in giro per il mondo, abbiamo portato in Italia un linguaggio internazionale e contemporaneo. Certo, da un altro punto di vista non eravamo per nulla folkloristici, slegati dal territorio. Diciamo che non eravamo un olio d.o.p.”.

Ovvero?

«Intendiamoci, anche la musica veneziana del Settecento è folklore, non ne parlo con toni dispregiativi. Ma di certo non mi apparteneva e un po’ l’ho pagata, soprattutto negli Anni Novanta. Ma in realtà le 126 battute al minuto sono tornate molto presto».

E non se ne sono più andate.

«D’altronde ci si incastra perfettamente sui gusti dei nuovi dj, è musica per il corpo, per chi ha voglia di muoversi. L’altro giorno ho ascoltato l’album di Neil Young, tutto analogico. Devo dire che mi ha fatto pena. Ne capisco il valore e anche l’importanza, ma la qualità è da mani nei capelli. Il digitale si armonizza con il contemporaneo, continua a proporsi con nuove caratteristiche».

La moda però è anche revival.

«Già. Raffaella Carrà ormai la si sente perfino nei cessi dell’autogrill».

Differenze coi tuoi anni d’oro?

«Viviamo un tempo sospeso. Non esistono più passato, presente e futuro. Una volta le produzioni indirizzavano i gusti degli ascoltatori. Oggi invece il fruitore è libero di scegliere in totale autonomia, ogni cosa a disposizione di fronte a sé».

Com’è il tuo pubblico?

«Dalle famiglie giovani al culmine della loro bellezza, fino ai disperati, ai rockettari, ai darkettoni funerei, a gente del tipo “o la figa o la morte”. E in mezzo tanti che frequentano le discoteche. Perfino qualche nostalgico della Cramps e quindi della chitarra acustica, tutti over 50».

Il successo?

«Positivo. Molto. Esaltazione, fama, soldi, la nascita della bambina, una grande casa. Ma come succede a tanti, diciamo che a un certo punto ho picchiato la testa sul soffitto, divenendo la caricatura del cantante superbo, che si crede arrivato, del “faccio tutto io”. Mi è mancata la presenza di un manager in gamba che mi aiutasse. E così ho perso la moglie e ho venduto la casa. Ma ora non posso lamentarmi, quando lavoro è una festa. E poi c’è la mia famiglia. Mia figlia è una scrittrice, mio figlio vuol fare il giornalista».

Meglio la rockstar. Ma perché a un certo punto ti separi da Roberto Colombo?

«Perché mi tradì per andare con Miguel Bosè, più bello, figlio di una ex-Miss Italia, roba da classifica internazionale».

Un momento difficile.

«Hanno molto esagerato questa cosa. Guarda, fu solo un piccolo esaurimento, un po’ di trattamento sanitario obbligatorio».

Rise and fall del nostro Bowie?

«Magari. Almeno per il conto in banca…».

L’hai conosciuto?

«Mai. Comunque mi ha sempre fatto impazzire, fin dai tempi di Ziggy Stardust. Che secondo me si poteva limitare al rise, senza fall».

Il tuo ultimo lavoro risale al 2005: Kids wanna rock.

«Un album punk, un po’ in stile Billy Idol, Rancid, Nofx. Mi piace il sound. E poi sui testi ho lavorato molto. Un po’ di slang e un po’ di D’Annunzio, quei suoi superlativi fuori moda. I parolieri italiani sono da sempre d’annunziani».

Dei colleghi chi ti piace?

«Finardi è un grande amico, ci stiamo riavvicinando in maniera fraterna. E poi mi piacciono le bionde signore settecentesche venete. La Patty Pravo, l’Ivana Spagna, la Rettore. Sono un po’ le mie sorellone disperate. Tu pensa solo a una come la Donatella, poteva essere Lady Gaga ma non ha trovato nessuno che la lanciasse sul serio».

Progetti?

«Mi piacerebbe comporre un’opera: “La bottega del caffè”. Qualcosa di sperimentale, legato all’elettronica».

Il titolo rimanda alla tua unica esperienza sanremese nel 1984.

«Eravamo già alla canna del gas. Stava per finire il mio legame con la CBS, mi portarono lì ma mi dissero: “dopo ti devi ridimensionare”. Stamparono a mala pena il disco. Ero in un down pazzesco, sembravo in astinenza da qualsiasi cosa, avevo i nervi a pezzi e mi creai intorno tutta una mia paranoia».

Ma?

«Ma nei giardini dell’hotel una notte incontrai Patty Pravo. E fosse solo per questo, ne è valsa la pena».

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