fbpx
lunedì, Aprile 29, 2024
Home Blog Page 413

“Not here, not now”: Cosentino e lo sberleffo alla Abramovic per interrogarsi sul senso dell’arte

cosentino not hereLAURA NOVELLI | In alcuni dei suoi precedenti lavori ci ha raccontato con funambolico disincanto l’idiozia televisiva che detronizza il teatro (“Antò Le Momò”), l’ingarbugliato non senso di un’epopea spaziale dal sapore infantile (“Primi passi sulla luna”), l’agonizzante letto di morte di un’avanguardia artistica mendica e degna dei suoi tempi (“Esercizi di rianimazione”). Adesso Andrea Cosentino, una delle figure più interessanti della nostra scena, approfondisce ancora meglio quel rapporto tra l’arte e la vita che è il suo reale campo d’indagine e in “Not here, not now”, visto ancora in forma di studio al teatro Palladium di Roma nell’ambito di “Teatri di Vetro”, ragiona – e ci fa ragionare – in modo straordinariamente intelligente sulla falsa ritualità in cui si consumano certe pratiche di perfomance assurte a capolavori di arte contemporanea e, ancor meglio, sulle relazione intercettabili tra performance, teatro ed esistenza umana.

Il suo modo intelligente di operare è un modo giocoforza sghembo, rovesciato, comico. Un modo che accosta la cauta fisicità del mimo all’istrionismo dell’attore volutamente eccessivo, la sagace (auto)ironia del clown alla semplicità lirica della marionetta, le linee aperte del cabaret al racconto biografico della narrazione, il senso del ridicolo di Chaplin alla malinconia di Lecoq, la romanità di Petrolini alla prossemica burattinesca di Totò. Dietro tutto questo materiale si nasconde ovviamente lui, Cosentino. Con la sua storia di figlio e di padre. Con la sua tartassante indagine sul senso dell’essere artisti oggi. Con il suo insoddisfatto bisogno di ritrovare nel fare artistico quella verità che Artaud gli – e ci – ha insegnato così bene.

Cuffie insonorizzate sulle orecchie, occhi chiusi, voce quasi sussurrata: all’inizio del lavoro (diretto da Andrea Virgilio Franceschi), egli è uno dei “fortunati volontari” che hanno pagato 15 euro per sperimentare sulla propria pelle “The Abramovic Method”. Ovverosia: centottanta minuti di fuga da sé (e dunque dal proprio corpo) che la celebre performer serba garantisce a quanti, privati di ogni distrazione tecnologica (orologi, telefonini, i-pod, ecc.) e immobili in tre posizioni umane fondamentali (in piedi, seduti e sdraiati), vogliano trasformarsi nei soggetti attivi di una sorta di trance venduta come un’esperienza artistico-spirituale davvero unica. Il performer debuttante fa lo snob. Se la prende con il pubblico. Ironizza sul miope provincialismo di chi crede ancora nella rappresentazione, nel teatro, nelle opere classiche (“obsolete”). Lui non è né qui né ora: “not here, not now” appunto. E’ fuori dal corpo. Altrove. Vola. Il suo io ha le ali. Lui sì che è contemporaneo. Salvo poi dover ammettere che ci troviamo effettivamente in un “teatro”, in un “qui” e in un “adesso” che rappresentano la specificità del fatto teatrale da sempre.

E allora? Dov’è l’arte? Cosa è davvero arte? Esiste ancora la possibilità di un’immedesimazione credibile? Ha ancora senso parlare di una finzione che si tramuti per gli astanti in esperienza intellettuale e/o emotiva? Oppure veramente basta mettersi in una teca e lasciarsi guardare per essere soggetti/oggetti artistici? O, ancora peggio, è sufficiente credere a qualsiasi idiozia pur di apparire colti, aggiornati, caparbiamente contemporanei?

La drammaturgia dello spettacolo cammina dunque lungo molteplici prospettive (il richiamo storico a Duchamp e a Fontana, la caricatura del critico, l’arguta definizione dell’artista che suona come un anatema dalla forza possente) ma mette insieme troppe cose. Forse, si tratta semplicemente di organizzarle meglio e di dare loro un impianto registico più coraggioso, più cinico, più coeso. Spesso, ad esempio, “l’arte” della Abramovic si mescola a quella “cosentiana”, in un gioco di autodenigrazione che ammicca al pubblico ma non trova ancora, secondo noi, il giusto equilibro.

E’ infatti proprio nelle pieghe dell’autobiografia che Cosentino rischia di ammorbidire un po’ troppo la genialità di questo splendido studio (già avviato mesi fa in seno al progetto “Perdutamente” del Teatro di Roma). Da un lato, il riferimento alla mamma bambina che imbocca il padre/nonno, ormai consumato da una grave malattia, con il cibo versato direttamente nello stomaco “aperto” serve proprio a spostare l’ago della bilancia verso la vita, dimostrando che la realtà supera sempre la fantasia (tanto più la furbizia d’artista); dall’altro, i continui riferimenti alla figlia e alla filastrocca della pappa sembrano ridondanti, sebbene non slegati tematicamente.

Quando poi lo sperimentatore dell’osannato metodo diventa l’Abramovic in persona e finisce in una serie di brevi video (li firma Tommaso Abatescianni) che ridicolizzano celebri performance dell’artista, qui sì che il rovesciamento assume i toni di una perspicace intelligenza comica e il divertimento è garantito. Divertimento che funziona pure da necessario vettore della scena finale, virata sul tragico: Cosentino/Abramovic appare in scena in camice bianco e tacchi vertiginosi, si spoglia, si uccide con un coltello e si cosparge il corpo di ketchup. Se – come sostiene l’artista serba – nella performance il coltello è vero e il sangue è sangue e invece nel teatro il coltello è finto e il sangue è ketchup, in questo epilogo tutto si confonde e si mescola. Resta la vita. Il corpo morto dell’attore, che poi risorge per i consueti saluti finali. Il ketchup sul palcoscenico. La voglia di continuare a farsi domande. A scavare nell’autenticità dell’esperienza artistica.

Per amor di cronaca va detto che con questa installazione “didattica” Marina Abramovic – ormai sessantaseienne e dunque immaginiamo non più in forze per certe esibizioni estrose – è stata chiamata, l’anno scorso, anche al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano. E fu proprio in occasione dell’apertura della “mostra” che l’assessore alla cultura del capoluogo lombardo, Stefano Boeri, entusiasta cavia del “metodo”, svenne durante la performance. Anche allora realtà e finzione si sono irrimediabilmente (con)fuse. Impossibilitato a provare fino in fondo cosa significasse uscire dal proprio corpo, il povero Boeri si è ritrovato steso in ambulanza con la pressione a terra. E questo la dice lunga sugli sgambetti del caso. E, ancor più, sull’autorevole potere della realtà.

L’«Otello» di Massimo Navone: da tragedia della gelosia a tango dell’invidia – il videoreport

otello 05FRANCABANDERA E SARDELLI | Questa riflessione è a più voci. Si compone del commento allo spettacolo di Vincenzo Sardelli, spettatore sia della versione dell’anno passato che di quella 2013, e di una video intervista ai protagonisti realizzata da Renzo Francabandera che trovate in calce all’articolo. Partiamo senza indugio, dunque.

                                                                      *       *       *

Uscendo dal Menotti dopo aver visto l’«Otello» di Massimo Navone, viene naturale a una spettatrice commentare: «Ma Shakespeare non aveva capito niente di quest’opera, perché avrebbe dovuto intitolarla “Iago”». Osservazione paradossale. Come se il grande drammaturgo non fosse, per così dire, il cronista autore del “pezzo”, ma un improvvido redattore che, in sede di “cucina”, avesse sgarrato la scelta del titolo.

Forse la spettatrice ignorava il testo originale. O forse, di quest’opera, ha sottolineato la vera essenza proprio Navone, che assegna al viscido Iago un ruolo da protagonista ancora più sbilanciato rispetto alle intenzioni dell’Autore. Di contro il regista ridimensiona il Moro, degradato a debosciato burattino, ripetutamente giocato dalle arti manipolatorie dell’infido Alfiere.

Già nella regia dello scorso anno Navone aveva fatto di questa tragedia – ambientata in una milonga stile anni Quaranta – un dramma dell’invidia più che della gelosia. E aveva spostato il baricentro su Iago, così da declassare Desdemona e Otello al ruolo di gregari. Operazione che potrebbe essere legittima fino in fondo se la personalità di Iago (interpretato da Marco Maccieri) fosse esplorata in tutte le sfumature che contrassegnavano la pièce shakespeariana, magari andando “oltre”. Se cioè Navone avesse realizzato un’operazione alla Stoppard, che in «Rosencranz e Guildestern sono morti» assegnava a due personaggi secondari dell’Amleto il ruolo di protagonisti, mutando la focalizzazione della storia.

Ma qui Iago appare come una una figura un po’ troppo schematica, machiavellicamente inclinata al male, compiaciuta di una malvagità gratuita. Bisognava forse puntare di più sulla complessità dell’invidia di Iago, sull’analisi delle motivazioni alla base della sua tragica trama: sociale e di rango all’inizio, antropologica e psicologica dopo, legata alla propria gelosia verso la moglie e al desiderio di possedere Desdemona per vendicarsi di Otello. Questo Iago non è né una creatura infernale, né uno psicotico. È un mediocre senza scrupoli. Non affiora abbastanza la sua disperata incapacità di amare. È taciuto il presupposto che per lui l’amore esiste come natura non dominata dalla ragione, come eros degradato a lussuria animalesca, con tanto di deriva misogina.

Navone rispetto alla messinscena dello scorso anno attribuisce un ruolo più incisivo alle luci, più spazio alla danza, al tango come tensione emotiva e commento ossessivo. Ma i tagli effettuati nel copione semplificano la pièce sul piano logico, la limitano su quello introspettivo e ne inficiano la piena comprensione. Se il racconto dell’innamoramento tra Otello (Giovanni Rossi) e Desdemona (Sara Bellodi) è banalizzato, e non si ricostruisce la grandezza del sentimento che li lega, non si può cogliere appieno il delirio che acceca Otello una volta entrato nel tritacarne della gelosia. Se la scena del fazzoletto e quella in cui Desdemona perora la causa di Cassio (Giusto Cucchiarini) sono ridotte all’osso, perde di senso la reazione parossistica del Moro, qui un fantoccio, mentre nell’originale è personaggio di tal spessore da guadagnarsi i galloni di comandante nella Venezia razzista d’inizio Seicento.

Evaporano anche le sfumature interiori del rapporto tra Iago e sua moglie Emilia (Cecilia Di Donato). La stessa Desdemona qui è una creatura evanescente. Mentre la sua dignità, la sua famiglia e la sua vita vanno a rotoli, lei non capisce, e passa da un ballerino all’altro. La sua passione per il tango lascia sullo sfondo quel ruolo angelico che la cultura puritana dell’epoca e lo stesso Shakespeare le avevano assegnato.

Scelte coraggiose quelle di Navone,  che necessitano d’ulteriore rifinitura. E usciamo dalla sala con la sensazione che gli stessi attori (figurano anche Luca Mammoli, Roderigo, e Giulia Angeloni, Bianca) non credano fino in fondo all’operazione, poiché la loro recitazione sembra aver smarrito un poco dell’originaria forza propulsiva.

Ecco ora le video interviste di Renzo Francabandera
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=nDpUAaWBBYc]

Damiano Michieletto fra lirica e prosa, Italia ed estero

damiano michielettoNICOLA ARRIGONI | Ha trionfato a Salisburgo dove tornerà per dirigere Falstaff di Giuseppe Verdi, è impegnato a Copenaghen nella regia della trilogia pucciniana e a luglio sarà alla Scala con Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi. Damiano Michieletto è uno dei registi teatrali più corteggiati dal mondo della lirica e dai grandi teatri europei eppure rivendica la sua origine teatrale: «Sono impegnato sul fronte lirico, ma nasco come regista di prosa, mi sono formato alla Paolo Grassi e all’inizio della mia carriera ho fatto teatro ragazzi».

Non vuole prendere la buona abitudine del teatro di prosa?

«Se mi è possibile almeno una regia all’anno me la concedo, come è accaduto con Il ventaglio di Goldoni per lo stabile del veneto e il circuito Arteven».

E perché Il ventaglio?

«Perché è una commedia divertente, frizzante, giovane e simbolica».

Simbolica?

«Il protagonista è il ventaglio del titolo, è un oggetto simbolo che ho trasformato in personaggio. E’ l’unica commedia di Goldoni che ha per titolo un oggetto e non un personaggio o un luogo. Vorrà dire pure qualcosa?».

Da qui la sua idea di trasformare il ventaglio del titolo in personaggio?

«Sì, il ventaglio è nel mio allestimento un personaggio in carne ed ossa, che dà voce ai personaggi, all’amore e alla loro cognizione dell’amore. E’ a metà strada fra Eros e Puck del Sogno di una notte di mezza estate. Per dare voce a questo ‘personaggio’ ho usato i sonetti di Shakespeare. Come il ventaglio passa di mano in mano ai vari personaggi nella commedia di Goldoni, così nel mio Ventaglio il personaggio dà la parola ai vari innamorati porgendo loro il microfono, dando loro l’opportunità di raccontarsi, di svelarsi al di là del testo».

Non si rischia di perdere l’unità, il meccanismo del testo goldoniano?

«Questo lo devono dire gli spettatori. La storia raccontata da Goldoni c’è tutta».

Portata in un contesto di forte contemporaneità?

«E dopotutto Il ventaglio per ciò che racconta è una commedia senza tempo, che può essere ambientata nel XVIII secolo come ai giorni nostri».

La sua scelta è per i nostri giorni?

«Il teatro si svolge sempre e comunque nel presente. Ho messo in scena ragazzi di oggi, alle loro spalle c’è un foglio/lavagna in cui Cupido/Puck o il ventaglio scrive, spiega gli intrecci della commedia. Alla fine quel foglio in cui campeggia la parola Amore sarà tutto scritto, mentre i personaggi si presenteranno quasi nudi, come dire svelati nel loro spirito, ma anche resi inermi di fronte al potere d’amore che non guarda in faccia nessuno».

Il suo intervento non è stato solo registico, ma drammaturgico. Quanto influenza il suo modo di fare regia il fatto che per gran parte del tempo lavori nei paesi di lingua tedesca in cui il dramaturg è figura costante in ogni produzione?

«All’estero gli interventi sui testi, anche quelli consacrati dalla tradizione sono all’ordine del giorno. Ma non sempre sono apportatori di chiarezza, o meglio non sempre l’attualizzazione si giustifica».

C’è una prassi che rischia di divenire pretestuosa?

«Non è detto che ciò che accade all’estero sia migliore di quanto accade da noi. Certo c’è la voglia di leggere i linguaggi in una chiave che possa dire del nostro contemporaneo è più forte all’estero che da noi».

Ed è quello che lei ha fatto con Il ventaglio?

«Ho iniziato a fare teatro facendo spettacoli per ragazzi. Il mio obiettivo è fare spettacoli che possano essere fruibili per ragazzi di quindici anni, che attraverso l’uso della musica e dei microfoni, attraverso un approccio contemporaneo aiuti i più giovani a sentire proprio il linguaggio dello spettacolo dal vivo».

E questo vale anche per la lirica?

«Cambiano i tempi produttivi, cambia il linguaggio ma non il mio obiettivo: tenere una narrazione, una storia».

Ed è questo che le chiedono all’estero? Come si spiega il suo successo?

«Non lo considero un successo. La lirica è venuta quasi per caso. Mi hanno proposto un lavoro, è piaciuto e da cosa è nata cosa. Molto semplicemente, mi direi molto naturalmente».

Ma cosa piace delle sue regie?

«Diciamo che all’estero hanno molta considerazione del nostro modo di fare teatro, soprattutto nell’ambito della lirica. Siamo pur sempre il paese che ha dato i natali al melodramma. Credo che ciò che piece delle mie regie è che alla fin fine, per quanto l’allestimento sia lontano da quelli che noi consideriamo i canoni tradizionali, ciò che arriva è la storia, una vicenda che voglio lo spettatore possa vivere e godere dall’aprirsi del sipario agli applausi finali.  Il pubblico, quando si apre il sipario, deve entrare in quella storia, essere partecipe di ciò che accade».

Inutile dire che la lirica è tutto un altro mondo rispetto al teatro di prosa?

«Cambiano i meccanismi e i tempi di produzione. Hai maggiori paletti e soprattutto c’è una complessità che nel teatro drammatico non è sempre possibile incontrare. Si tratta di aspetti importanti ma di caratteristiche organizzative con cui ti scontri all’inizio ma che poi riesci a metabolizzare. Ciò che è importante e avere un’idea, una storia da raccontare, se hai in mente quello non c’è ostacolo, organizzazione, complessità che tengano».

C’è differenza fra il pubblico italiano e quello che trova in Austria o in Germania?

«Il pubblico è la relazione che il teatro, gli attori, il regista riescono a realizzare con la città in cui operano. Per questo in Italia non c’è un pubblico, o meglio ci sono appassionati di teatro, lirica e musica che per una loro predisposizione vengono a teatro. In Germania, come in Austria si lavora in teatri con compagnie stabili che sanno costruire un’estetica, un dialogo con la città. Da noi tutto ciò non esiste».

Insomma da noi è una sorta di miracolo che si vada in scena?

«Il miracolo da noi è il pubblico. Il sistema dello spettacolo dal vivo non fa nulla per il pubblico, se non blandirlo. Chi viene a teatro a vedere la lirica, uno spettacolo di prosa o ad ascoltare un concerto, viene forte dei suoi interessi, è una sua scelta autonoma, libera. Nessuno lo interroga, lo convoca. E’ come un ospite inatteso il pubblico nei teatri italiani».

Non è così all’estero?

«Direi di no. Il teatro è una parte centrale nella vita delle città, la stabilità della compagnia, la possibilità di progettare a lungo termine rendono tutto meno effimero. Non da ultimo i teatri – in Germania soprattutto – sono vere e proprie imprese che danno lavoro a centinaia di persone, sono un tassello non secondario dell’economia della città. Ma soprattutto l’attività teatrale è monto spesso in dialogo con la città, mentre in Italia ciò che fanno gli stabili o le fondazioni liriche coinvolge solo marginalmente la vita dei cittadini se non come proposta di svago».

E il pubblico in tutto ciò?

«Cambia, partecipa, sente il teatro e lo spettacolo non più come un lusso del tempo libero, ma come qualcosa che gli appartiene, sente che ciò che accade in scena lo riguarda da vicino, ha uno stretto legame col suo vivere quotidiano. Da noi non è così. Il pubblico si costruisce solo se il teatro riesce a intessere relazioni con la comunità in cui è inserito».

Le voci di dentro di Toni Servillo

servillo voci dentroRENZO FRANCABANDERA | Sono i fratelli Servillo a dare corpo e voce ai fratelli Saporito. Non una scelta casuale, forse, quella di Toni Servillo (regista e interprete nella parte di Alberto) nel volere a fianco proprio Peppe (per interpretare la parte del fratello Carlo) in questa rilettura di uno degli stracult nati dal genio eduardiano.

Entriamo sul palcoscenico: è una stanza bianca vuota, un contenitore neutro che potrebbe con facilità essere ambiente per un Ibsen. Questo ci comunicano gli ambienti di Lino Fiorito, esaltate, in questa strada verso una dimensione assoluta del territorio ideale, verso una sorta di decontestualizzazione dalla matrice territoriale, dalle luci di Cesare Accetta, capaci di diventare, nella seconda metà dello spettacolo quasi epifanie ectoplasmatiche, di restituire un turbamento pirandelliano (checché ne dica Servillo nell’intervista che vi riportiamo in calce) alla lettura del classico. Chi ricorda la regia di Francesco Rosi che ha girato alcuni anni fa e interpretata da Luca de Filippo, avrà ben presente il realismo di quella scena, la cucina da interno napoletano anni 30, con mestoli, padelle, tegami, verdura. Qui non c’è nulla. E ad esaltare questa scelta di privazione dell’elemento ambientale più scontato, rileviamo l’assenza di musica per tutte le due ore di spettacolo, eccezion fatta per alcuni inserti di voci di strada a inizio e fine di alcuni atti, curati da Daghi Rondanini: forse la più radicale delle scelte di regia.

In questo mondo straniante gli attori portano in scena una versione corretta, compatta, nel complesso ben interpretata. Se la lettura più facile e popolare viene sottratta attraverso la scelta di neutralizzare o eliminare questi elementi più scontati, la scelta non arriva in fondo per via di altri elementi più intellegibili, tradizionali e di didascalia. E’ il caso dei costumi lisi e da caseggiato piccolo borghese e proletario di Ortensia De Francesco, belli ma certamente non di rottura.

Questo è il filo conduttore di quello che osserviamo: la regia resta in una via mediana, garantendo allo spettatore una navigazione tranquilla, che gli lasci trovare i riferimenti cui è abituato rispetto al classico. Emblema di questa sorta di salvagente emotivo è l’interpretazione (non priva di ammiccamenti) di Peppe Servillo che nel primo tempo gioca proprio sul canovaccio della commedia partenopea, ricordando le movenze e le cadenze dei suoi più noti interpreti. Il resto è ovviamente centrato sull’interpretazione di Toni e su un gioco di squadra che non manca. La sfida, come sempre, è cercare non di forzare De Filippo, ma provare comunque a costruire qualche tentativo su questi testi, da sempre legati ad una tradizione familiare e di interpretazione consolidata dal medium televisivo. Su questo Toni Servillo rischia meno, ad esempio, di quanto non abbia fatto qualche mese fa Fausto Russo Alesi con la sua riduzione a monologo dell’altro stracult di De Filippo, Natale in casa Cupiello, ugualmente centrata sulla forza dell’attore.

Esigenza di circuitazione, di garantire al lavoro una sua navigazione ampia, a maggior ragione perché condotto con pulizia e senza azzardi? Forse, visto che si tratta di una coproduzione “istituzionale” fra Piccolo Teatro, Teatro di Roma, Teatri Uniti di Napoli, destinato a girare e a riempire le sale come è stato a Milano, dove ha registrato per un mese il tutto esaurito. In questo caso invocheremmo un po’ più di coraggio per portare fino in fondo quelle scelte che restano solo accenni, anche ove il fulcro sia quello della questione morale.

Ipotesi b: questa è la lettura più coraggiosa e coerente che il regista riteneva di avere nel suo mazzo di carte. In questo caso chiederemmo semplicemente spiegazione di quelle scene così audaci, di astrazione, se poi a queste non consegue un tentativo di espianto vero e proprio dal tradizionale per arrivare all’universale. Forse questo il gran peccato. C’erano le basi per un lavoro ancora più… Così, invece, è (solo) un buon lavoro, onesto. Lontano da rivoluzioni, di cui si sentono solo echi.

Un’intervista di Servillo rilasciata alla web tv del Piccolo Teatro
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=_RF45Hed-Gc]

“Pitecus”, lo scimmiesco affresco umano di Antonio Rezza

pitecusVINCENZO SARDELLI | Va a carte quarantotto chi osasse cercare una logica, un filo conduttore negli spettacoli di Antonio Rezza, virtuoso del non senso, anatema del criterio, beffa mordace delle aristoteliche unità di spazio, tempo, azione. Più che un uomo un mistero, che con la sua vocetta stramba rovescia sul pubblico battute a gogò.

L’antropomorfo spettacolo “Pitecus”, che abbiamo visto al Teatro Binario 7 di Monza, è una performance scanzonata e dissacrante.

Con la sua comicità più letale del polonio, con il suo idioma adulterato, lo stralunato artista novarese trapiantato a Nettuno lambisce tutti i caratteri dell’individualismo umano: le sue miserie e le sue viltà; i suoi decori e le sue ambizioni; i suoi (rari) momenti poetici; i suoi (tanti) tratti patetici.

Un po’ arte povera un po’ commedia dell’arte, un po’ improvvisazione un po’ clownesca narrazione da cantastorie di piazza, Rezza si presenta sulla scena come una specie di folle incrocio tra un Quasimodo (nel senso del gobbo di Notre-Dame) che l’ha scampata bella e il redivivo strabismo divergente di Martin Alan Fieldman, lo stravagante servo Igor di “Frankestein Junior”.

A dare consistenza ai suoi variegati personaggi la scenografia semplice di tende multicolori e tagli dove Rezza infila la testa, una mano, una gamba. Mimo e comicità si intersecano in questa bizzarra tecnica di quadri, inconfondibile marchio di fabbrica di Flavia Mastrella, artista e scultrice che cura gli allestimenti e le scenografie.

Nei quadri di “Pitecus” prevale il triangolo, simbolo sincretico da cui nascono teste spigolose capaci di ragionamenti ineccepibili, maschere assurde e oniriche, fumetti capaci di cattiverie sublimi. I colori usati a tinte piatte, gialli, verdi, azzurri, rossi, riportano al mondo dell’infanzia, alle costruzioni, ai giocattoli di legno, ma al contempo danno anima alle perversioni di questa singolare umanità: laureati, sfaticati, giovani e disperati alla ricerca di un’occasione che ne accresca le tasche e la fama; moralisti che speculano sulle disgrazie altrui; vecchi in cerca di un’identità che li aiuti ad ammazzare il tempo prima che il tempo ammazzi loro; persone che tirano avanti una vita abitudinaria; individui che vendono il proprio corpo in cambio di un benessere materiale fittizio. Sono tante storie. È un mondo caotico dove si mescola un’umanità sgraziata, qualunquista, anonima, eppure sfacciatamente narcisista, dall’incedere nevrotico e dalla recitazione caricaturale.

Il pubblico ride delle proprie paure, dei propri errori, di un mondo misero e impudentemente banale.

Attore e scena sono in sinergia. Sul palcoscenico sale quasi materialmente il pubblico stesso. In questo mescolamento ingarbugliato non si capisce più chi ride di chi, se il pubblico dell’attore o l’attore dei malcapitati spettatori, coinvolti e bersagliati all’inverosimile da un’ironia tagliente che sfida ogni cinismo.

È un gioco paradossale in cui la scenografia gioca un ruolo essenziale. Non c’è storia, dunque: solo i tanti personaggi interpretati unicamente dal corpo di Rezza, dal suo volto plastico che irrompe sulla scena, riempie fessure, esprime malessere.

La luce illumina l’artista in un caleidoscopio di risate. L’armonia è rotta da questo saltimbanco festoso e fastoso, inesauribile, capace da oltre vent’anni di calcare la scena con lo stesso spettacolo. E di generare, ogni volta, nuove riflessioni e nuova ilarità.

Un assaggio dello spettacolo, mix di genio e cretineria:

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=MkaYnSIYdJY&w=560&h=315]

Se “Stoccolma” non è solo Stoccolma: la drammaturgia britannica per un amore (in)felice

stoccolmaLAURA NOVELLI | Un uomo e una donna. Buste della spesa in mano. Fermi su pedane circolari girano più volte su se stessi mentre il pubblico entra in sala. Sembrano manichini di un grande magazzino. Sorridono. Sono felici. Si guardano. Ci guardano. Musica alta. Inizia così “Stoccolma” (“Stockholm”), commedia amara di Bryony Lavery che Marco Calvani ha presentato al teatro Belli di Roma all’interno della rassegna “Trend. Nuove frontiere della scena britannica” e che ci auspichiamo venga presto ripreso sulle nostre scene. Uno spettacolo, va detto subito, intelligente, brioso, nuovo, capace di attivare una risposta fortemente empatica nel pubblico, anche grazie all’ottima prova interpretativa di Vincenzo Di Michele (noto volto televisivo e cinematografico che vedremo presto sul grande schermo nell’ultimo film di Marco Risi, “Cha cha cha”) e Ketty Di Porto (attrice poliedrica che, reduce dai consensi ottenuti ne “La dea dell’amore” di Woody Allen, ha ricoperto ruoli spesso tragici in testi per lo più contemporanei).
Il buon esito del lavoro è garantito innanzitutto dalla scrittura e dalla costruzione del testo. La drammaturga inglese, malgrado anagraficamente non più giovane (classe 1947), mette qui in campo una lingua teatrale modernissima e dalla linearità continuamente smentita che, declinata su più livelli espressivi, risulta al contempo concreta e astratta, realistica e funambolica, facile e complessa.
Scritta nel 2008 per il Frantic Assembly e andata in scena con successo in Inghilterra, Canada e Australia, l’opera scandaglia un menage apparentemente felice: Todd e Kali si accingono a festeggiare il compleanno di lui e intanto progettano con entusiasmo un imminente viaggio nella capitale svedese. L’ammirazione incontrastata per i prodotti Ikea è pari a quella riservata alla cinematografia di Ingmar Bergman, in una con-fusione di registri quotidiani e metaforici che rappresenta senza dubbio uno dei punti di forza della pièce. Perché, a ben vedere, la fotografia di questa coppia affiatata e dalla vita sessuale effervescente, a volerla “latensificare”, mostra un magma interiore di pulsioni irrazionali, dinamiche contorte, paure ancestrali destinate ad esplodere come un morbo subdolo e imperscrutabile.
Ed è proprio la maestria e la leggerezza con cui l’autrice (già nota in Italia per il suo inquietante “Frozen” ) maneggia queste continue esplosioni narrative, spostando la vicenda nel passato e poi nel futuro, e immaginando continui passaggi tra esterno e interno, dimensione agita e dimensione interiore, ciò che maggiormente colpisce. Il “rito” sensualmente cannibale del primo incontro, le continue divagazioni danzanti, gli insistenti approcci erotici della donna, i litigi furiosi e violenti, la prefigurazione atroce di un infanticidio degno di Medea sono solo alcuni degli scarti più incisivi della storia. Epifanie fugaci che raccontano, a ben vedere, una sindrome di Stoccolma (ed ecco il vero motivo del titolo) sotto cui fanno capolino le insoddisfazioni dolorose di tanti personaggi di Bergman (appunto) ma anche tanti elementi attinti all’universi femminile del “misogino” Strindberg. Kali sembra possedere, cioè, qualche caratteristica della Signorina Giulia o della Laura de Il Padre. Seducente, affascinante, gioiosa almeno quanto nevrotica, ossessionata, gelosa, spaventata, ella combina in sé fragilità e forza (molto brava l’interprete nei vari passaggi emotivi riservati al suo ruolo), contrapponendosi alla solida razionalità di Todd (anch’egli ottimamente disegnato da Di Michele).
Da questo impasto di anime così diverse e così complementari potrebbe scaturire un fior fiore di tragedia. E invece la Lavery (ex-attrice arrivata alla drammaturgia in età matura e attiva da anni anche come sceneggiatrice televisiva e autrice di opere teatrali per i ragazzi) cavalca la scia del grottesco, dell’umorismo acre, quasi alla Pirandello. Ci regala una smorfia sghemba e dispettosa sull’amore, che rende il tutto appetibile, nostro, vicino. E che permette al bravo regista di costruire un’insieme molto fluido, ritmato, a tratti sorprendente. Sicuramente anche la professionalità acquisita da Calvani all’estero (sia come autore sia come regista, tra i suoi titoli ricordiamo almeno “Penelope in Groznyj”, “Unghie” e “Roba di questo mondo”), lo aiuta a entrare in modo originale nella macchina drammaturgica, per trarne una lettura scenica perfettamente sintonica con il testo: uno spazio/tempo odierno, ricco di musica e di luci studiate ad hoc, dove avviene tutto e il contrario di tutto: E dove la logica, proprio come nella vita, mostra – evviva ! – le sue crepe.

SlutWalk: La marcia delle puttane – il Videoreport

slutwalkMARIO DI CALO | Liber* di indossare qualsiasi indumento, liber* di essere se stess*, liber* di manifestare, liber* di essere liber*: liber*! La SlutWalk/Marcia delle Puttane nasce nel 2011, a Toronto, come esigenza di esprimere la propria libertà da parte della popolazione – soprattutto femminile – dopo le affermazioni dell’agente italo americano Michael Sanguinetti, che ebbe a dire, circa la violenza subita da alcune prostitute, che era dovuta e meritata visto il loro comportamento e il loro abbigliamento provocatorio e libertino.
Da allora in poi ogni qualvolta che se ne sente l’esigenza, si scende in piazza, in modo pacifico e dialogico, per esprimere il proprio diritto ad essere ciò che si è. Sabato 6 Aprile 2013 al Teatro Valle Occupato di Roma, all’interno del festival ‘Da Mieli a Queer’ (Culture e Pratiche LGBT in movimento) organizzato con il contributo del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, Queer Lab, Rainbow Line e allo stesso Valle Occupato c’è stato un momento di riflessione sulla SlutWalk e sul suo significato: dapprima un laboratorio sul travestimento e il gioco, con dibattiti e confronti, ed infine tutta la popolazione l.g.b.t. è uscita per le strade a manifestare e a sensibilizzare la popolazione romana.
Andrea Maccarrone, presidente del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, è intervenuto per PAC sul significato e i risultati del Festival, sulla SlutWalk, e di quanto sia ancora necessario parlare di Mario Mieli, personaggio scomodo degli anni 70, e di come si sia arrivati ad una cultura queer.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=L98nClYgS6E&w=420&h=315]

I Giorni Felici di Lorenzo Loris

giorni feliciRENZO FRANCABANDERA | Winnie è la vicina pettegola, un po’ rompi, di quelle che mettono in croce il marito. Una che parla inarrestabile e inarrestata per un’ora di qualsiasi cosa, dal tempo alla borsa della spesa. Nella sua disponibilità prêt-à-porter, tiene con la stessa nonchalance la spazzola e la pistola. Suo marito è di fatto rintanato in un buco, ormai succube afono della strabordante compagna, che lo domina, addomesticandolo ad ogni suo volere: “Torna nel buco!”, gli urla perfino. E lui obbediente.
Pur nella sua infissa immobilità, la donna risulta paradigma di quella paradossale infelicità domestica di cui è facile trovare testimonianza negli sguardi da ristorante su quelle coppie in cui lei prova a rompere il silenzio mentre lui lancia silenziosi sguardi agli altri tavoli o fuori dalla finestra. Peggio ancora quando nessuno dei due parla. E mangiano. I falsi incontri, il criminale stare assieme, tempi e giorni infelici.

E’ subito chiaro quindi il paradosso di intitolare Giorni felici un monologo dal tratto quasi isterico, in cui Samuel Beckett racconta forse di due solitudini. In questo allestimento per il teatro Out Off di Milano, Lorenzo Loris in realtà si sforza, come ci conferma poi nella video intervista che vi proponiamo, di pensare che un dialogo, ancorchè unidirezionale, fra i due protagonisti, interpretati da Elena Callegari e Matteo Pennese, in realtà esista. Perché in fondo, sempre quelle coppie silenziose e consumate da ristorante di cui parlavamo, trovano in quel silenzio o in quell’ascolto pur non corrisposto, una funzione necessaria, di tenace resistenza alla solitudine.

Winnie è conficcata, come da copione, nella terra, qui un disco di enormi dimensioni (la scena è di Daniela Gradinazzi) su cui si rifrangono nuances luminose surreali affidate a Luca Sioli, e che soprattutto nella seconda parte assumono un’intonazione satura veramente spaesante e ipnotica. Poco ipnotiche, rudimentali e onestamente mal riuscite le proiezioni digitali che portano sul disco ora qualche fiore, ora fiocchi di neve da screensaver anni 80. Questo elemento scenico risulta di fatto superfluo e siamo sicuri gli spettatori futuri sapranno farsi ragione di una loro possibile eliminazione o utile ripensamento.

Dal punto di vista interpretativo lo spettacolo è affidato alle robuste spalle di Elena Callegari, alla sua capacità mimica, ai suoi sguardi di cui è possibile trovare testimonianza nella video intervista che completa questa riflessione e che trovate in fondo a questo pezzo. E’ lei, di fatto, a sostenere il peso di Giorni Felici, e in onestà ci sembra un peso calibrato che Loris ha come sempre con misura ponderato, riuscendo a condurre lo spettatore fino in fondo senza farsi scoraggiare e senza scoraggiarlo. Dandogli sempre l’impressione che potrebbe tacere da un momento all’altro, e invece ogni volta riprendendo senza pietà. Proprio come quelle vicine di pianerottolo venute a prendere un caffè cinque minuti e che non vanno più via, quelle signore a ristorante, quelle occasionali avventrici di un negozio da cui non escono più.
Quanto è dura la lotta alla solitudine che l’uomo deve combattere con se stesso.

Vi lasciamo alla video intervista a Lorenzo Loris.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=a1Ae6zHHZUY&w=420&h=315]

Paolo Bacilieri e una chiacchierata tra arte e fumetto

PaoloBacilieriALESSANDRO GUALANDRIS | Il mondo del fumetto italiano regala spesso autori capaci di dare vita a una mondo personale ed artisticamente alto. La Graphic Novel, termine ormai abusato, riguadagna la sua autorialità attraverso un lavoro di crescita mai interrotta.

Abbiamo avuto la fortuna d’incontrare uno di questi, Paolo Bacilieri, in occasione della serata Sound and Vision, tenutasi al Bloom di Mezzago, storico locale della Lombardia, sempre attento alle nuove creatività e alle sperimentazioni. L’evento univa la musica dei Dorian Gray, famoso gruppo sardo degli anni 90, all’arte visiva del fumettista Bacilieri.

Siamo riusciti, prima dello spettacolo, ad avere una chiacchierata con l’autore, durante la quale si è discorso piacevolmente di arte, musica e fumetto.

Paolo, nel corso della tua carriera artistica ti sei spesso cimentato con diverse forme d’arte, come si arriva ad un matrimonio tra illustrazione e musica?

bacilieriIn verità non è la prima volta che mi capita. Già al MIAMI due anni fa, al Forum di Assago avevo approcciato con un evento simile. In verità per un fumettista, che fa un lavoro molto solitario e spesso chiuso nelle quattro mura di casa sua o del suo studio è come una libera uscita. Non una fuga, perché altrimenti non sarei soddisfatto di ciò che faccio, ma di un’evasione in un mondo che spesso offre stimoli diversi, come quello della musica. A volte è difficile, soprattutto per una persona timida come me, doversi ingegnare in tempo reale su cosa proporre e rischi di avere un blocco da prestazione. Una sorta di Parkinson alle mani. Ma poi ti liberi e disegni seguendo la musica.

Ritornando alla tua formazione artistica, sei un autore dallo stile molto variegato, capace di incorporare diversi influssi ma rimanendo molto personale e autorale: che percorso hai fatto?

Nel 1982, durante la prima edizione di Lucca Comics (Lucca Comics è una tra le convention di fumetti più importante d’Europa, nda) Karel Thole, copertinista storico di Urania, mi disse “L’importante è che tu difenda il tuo metro quadrato”. Non ho mai seguito il suo consiglio. Da nomade del fumetto ho sempre viaggiato attraverso gli stili e credo che questa cosa mi abbia aiutato ad avere un metodo eterogeneo.

Infatti, agganciandomi al tuo pensiero, le tue tavole spesso necessitano di un’attenzione particolare, non basta sfogliarle, ci si deve soffermare, donando il giusto tempo al lettore per apprezzare il lavoro dell’artista.bacilieri3

Il mio lavoro mi permette d’affrontare diverse tipologie di tavole. Lavorare con la Bonelli mi ha permesso di realizzare tavole dove l’importante è la sintesi, senza creare troppe distrazioni visive che spostino l’attenzione dalla narrazione. Invece con i miei lavori più personali, per esempio con Zeno Porno, ho potuto cimentarmi con un tipo di fumetto più lento, che offra diverse soluzioni grafiche molto più stratificate. La tavola non si ferma al primo impatto ma necessita di un’attenzione più profonda.

Paolo, come sta il fumetto italiano?

C’è una lenta discesa, ma anche una sostanziale trasformazione. Bisogna distinguere i vari campi. Con il passaggio sempre più diretto tra la carta e il digitale, molte case devono adattarsi al nuovo che avanza e spesso per un artista non è facile vedere il proprio lavoro abitualmente stampato trasformato in un formato diverso da quello conosciuto, anche se tuttavia diventa affascinante potersi cimentare anche con quello. Inoltre molti lavori dall’edicola abituale in cui si potevano acquistare, adesso arrivano in libreria o nelle fumetterie specializzate, dando una dimensione diversa dal formato canonico. Abbiamo una forte tradizione classicista che ci permette di far emergere tanti bravissimi nuovi autori. Per citarne uno vi segnalo Piero Macola, che lavora tanto all’estero e che merita un occhio di riguardo.

bacilieri2Libreria, quindi il libro a fumetti. Cosa offre all’autore questa dimensione, rispetto alle serie regolari?

Il libro a fumetti è una dimensione fantastica. Permette di poter produrre opere diverse, personali ma mantiene la visibilità necessaria per l’opera d’arte che racchiude. E’ sicuramente un mondo che può sembrare di nicchia ma che invece ci da la possibilità di esprimerci con più libertà e passione, mantenendo una diffusione notevole. Certi lavori poi diventano una vera e propria fatica. Per esempio sono molto felice di aver portato a compimento Sweet Salgari, che ho completato nell’arco di 4/5 anni ma che ha alle spalle un progetto di quasi dieci. Ovviamente figlio di una ricerca non indifferente riguardando un autore vasto come Emilio Salgari.

Progetti per il futuro prossimo?

Sto completando uno speciale di Dampyr per la Bonelli, che vedrà la luce in autunno e sto pensando ad un libro a fumetti che raccolga molte delle mie storie brevi, avendo come fil rouge la storia del cruciverba. Spero di poterlo portare a Lucca a novembre, ma sarà molto difficile.

Salutiamo qui Paolo Bacilieri. Vi consigliamo di recuperare i suoi libri, soprattutto il bellissimo Sweet Salgari. Le foto che vedete allegate all’articolo sono tratte dalla serata al Bloom.

Ultima cena europea: l'Hotel Belvedere di Magelli

hotelbelvedereMagelliASSUNTA PETROSILLO | In un ambiente scarno, polveroso, grigio, buio – come l’Europa sul finire della prima guerra mondiale – si rincorrono anime disperate, angosciate, inquiete.
All’interno dell’Hotel Belvedere, situato nella provincia prealpina bavarese, si nascondono e si muovono sette personaggi gretti, falliti, depressi. Del Belvedere rimane davvero poco o nulla, è un ‘Malvedere’, frutto di una società alla deriva.
Sul fondo della sala s’intravedono sedie ammassate, dallo schienale a forma di violini, privi di corde, snaturati dalla propria primaria funzione. Sono silenti, come tutto intorno a loro. Sulla sinistra poche poltrone logore, sulle quali di volta in volta si alternano le smanie di potere di uomini e donne alienate. Storie che condurranno all’orrore nazista e come afferma Magelli «alla malattia del paleofascismo che ci ha reso portatori di un virus letale che è entrato nel DNA dei nostri popoli».
Hotel Belvedere scritto nel 1922 è il quinto testo teatrale di Ödön von Horváth tradotto in italiano, dei diciotto scritti dal geniale autore morto prematuramente, ma già insignito ancora in vita del più prestigioso riconoscimento – il Premio Kleist − in ambito teatrale. Horváth analizza la figura del borghese medio, e la malvagità strisciante che si nascondeva dietro gli splendori dell’ultima stagione asburgica e le macerie della prima guerra mondiale.
La traduzione in italiano di Paolo Magelli che cura l’allestimento in scena al Teatro Metastasio di Prato, restituisce l’analisi microscopica del mondo di Horváth, nel quale tutto è talmente tragico, da divenire tragicomico. Un testo noir nel quale si attacca con ferocia una Mitteleuropa capace di nascondere dietro la sua grandezza, un mondo volgare, malato, interessato solo al denaro. Un primo allestimento in lingua serba fu portato in scena trentasei anni fa al Premio Roma di Gerardo Guerrieri proprio da Magelli che lo ripropone per la grande attualità dei temi trattati. L’Europa degli anni venti fa da contraltare all’Italietta odierna.
Il vero fulcro della storia prende avvio quando entra in scena Christine (Elisa Cecilia Langone) che da povera orfana squattrinata, prima violentata e sbeffeggiata a turno dagli uomini lì presenti, diviene la donna da venerare per la sua fortunata eredità ricevuta da una vecchia zia. È proprio nella scena della violenza di gruppo, molto cruda e vera, che la giovane attrice dà prova della sua bravura interpretativa.
Altri due i momenti topici della rappresentazione: la distruzione dell’Europa e l’incontro-scontro tra Ada (Valentina Banci) e Christine.
Assistiamo ad un’ultima cena ‘europea’ dove i commensali a turno divorano una cartina geografica dell’Europa, ingozzando e sputando i resti di una società in totale disfacimento che trasforma l’apatia e la rassegnazione in depressione collettiva. Un momento ben enfatizzato dalle musiche di Alexander Balanescu. Le due donne che rappresentano l’una l’alter ego dell’altra, s’incontrano una sola volta, da sole in scena, e in quell’incontro-scontro in un’altalena di luci, escono allo scoperto tutte le loro fragilità mai risolte.
Tra gli attori, Marcello Bartoli (Müller) affianca sulla scena Francesco Borchi (Max), Daniel Dwerryhouse (Karl), Mauro Malinverno (Barone von Stetten), Fabio Mascagni (Strasser).
Molte le invettive lanciate sulla questione politica odierna e sull’importanza del lavoro dell’attore, sulla condizione femminile e sulla realtà politica in cui siamo invischiati. Quasi a voler sottolineare − come afferma uno di loro − che la verità è sempre volgare. Una storia cruenta che poteva chiudersi già al primo atto, senza dilatare troppo i tempi, che lascia allo spettatore un senso di inquietudine e amarezza.

Qui una videointervista a Magelli sullo spettacolo, realizzata da ChiediscenainToscana
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=oMyxTKxdbbU]