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venerdì, Dicembre 8, 2023
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Il Panico

ronconi3RENZO FRANCABANDERA | Era dai tempi de Il Porcile di Massimo Castri, con le scene di Maurizio Balò, che non si vedeva uno scorcio visuale così ardito. Allora il piano scenico era rialzato, inclinato e il soffitto ribassato, lasciando agli attori uno spazio finto e claustrofobico, fatto di erba sintetica, fiori di plastica e uno sfondo nero. Quello in cui Luca Ronconi ambienta il suo Panico, drammaturgia che fa parte di una eptalogia di Rafael Spregelburd, drammaturgo contemporaneo argentino ormai di fama mondiale, è un universo scenico angosciante al contrario. Gli spazi che Marco Rossi pensa per la scenografia sono parimenti inquietanti: il pavimento di parquet giallo fosforescente ha un’inclinazione prossima ai venti gradi, dal proscenio a salire verso il fondo. Le tre pareti sono delimitate da teli di tessuto bianco alti cinque-sei metri, fino al soffitto, a creare ampiezze da chiesa gotica in cui vagano anime in pena al bordo fra mondo dei vivi e mondo dei morti.

Se infatti questo sia un mondo reale o abitato da vite ormai trapassate, al di là della drammaturgia, lo lasciano intendere sempre le scelte sceniche, con poltrone, divani e ogni altro orpello foderato come in una casa disabitata e illuminata da quelle luci che chi ha visto gli ultimi lavori di Ronconi inizia ad avere familiari, appartenendo al codice cromatico al gusto di neon di A. J. Weissbard. Perdersi in questo spazio enorme, con queste luci fredde, fra le note “siderali” delle musiche di  Hubert Westkemper è così facile che anche lo spettatore più attento, dopo le prime tre scene prova la sensazione di chi si è perso in un bosco buio e non vede via d’uscita.

Non la vede perché in fondo né a Spregelburd né a Ronconi interessa lasciarla intravedere. Perché l’Ade è uno spazio senza pareti, le cui chiavi di decrittazione sono impossibili da trovare in un mondo frenetico e distratto come il nostro.

La chiave è, non a caso, quella intorno a cui ruota una parte della drammaturgia: è la chiave di un tesoro, che dovrebbe essere un tesoro materiale, ma ancor più immateriale, derivando proprio dal dialogo con l’aldilà. Finirà buttata nell’immondizia; sia la ricchezza materiale che quella spirituale.

Sugli attori, parlare di tutti è impossibile e, raro a potersi dire, nessuno è sotto la linea dell’eccellenza. Segnalare poi lo stato di grazia assoluto di Maria Paiato è quasi pleonastico.  Dopo la prova in assolo con l’Anna Cappelli di Annibale Ruccello di inizio dicembre, la straordinaria interprete italiana conferma le qualità assolute e il sentimento di agio totale entro il perimetro variabile dei disagi di Spregelburd. Per non dire della ectoplasmatica inconsistenza di Sandra Toffolatti, di un super Pierobon, Orfeo che dal regno dei morti viene a cercare un dialogo con i vivi, che paiono però non comprendere i segni e i messaggi.

Ma bene tutti, dagli attori della famiglia del Piccolo, come  Riccardo Bini, Francesca Ciocchetti, Bruna Rossi, Elena Ghiaurov, Clio Cipolletta, fino a Iaia Forte, Lucrezia Guidone, Manuela Mandracchia, Valeria Milillo, María Pilar Peréz Aspa, Valentina Picello, Alvia Reale e Fabrizio Falco. Riescono a mantenere tutti un recitato ostentatamente e ostinatamente sopra le righe, antinaturalistico e spaesante, ma che dopo un po’ diventa la regola di un mondo al bordo.

Questa drammaturgia ha la potenza di spiegarsi con la regia e la regia di spiegare la drammaturgia. Siamo dunque in quel ristrettissimo ambito in cui il teatro si compone dei suoi elementi vivificanti in forma sostanziale. Nulla dunque di per sè è assoluto se non proprio in relazione con il tutto il resto degli elementi che compongono lo spettacolo dal vivo. Il testo probabilmente in quanto tale non varrebbe un allestimento così, e un allestimento così senza un testo che desse spazio alle inquietudini che incorpora non potrebbe arrivare a soggiogare il pubblico come di fatto fa, per oltre tre ore.

Ad un certo punto ho pensato che in fondo comprendere cosa succede passo dopo passo è assolutamente inutile, forse perchè elemento costituente non è l’intreccio drammaturgico ma le circostanze. D’altronde Spregelburd stesso nelle sue lezioni all’Ecole de Maitres confermava ai suoi studenti come le sue drammaturgie nascano dall’assemblaggio di elementi che spesso si orgininano in forma assolutamente autonoma fra loro.Lo scrittore costruisce appunto queste circostanze che hanno senso di per sè, che testimoniano un modo d’essere dei personaggi che la vivono, una caratteristica di un ambiente abitato e poi tessere un legame fra le circostanze. Quello che lega queste circostanze è un pretesto, ovvero quello che è tessuto prima, che serve a nascondere il vero motivo. Il motivo di questo lavoro, come dice esplicitamente il titolo, è il panico, uno stato di paura e insicurezza per lo più collettivo, a fronte di pericoli veri o presunti e che porta a compiere atti non di rado avventati. Questo c’è nel testo? In realtà no, ma in profondità il sentimento di inquietudine, di risposta istintiva all’incomprensibile, di danno e sfregio alla logica e al senso comune sono gli ingredienti profondi di questa costruzione ad orologeria che Spregelburd e Ronconi confezionano.

E’ uno spettacolo convincente, bello, fatto con grande amore per il teatro e che dal teatro viene ricambiato. E va visto.

Di seguito un video sullo spettacolo del Piccolo Teatro di Milano

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Il canto di corvo degli incurabili

CORSIA_HOMEPAGE_CIOMMMIENTOANDREA CIOMMIENTO | Nel punto ultimo il lirico canto zittisce l’inferma. Il canto di corvo, seduto a mezz’asta, getta violentemente la voce a chi guarda impietrito il lento progredire di una morte annunciata fin dal suo titolo. “Corsia degli incurabili”, regia di Valter Malosti, conduce gli ultimi istanti di una donna malata e stanca di sudore ora distesa sulla sedia a ruota ferma. È il gioco di luci a legare il lavorio di suoni e rumori reiterati e ricercati con interessante minuzia registica, scanditi dalla partitura poetica dei versi interpretati da Federica Fracassi su opera scritta da poetessa contemporanea e vivente Patrizia Valduga. Versi scellerati di treno in corsa pronti a schiantarsi nella laguna che riecheggia in quella memoria incurabile, come la spazzatura mediatica trangugiata per trent’anni, come il corpo che deteriora l’anima della femmina destinata a sputare tutto senza lasciar spazio al sorriso disteso ma solo al pugno contratto. La donna è già fantasma quanto la luce e la voce di Carmelo Bene che le appare in canto leopardiano vicina alla luna nella stanza; anche se in verità attende Pascoli con la sua decadenza e l’arrivo del Ministro della Sanità in quest’occasione carnefice. Altri cento presidenti di Arcore presiedono le trame psichedeliche e luminescenti dell’ospedale; e i tangentisti come gli altri fascisti sono accanto a lei gracchiando ancora e ancora, raschiando la memoria senza rifuggire. Propongono la reiterazione dell’inferno in vita, quel quotidiano pronto ad aprire e a rendere interminabile la corsia dei “mai curabili” eppure non affetti da malattie terminali.

I versi in scena si contornano in sessanta minuti di atto performativo aperto alla violenza, al sarcasmo e allo scrostare di ferite ancoravermiglie. Entrano dentro al sangue senza soluzioni di misericordia ma solo morte e buio per spazientire. “Corsia degli incurabili” è la proiezione di una pena di morte per mano della natura, di qualche dio, o degli stessi uomini incapaci di trovare rimedio all’incurabilità del nostro passaggio fragile su questa terra. È scena di dolori, luci che spezzano il respiro e trattengono il lento fluire delle nostre vite vicine e lontane a chi, in quella corsia incurabile, si accosta ed è costretta ad attraversarla tutta fino in fondo al Golgota, cadendo e trascinandosi per arrivare chissà dove: al punto ultimo, lirico o gretto, della porta di una voragine che ancora non conosciamo.

Il monologo è un lasciapassare consegnato in culla, decodificazione della corsia dove poter sfregare muri ospedalieri senza rovinarli; lasciandoli intatti nonostante l’umano tentativo di fuga che solo la poesia garantisce, converte in salvezza, protegge allo spasmo, allontana dal materialismo esistenziale prossimo al dolore presente a tratti in questa storia figurata in scena.

La nave fantasma

bebo-storti-3VINCENZO SARDELLI | Sono passati dieci anni da quando la premiata ditta Renato Sarti-Bebo Storti ha portato per la prima volta a teatro “La nave fantasma”. Ne sono passati sedici dal Natale del 1996, quando un’imbarcazione con a bordo 500 clandestini naufragò al largo di Portopalo, tra Sicilia e Malta. Le vittime furono 283. Provenivano da India, Pakistan, Sri Lanka.

Quella raccontata nella “Nave fantasma”, che torna al Teatro della Cooperativa dal 22 al 27 gennaio, è una delle pagine più umilianti dell’Italia repubblicana: nessuna indagine giudiziaria, pescatori che ributtavano in mare i cadaveri impigliati nelle reti per evitare i blocchi imposti da eventuali indagini, giornali che liquidarono la vicenda con poche righe confuse.

Per anni le autorità italiane insabbiarono la tragedia. Eppure recuperare la nave e dare sepoltura ai cadaveri sarebbe costato meno di un miliardo di lire. Cifra irrisoria per un Governo: il costo di un appartamento nel centro di Roma.

Il “naufragio fantasma” – così fu chiamato dai giornali – affiorò dalla cortina di reticenze solo grazie a un’inchiesta di Giovanni Maria Bellu, che su “Repubblica” pubblicò le foto del relitto e di quel che restava dei corpi. Le indagini furono raccolte nel libro “I fantasmi di Portopalo”.

A caricare di sfumature surreali e grottesche quella vicenda, che sembrava uscita dalle pagine di Verga o da un racconto di Sciascia, cipensarono Renato Sarti e Bebo Storti nel loro ennesimo spiazzante cabaret d’inchiesta. Uno spettacolo che più lo guardi, più provi vergogna. Vergogna per la verità fatta a brandelli. Vergogna per l’indifferenza di quei giornali e di quella tv pronti a spettacolarizzare il dolore solo quando le vittime hanno la pelle bianca e il portafogli pieno. Vergogna per l’omertà delle “autorità”. Vergogna per il cinismo dei trafficanti di uomini.

Nella “Nave fantasma” la tragedia si stempera nella satira, l’informazione si accompagna alla riflessione sul degrado umano.

Atmosfere espressioniste, gommoni e manichini pieni d’acqua, mari e spiagge immaginarie, sono gli elementi della messinscena, con l’ausilio di materiali e disegni realizzati da Emanuele Luzzati. Ci sono citazioni dalla “Tempesta” di Strehler, con teli che volano e macchine del vento. Lo spettacolo fa anche pensare all’Odissea.

L’umorismo pasticciato di Bebo Storti e Renato Sarti, che si vale di espedienti come l’improvvisazione e il rapporto continuo con il pubblico, coniuga tragedia e cabaret. Sulla scia di Dario Fo, i due protagonisti sciorinano il meglio del proprio repertorio artistico. Storti coinvolge il pubblico con imitazioni effervescenti; Sarti compensa il cinismo del compagno arrabattando fatti e sentimenti.

Uno spettacolo d’impegno civile. Da non perdere per chi non l’ha mai visto; ma anche da rivedere per tutti quelli che vogliono riflettere, una volta di più, sulle miserie umane in ogni senso, dall’opportunismo dei politici agli insopportabili rigurgiti xenofobi.

Il mondo del jazz nella magia di Novecento

Novecento-Alessandro-BariccoMARIA PIA MONTEDURO | Il monologo Novecento, a torto o a ragione, è considerato un testo cult. Diverse edizioni teatrali, una nota trasposizione cinematografica nel1998 a opera di Giuseppe Tornatore (“La leggenda del pianista sull’Oceano”, vincitore di ben sedici premi internazionali), molto successo di critica e pubblico. Può perciò essere interessante, a quasi vent’anni dalla prima stesura ad opera di Alessandro Baricco, assistere alla messa in scena del regista (Gabriele Vacis) e dell’attore (Eugenio Allegri) per i quali lo scrittore torinese nel 1994 lo compose appositamente. Occasione ghiotta quindi, offerta dal Teatro Eutheca di Roma, che per questo evento si sposta all’interno della cittadella Cinecittà, allestendo lo spettacolo nello Studio Fellini, la bellissima sala dove il Maestro amava seguire le proiezioni dei suoi film.

Eugenio Allegri dà voce, corpo, canto, musica a tutti i personaggi della pièce, con una solida prova attoriale in cui non sfigura un po’ di istrionismo d’autore, anzi. Il testo, coinvolgente, attraente, affascinante, affabulatore, anche furbo talora, incanta il pubblico, eccezionalmente composto da molti giovani (cosa, purtroppo, abbastanza insolita per i teatri romani). Come ebbe a dire lo stesso Baricco, il testo è a metà strada tra “una vera messa in scena e un racconto da leggere ad alta voce” e la scelta registica di Vacis e l’interpretazione di Allegri sono esattamente così: teatro per le suggestive invenzioni registiche di Vacis, esposizione narrativa seducente di Allegri, amalgamati da un filo conduttore musicale di grande presenza scenica.

La musica entra prepotente nella storia e nella perfomance, suggella un patto tra autore e attore, tra attore e pubblico, tra storia e narrazione. L’inverosimile storia di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, che non scenderà mai dalla nove su cui è nato fino ad attendere lì la morte, è cadenzata dalla musica: dal ritmo sincopato del jazz, dalla nostalgia suadente del blues, dalla genialità di un uomo che riesce a destrutturare la scala dei desideri, per trasformarla in una sorta di ascesi, di distacco serafico dalle convenzioni sociali e dalle aspettative dei più, per vivere in simbiosi con l’improvvisazione musicale. Baricco sa essere allettante e seducente, sa calibrare cultura e anche astuzia e inventa un personaggi che vive sospeso tra il suo pianoforte e il mare, ma che riesce a conoscere e a far sue, attraverso i racconti degli altri, tutte le sfaccettature e le atmosfere del mondo, pur non spostandosi mai dalla tastiera del suo strumento.

Uno spettacolo divertente e commuovente assieme, scritto e realizzato per piacere al pubblico, per farlo viaggiare sull’oceano assieme all’ineffabile Novecento. Allegri e Vacis sono bravissimi a non far calare mai la tensione, a non spezzare il filo che li lega agli spettatori, a dare corpo e soprattutto suono a un monologo che, forse, altro non è che la storia di un’amicizia: quella tra il narratore e Novecento, e quella di Novecento e il mare. Sarà il mare infatti, alla fine, a inghiottire tutto il mondo di Novecento, quello stesso mare che per lui è stato al contempo libertà e prigione, inizio e fine, alfa e omega del suo destino di leggendario pianista sull’oceano.

Rito sonoro che si fa anima

Mariangela-Gualtieri-4VINCENZO SARDELLI | Bisogna essere innamorati della poesia per apprezzare uno spettacolo come “Bestia di gioia”, monologo di e con Mariangela Gualtieri, che ha aperto sabato 19 gennaio 2013 al Teatro Verdi di Corsico (Mi) la quindicesima edizione della rassegna «Incontri».

“Bestia di gioia” nasce dall’omonima raccolta di versi (Torino, Einaudi 2010) di Mariangela Gualtieri, fondatrice con Cesare Ronconi del Teatro Valdoca. È dalle poesie di questo libro che prende il via quello che l’autrice definisce “un rito sonoro che si fa anima”.

Il breve monologo (50 minuti) non appesantisce lo spettatore che lo concepisce come  una pausa dai ritmi quotidiani. È la poesia delle piccole cose: riflussi d’infanzia e profumi di campagna, feste di animali, inquietudini, colori soffusi: “Ciò che non muta/ io canto/ la nuvola, la cima, il gambo/…il coraggio dell’animale nella tana/ quando gli esce il nato fra le zampe…”.

Poesia rarefatta, come la scena. Una musica sfumata accompagna la protagonista: note di pianoforte, giri di violino. È una colonna sonora ridotta all’essenziale. Ogni potere evocativo viene lasciato alla voce, nuda davanti al microfono.

La parola entra in un giro di forze. Mariangela Gualtieri dosa parole e pause. Anche il silenzio è poesia.

I gesti sono fermi e solenni. La luce illumina un Moleskine che rimbalza tra le mani. Ne escono versi che raggiungono il pubblico: siamo stanchi e vuoti se perdiamo l’infanzia e la capacità di stupirci, se smarriamo la vena lirica che è dentro ciascuno di noi.

La tessitura si basa su un filo narrativo in cui la natura è in primo piano. L’io è in ascolto del suono.

Le parole si fanno materia. La voce della Gualtieri è quella di una sibilla che non lascia indifferenti.

Sunset Limited

Sunset-Limited_fph-Armando-Rebatto-da-sin-abio-sonzogni-e-fausto-iheme-caroli-04VINCENZO SARDELLI |  Un confronto esistenzialista sui grandi temi della vita e della morte, della felicità e della fede. “Sunset Limited”, di scena al Teatro Sala Fontana di Milano fino al 25 gennaio, è un dialogo filosofico tra due personaggi tratti dall’omonimo romanzo breve di Cormac McCarthy (Einaudi 2008).

Il Bianco e il Nero, interpretati da Fabio Sonzogni e Fausto Iheme Caroli, sono due uomini di mezz’età ormai nella parabola discendente della loro vita. Si confrontano seduti a un tavolo di cucina, davanti a una Bibbia e a un quotidiano, metafore dell’eterno e del contingente. La messinscena di Fabio Sonzogni, regista oltre che attore, osserva le classiche unità aristoteliche di luogo, tempo e azione. Scenografia e costumi richiamano la quotidianità dozzinale. Poco spazio agli orpelli: la regia asciutta, essenziale, si concentra sulle parole. Nessun commento sonoro, solo qualche voce di sottofondo, a ricostruire in maniera evocativa l’atmosfera di degrado sociale in cui è ambientata la vicenda. Il difetto di questo copione sta forse nella monocorde proposizione di due identità imprigionate ciascuna nel proprio ruolo, senza scosse, senza possibilità di evoluzione. Senza che lo spettatore sia messo in grado di intravedere quella ricchezza di sfumature che invece si aspetterebbe di trovare nei personaggi in scena, data la complessità dei temi trattati.

Il Bianco è un professore universitario sprofondato nel nichilismo; il Nero è un proletario con un passato da alcolista e una storia di carceri e violenze, che ha scoperto la fede in Cristo. Il Nero è stato redento e vuole redimere; il Bianco ingaggia con il Nero un duello sul senso della vita.

Una rete come un diaframma separa la scena dal pubblico. Due divani coperti da teli bianchi rendono un senso d’incompiutezza disadorna, ma invitano a svelare l’essenza delle cose.

Una pentola fuma sui fornelli: è il preludio a un incontro eucaristico tra i protagonisti, che non li condurrà mai alla fusione. Sulla porta, chiusa con chiavistello e catene, soglia non solo allegorica da superare per rigettarsi nel mondo o ripiombare nel nulla, campeggia un crocefisso.

È questo il ring della sfida. L’uomo bianco stava suicidandosi sotto un treno; l’uomo nero è colui che l’ha salvato e condotto nella propria casa. Il velo è una cappa di disincanto che avvolge la scena. La luce della speranza, l’attesa della felicità, tenterà di squarciare quel velo.

L’intelligenza vivace e ironica dei due personaggi conferisce comunque al confronto, impostato alla maniera della dialettica platonica, un tono di leggerezza. La catastrofe sembra sempre sul punto di essere scongiurata. La sfida è in costante equilibrio, fino all’escalation finale dell’arringa del Bianco, che pare delineare un “vincitore”.

«Diventare vecchi è insopportabile e umiliante» scriveva Philip Roth in “Everyman”, uno dei suoi romanzi più dolenti e implacabili intorno alla senilità e alla malattia, argomenti temuti e tenuti ai margini del discorso pubblico. In “Sunset Limited” (il titolo allude al treno superveloce che collega Louisiana e California, sulle cui rotaie il Bianco cercava la morte) è il mondo occidentale che sembra contemplare la propria estinzione. In questo nichilismo imperante la possibilità della morte diventa scelta legittima di libertà, anziché atto di fuga.

La dialettica fra le due posizioni contrapposte, interpretate con naturale forza icastica dai due attori, sempre più efficaci via via che la matassa si dipana, scuote la coscienza dello spettatore. Lo interroga. Lo sollecita alla riflessione e alla ricerca.

In una società che tende a narcotizzare la meditazione e a rimuovere il dolore, merito di questo dramma è il richiamo al senso della realtà e della storia. Eludere o rinviare gli interrogativi esistenziali equivale a ingannarsi, e rende perciò stesso la vita indegna di essere vissuta.

Jucature

1_Jucature_RenatoCarpentieri

RENZO FRANCABANDERA |  La commedia nel teatro contemporaneo è diventata sempre più rara e difficile da incrociare, e il motivo è piuttosto semplice: far ridere con intelligenza e arguzia è diventato sempre più difficile. Il gusto medio si è per certa parte banalizzato, portando ad esiti drammaturgici mediocri, per altra invece sofisticato, con il rischio di produrre invece testi un po’ esclusivi ed elitari.

Per altro verso, quello dell’attore capace di abbinare a struggenti maschere tragiche la mimica della commedia, quegli aggrottamenti di sopracciglia, quegli sguardi di traverso che valgono cento battute, è un mestiere che è un po’ scomparso, soppiantato da pirotecnici atleti della scena, espressivi come un portafiori cinese in similpocellana.

Ecco dunque che quando si assiste a testi brillanti, interpretati a dovere, quasi quasi vien fuori la lacrimuccia. E da questo punto di vista non possiamo non certificare come un inesauribile focolaio di talenti addestrati alla scuola dell’ironia sia la scuola teatrale campana. E’ incredibile come da questo punto di vista la regionalità vada oltre lo stereotipo e permetta agli interpreti di seguire l’evoluzione della scena, continuando a garantire interpreti di rango.

C’è da dire, a proposito dei testi di Pau Mirò cui questa riflessione si riferisce, che, come nella miglior tradizione, la vera commedia porta un riso amaro, quell’espressione unica della risata che ti si smorza in faccia perché la commedia in genere parla di una sconfitta. E quando gli sconfitti sono i deboli, i soliti ignoti, siamo già nella seconda metà del XX secolo e nelle sceneggiature che si sono originate dal neorealismo in poi, di cui noi italiani siamo stati maestri. Fa dunque quasi amorevole rabbia vedere la bandiera portata avanti da un catalano, che certo come indole non deve averne una diversa da quella mediterranea, ma è un po’ come vendere la Ducati ai tedeschi. Un pochetto ce rode.

Detto questo come prologo, non resta che raccontare il gradevole esito della collaudata ditta Ianniello/Mirò, con il primo che daalcuni anni, con Chiòve prima e con Jucature ora, porta in scena i testi del drammaturgo catalano. Il Piccolo di Milano ha dedicato una piccola personale al drammaturgo, ospitando in questi giorni al Teatro Studio Expo i due allestimenti.

Di Chiòve avevamo parlato alcuni anni fa. Jucature l’abbiamo visto con piacere la settimana scorsa. La storia è quella di un gruppo di amici che si incontra per giocare a carte. I quattro sono caratteri prototipici: il giovane attoruncolo mai scritturato, l’impiegato del camposanto frequentatore di prostitute est europee, il vecchio professore di matematica, il bottegaio fallito. Figure border line che per uscire dagli affanni delle loro vite architettano un colpo in banca: un canovaccio narrativo neanche particolarmente originale, ma architettato bene nella costruzione dei personaggi. Siccome la commedia scritta bene è rara, quella interpretata bene ancor di più, Jucature appartiene ad un sottoinsieme intersezione dei dei precedenti, di cui fan parte pochi elementi, che dunque occorre segnalare. Il testo di Pau Miro’ per la regia di Enrico Ianniello che lo interpreta insieme a Renato Carpentieri, Tony Laudadio e Marcello Romolo in una produzione Teatri Uniti in collaborazione con OTC, Institut Ramon Llull, vive di una vita pulsante. L’allestimento lo veste di un realismo che è proprio del testo e che non cerca letture stravaganti. Anzi è proprio il realismo ad esaltare la stravaganza e l’assurdità di questi personaggi dal tratto concreto e possibile, in cui ogni spettatore possa trovare la parte incosciente di se stesso. Il testo forse nel finale flette un po’ ma in questa ora e poco più di spettacolo, ambientata in un soggiorno di una casa piccolo borghese attorno a un tavolo, i giocatori raccontano il loro destino, lo segnano, lo rendono concreto. La psicologia dei personaggi è ben delineata e gli interpreti la indossano in modo casual, confortevole. Da vedere, così come Chiove, in scena in questi giorni.

Gaber se fosse Gaber

giorgiogaber_1NICOLA ARRIGONI | Non è detto che per tutto la fine sia la morte… sicuramente non lo è per Giorgio Gaber. Il recital Gaber se fosse Gaber di Andrea Scanzi non si è limitato ad essere un omaggio ai dieci anni dalla morte del Signor G., il 1° gennaio 2003, ma è stato qualcosa di più. L’incontro spettacolo — prodotto dalla Fondazione Giorgio Gaber e scritto da Andrea Scanzi — ha tracciato la storia recente del Paese attraverso il volo utopico, arrabbiato e ironico di quel ‘gabbiano ipotetico’ che fu Giorgio Gaber, cantante, insieme a Sandro Luporini cantore di un’Italia fatta di contraddizioni, della politica come dell’amore, dell’uomo con tutte le sue debolezze e piccolezze. Il racconto di Scanzi parte dagli anni Sessanta e da quando Mina lo invitò a fare con lei una tournée e lo portò dalla tv in teatro da cui non se ne sarebbe più andato.

Gaber se fosse Gaber calibra con sapienza e senza essere ripetitivo filmati, canzoni e una narrazione che s’intesse — come è logico che sia — di citazioni dei testi di Luporini-Gaber per leggere la storia recente e come la società sia cambiata, il tutto attraverso i movimenti dinoccolati, la mimica stupita di un Gaber che riempiva la scena e lo faceva con leggerezza, con quell’aprir di braccia e alzarsi in punta di piedi che sembrava suggerire un volo possibile, sicuramente rincorso, voluto, sperato, sognato fino all’ultimo. Si passa dagli anni Settanta fra rivoluzione, passione politica e disincanto, per arrivare agli anni Ottanta del disimpegno che per Gaber furono sguardo rivolto all’uomo/albero, fino al Grigio e alla sua follia solipsistica, per passare poi all’indignazione/disillusione di Qualcuno era comunista nella Milano di Tangentopoli, fino all’invito ad un nuovo possibile umanesimo. Andrea Scanzi puntella con precisione e trasporto la carriera del Signor G., ne svela il portato intellettuale, critico, morale e moralista (per dirla alla francese), il tutto in un lungo respiro, quasi in apnea.

E la platea trattiene il respiro con Andrea Scanzi, lo fa ricordando quando il Signor G. era sul palco del Ponchielli ed era sempre una festa, lo fa per riassaporare quel senso di leggera inquietudine che alla fine degli spettacoli di Giorgio Gaber qualcuno si portava via perché si ritrovava di nuovo spiazzato da quello strano cantant’attore che non sapeva decidersi fra parola e musica e per questo — forse — s’era inventato il Teatro canzone. Andrea Scanzi ha costruito un testo teatrale puntuale, preciso, incisivo, che sfiora la nostalgia senza giocarci troppo, che sa fare sintesi e analisi al tempo stesso, in cui l’attore non si fa trarre in inganno dal facile mimetismo, ma non nasconde di essere stato travolto da Gaber visto a diciassette anni a tal punto che ora ne perpetua in maniera sentita e non retorica la lezione… Applausi al ‘gabbiano ipotetico’, al Signor G.

Di seguito un video dello spettacolo realizzato dalla fondazione Gaber

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Il doppio sguardo di Don Giovanni

don-giovanni-copiaNICOLA ARRIGONI | «Il dispetto è la spilla del mio desiderio», afferma Don Giovanni… In questa battuta e nella contrapposizione fra il termine dispetto e desiderio c’è tutta l’ambiguità del mito di Don Giovanni.

Se ci si rifà all’etimologia della parola dispetto: de (giù) spicere (guardare), guardare dall’alto verso il basso è in contraddizione con il de-siderio, che è volgere lo sguardo alle stelle. Don Giovanni vive di questo doppio sguardo: e non è poco.

Sfida il Cielo con lo sguardo ed è alla fine costretto a sprofondare all’Inferno, una condanna che gli è preannunciata ripetutamente dal suo fedele Sganarello che gli fa da voce della coscienza, o meglio da alter-ego di un contraddittorio fra il libero pensiero e il credere comune. Antonio Zavatteri ha reso tutto ciò con intelligente lucidità, calibrando con gusto ed equilibrio comicità e argomentazione, farsa e dramma in una coerenza di toni e varietà di forme più che apprezzabili. Il cielo — cui ci si riferisce in maniera ossessiva per tutta la pièce — è nuvoloso nel Don Giovanni di Gank, incombe, è angosciante, così come nella seconda parte la casa di Don Giovanni dove è atteso il Commendatore è una sorta di imbuto prospettico, per un allestimento che legge il testo rispettandolo e interrogandolo.
In tutto ciò Antonio Zavatteri è un Don Giovanni consapevole di sé, incastrato dalla bellezza, ma soprattutto disposto a portare all’estrema conseguenza la sua ricerca di libertà che si concreta nel condannare l’ipocrisia, vizio tanto alla moda nel mondo da diventare una virtù. Alberto Giusta è invece uno Sganarello che nel suo peregrinare al seguito del padrone è voce del comune sentire, ma incapace di opporsi al padrone, una mancanza dettata forse dalla convenienza che nella commedia equivale alla fame atavica dei servi.

La Donna Elvira di Ilaria Falini è vestale immolata, è il dolore delle donne sedotte, sposate e abbandonate di Don Giovanni che del dolore dell’altro non sa occuparsi, troppo preso dal suo desiderio d’altro: sempre in fuga dalle donne e dai debitori, sempre in viaggio, sempre inappagato. Massimo Brizi, Mariella Speranza e Alex Sassatelli vestono i panni degli altri personaggi, in un cambiare di voce e di abiti che non è mai macchinoso, appare preciso e ben caratterizzato, in cui l’aspetto farsesco — sempre presente anche nel Molière più maturo e introspettivo — si coniuga con giusto cabarettistico e spinte caricaturali trovando sempre la giusta misura.

Don Giovanni conferma la solida impostazione della Compagnia Gank, il suo onesto e fecondo interrogare i grandi testi, senza sostituirsi ad essi ma portandoli nel qui ed ora della scena. L’effetto allora è che quella condanna all’inferno è un bruciare interiore che risucchia in se stesso Don Giovanni che dal desiderio d’altro di trova fagocitato dal desiderio di niente, un cupio dissolvi inconfessato.

Qui alcune sequenze dello spettacolo in un video realizzato dalla compagnia
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=JVeqwobSPYg]

DON GIOVANNI di Molière, traduzione Cesare Garboli, con Alberto Giusta, Antonio Zavatteri, Massimo Brizi, Alessia Giuliani, Mariella Speranza, Alex Passatelli, scene e costumi: Laura Benzi, luci: Sandro Sussi, regia di Antonio Zavatteri, produzione Gank-Teatro Stabile di Genova, al teatro Ponchielli, Cremona, 11 gennaio 2013

Qui e ora

Qui-e-OraRENZO FRANCABANDERA | Gregor Johann Mendel è stato un biologo considerato il precursore della moderna genetica per le sue osservazioni sui caratteri ereditari. Dopo i suoi studi è più facile capire se qualcosa appartiene o meno a qualche specie, genere, categoria. Quando Mendel è nato, era già in uso la nomenclatura binomia, la convenzione standard utilizzata in sistematica per conferire il nome scientifico ad una specie, composto dal nome del genere a cui appartiene la specie e da un epiteto che caratterizza e distingue quella specie dalle altre appartenenti al quel genere (es Homo erectus, Homo sapiens).

La questione ci viene in mente a proposito del debutto in prima nazionale a Cagliari di “Qui e Ora”, la pièce scritta e diretta da Mattia Torre, che segna il ritorno al palcoscenico di Valerio Mastandrea dopo il monologo “Migliore”. Ci viene in mente perché dopo lo spettacolo ci siamo per un certo tempo (relativamente breve) interrogati per capire se questa commedia commissionata dalla produzione cagliaritana BAM Teatro, ed interpretata oltre che daValerio Mastandrea, da Valerio Aprea, possa essere ascritta alla categoria vaga, indefinibile e geneticamente modificata di “nuova drammaturgia”. Se sul sostantivo (Drammaturgia, il nome del genere, se il paragone è lecito) non v’è dubbio, l’elemento critico ricade sull’aggettivo (l’epiteto “nuova”) che dovrebbe declinare il genere nella sua caratteristica estranea al modello prototipico.

Una cosa è quindi nuova se ha caratteristiche di cui non si possa postulare la conformità rispetto ad altro calco; con riguardo alla drammaturgia, dovremmo parlare di qualcosa che, ad esempio, introducesse uno schema narrativo con un linguaggio, un riferimento al tempo scenico, all’azione, allo spazio, che incorpori appunto una qualche novità rilevante.

Insomma,  con  qualcosa che riproponesse un tradizionale schema di inversione dei ruoli all’interno di un canovaccio da  commedia, in cui l’ammiccamento al pubblico dovesse continuare per quasi tutto il tempo con un’impostazione da ironia noir, prima di proporre un finale tragico, saremmo nel già visto e già sentito abbondantemente. Tutto il sostrato delle sceneggiature della commedia all’italiana degli anni 60, avendo incorporato la lezione del neorealismo, era basato su questo schema. Insomma di nuovo ci sarebbe assai poco.

E’ questo il nostro pensiero a proposito di Qui e Ora, titolo che peraltro in noi appassionati di nuove drammaturgie, evocava ben altri sussulti, essendo il titolo di una altro testo teatrale, quello si nuovo, di Roland Schimmelpfennig “Hier und Jetzt” che nell’edizione 2009 del Theatertreffen fu affidata, per quella che poi divenne la sua ultima regia, al grandissimo Jürgen Gosch. Un allestimento che ricordo ancora per slittamento di piani narrativi, sequenze irreali e scene indescrivibili per complessità che ho poi rivisto in qualche modo copiate in molti spettacoli successivi.

Quella di Cagliari è invece la storiella di un conduttore radiofonico che ha un incidente di moto. Nel suo delirio personale il personaggio, dal tratto isterico aggressivo, non trova neanche nell’incidente causa per fermarsi, dando vita ad una diretta audio dal luogo dello schianto, e con l’altro incidentato che pare lì lì per morire. Il finale invertirà i ruoli e si scoprirà che l’incidente non era poi frutto del caso.

Nel testo, la chiave di volta dall’ironico al drammatico è talmente schematica e secca da risultare posticcia e mal studiata. Il finale è schiacciato, come l’intervento di un deus ex machina che risolve senza spiegare o, come in questo caso, fornire elementi credibili in una logica del reale (che alimenta d’altronde lo spettacolo in generale) per quello che risulterà essere un tentato omicidio.

La scena proposta a Cagliari  da Beatrice Scarpato non sfrutta il palcoscenico, è didascalica e parziale al contempo, mentre il disegno luci di Luca Barbati risulta banale, con un leggero abbassamento dell’intensità sul finale a lasciar intendere un’ora prossima al tramonto, e un passaggio dai toni caldi a quelli freddi per l’attimo fatale con cui si chiude lo spettacolo, rimarcato da una versione registrata dell’Ave Maria di Gounod, che ci è sembrata (anche questa, sic!) non esente da errori né sul latino né sull’intonazione della cantante. E’ parso maggiore lo sforzo per il disegno luci al momento degli applausi che quello per l’intero spettacolo. Ci sarebbe piaciuto parlare delle nostre inquietudini con i protagonisti e chi ha scritto il testo. Ma non è capitato.

Siamo rimasti per oltre quaranta dei sessanta minuti in una dimensione surreale, fuori da uno spettacolo che raccoglieva, attorno a noi, grasse e sempliciotte risate in un pubblico che era lì al 90% per vedere il divo tv, attorno al quale è stata costruita la solita drammaturgia che dovrebbe calzargli a pennello, mettendogli vicino una spalla. Niente di sfidante, niente di nuovo. Per nessuno. Uno spettacolo che, in fondo, vale, per l’intima logica che lo pervade, il pubblico che richiama. Non dunque di Nuova Drammaturgia trattasi, ma solo di una Drammaturgia nuova.  ¡Que viva Mendel!