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martedì, Aprile 16, 2024
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Paolo Bacilieri e una chiacchierata tra arte e fumetto

PaoloBacilieriALESSANDRO GUALANDRIS | Il mondo del fumetto italiano regala spesso autori capaci di dare vita a una mondo personale ed artisticamente alto. La Graphic Novel, termine ormai abusato, riguadagna la sua autorialità attraverso un lavoro di crescita mai interrotta.

Abbiamo avuto la fortuna d’incontrare uno di questi, Paolo Bacilieri, in occasione della serata Sound and Vision, tenutasi al Bloom di Mezzago, storico locale della Lombardia, sempre attento alle nuove creatività e alle sperimentazioni. L’evento univa la musica dei Dorian Gray, famoso gruppo sardo degli anni 90, all’arte visiva del fumettista Bacilieri.

Siamo riusciti, prima dello spettacolo, ad avere una chiacchierata con l’autore, durante la quale si è discorso piacevolmente di arte, musica e fumetto.

Paolo, nel corso della tua carriera artistica ti sei spesso cimentato con diverse forme d’arte, come si arriva ad un matrimonio tra illustrazione e musica?

bacilieriIn verità non è la prima volta che mi capita. Già al MIAMI due anni fa, al Forum di Assago avevo approcciato con un evento simile. In verità per un fumettista, che fa un lavoro molto solitario e spesso chiuso nelle quattro mura di casa sua o del suo studio è come una libera uscita. Non una fuga, perché altrimenti non sarei soddisfatto di ciò che faccio, ma di un’evasione in un mondo che spesso offre stimoli diversi, come quello della musica. A volte è difficile, soprattutto per una persona timida come me, doversi ingegnare in tempo reale su cosa proporre e rischi di avere un blocco da prestazione. Una sorta di Parkinson alle mani. Ma poi ti liberi e disegni seguendo la musica.

Ritornando alla tua formazione artistica, sei un autore dallo stile molto variegato, capace di incorporare diversi influssi ma rimanendo molto personale e autorale: che percorso hai fatto?

Nel 1982, durante la prima edizione di Lucca Comics (Lucca Comics è una tra le convention di fumetti più importante d’Europa, nda) Karel Thole, copertinista storico di Urania, mi disse “L’importante è che tu difenda il tuo metro quadrato”. Non ho mai seguito il suo consiglio. Da nomade del fumetto ho sempre viaggiato attraverso gli stili e credo che questa cosa mi abbia aiutato ad avere un metodo eterogeneo.

Infatti, agganciandomi al tuo pensiero, le tue tavole spesso necessitano di un’attenzione particolare, non basta sfogliarle, ci si deve soffermare, donando il giusto tempo al lettore per apprezzare il lavoro dell’artista.bacilieri3

Il mio lavoro mi permette d’affrontare diverse tipologie di tavole. Lavorare con la Bonelli mi ha permesso di realizzare tavole dove l’importante è la sintesi, senza creare troppe distrazioni visive che spostino l’attenzione dalla narrazione. Invece con i miei lavori più personali, per esempio con Zeno Porno, ho potuto cimentarmi con un tipo di fumetto più lento, che offra diverse soluzioni grafiche molto più stratificate. La tavola non si ferma al primo impatto ma necessita di un’attenzione più profonda.

Paolo, come sta il fumetto italiano?

C’è una lenta discesa, ma anche una sostanziale trasformazione. Bisogna distinguere i vari campi. Con il passaggio sempre più diretto tra la carta e il digitale, molte case devono adattarsi al nuovo che avanza e spesso per un artista non è facile vedere il proprio lavoro abitualmente stampato trasformato in un formato diverso da quello conosciuto, anche se tuttavia diventa affascinante potersi cimentare anche con quello. Inoltre molti lavori dall’edicola abituale in cui si potevano acquistare, adesso arrivano in libreria o nelle fumetterie specializzate, dando una dimensione diversa dal formato canonico. Abbiamo una forte tradizione classicista che ci permette di far emergere tanti bravissimi nuovi autori. Per citarne uno vi segnalo Piero Macola, che lavora tanto all’estero e che merita un occhio di riguardo.

bacilieri2Libreria, quindi il libro a fumetti. Cosa offre all’autore questa dimensione, rispetto alle serie regolari?

Il libro a fumetti è una dimensione fantastica. Permette di poter produrre opere diverse, personali ma mantiene la visibilità necessaria per l’opera d’arte che racchiude. E’ sicuramente un mondo che può sembrare di nicchia ma che invece ci da la possibilità di esprimerci con più libertà e passione, mantenendo una diffusione notevole. Certi lavori poi diventano una vera e propria fatica. Per esempio sono molto felice di aver portato a compimento Sweet Salgari, che ho completato nell’arco di 4/5 anni ma che ha alle spalle un progetto di quasi dieci. Ovviamente figlio di una ricerca non indifferente riguardando un autore vasto come Emilio Salgari.

Progetti per il futuro prossimo?

Sto completando uno speciale di Dampyr per la Bonelli, che vedrà la luce in autunno e sto pensando ad un libro a fumetti che raccolga molte delle mie storie brevi, avendo come fil rouge la storia del cruciverba. Spero di poterlo portare a Lucca a novembre, ma sarà molto difficile.

Salutiamo qui Paolo Bacilieri. Vi consigliamo di recuperare i suoi libri, soprattutto il bellissimo Sweet Salgari. Le foto che vedete allegate all’articolo sono tratte dalla serata al Bloom.

Ultima cena europea: l'Hotel Belvedere di Magelli

hotelbelvedereMagelliASSUNTA PETROSILLO | In un ambiente scarno, polveroso, grigio, buio – come l’Europa sul finire della prima guerra mondiale – si rincorrono anime disperate, angosciate, inquiete.
All’interno dell’Hotel Belvedere, situato nella provincia prealpina bavarese, si nascondono e si muovono sette personaggi gretti, falliti, depressi. Del Belvedere rimane davvero poco o nulla, è un ‘Malvedere’, frutto di una società alla deriva.
Sul fondo della sala s’intravedono sedie ammassate, dallo schienale a forma di violini, privi di corde, snaturati dalla propria primaria funzione. Sono silenti, come tutto intorno a loro. Sulla sinistra poche poltrone logore, sulle quali di volta in volta si alternano le smanie di potere di uomini e donne alienate. Storie che condurranno all’orrore nazista e come afferma Magelli «alla malattia del paleofascismo che ci ha reso portatori di un virus letale che è entrato nel DNA dei nostri popoli».
Hotel Belvedere scritto nel 1922 è il quinto testo teatrale di Ödön von Horváth tradotto in italiano, dei diciotto scritti dal geniale autore morto prematuramente, ma già insignito ancora in vita del più prestigioso riconoscimento – il Premio Kleist − in ambito teatrale. Horváth analizza la figura del borghese medio, e la malvagità strisciante che si nascondeva dietro gli splendori dell’ultima stagione asburgica e le macerie della prima guerra mondiale.
La traduzione in italiano di Paolo Magelli che cura l’allestimento in scena al Teatro Metastasio di Prato, restituisce l’analisi microscopica del mondo di Horváth, nel quale tutto è talmente tragico, da divenire tragicomico. Un testo noir nel quale si attacca con ferocia una Mitteleuropa capace di nascondere dietro la sua grandezza, un mondo volgare, malato, interessato solo al denaro. Un primo allestimento in lingua serba fu portato in scena trentasei anni fa al Premio Roma di Gerardo Guerrieri proprio da Magelli che lo ripropone per la grande attualità dei temi trattati. L’Europa degli anni venti fa da contraltare all’Italietta odierna.
Il vero fulcro della storia prende avvio quando entra in scena Christine (Elisa Cecilia Langone) che da povera orfana squattrinata, prima violentata e sbeffeggiata a turno dagli uomini lì presenti, diviene la donna da venerare per la sua fortunata eredità ricevuta da una vecchia zia. È proprio nella scena della violenza di gruppo, molto cruda e vera, che la giovane attrice dà prova della sua bravura interpretativa.
Altri due i momenti topici della rappresentazione: la distruzione dell’Europa e l’incontro-scontro tra Ada (Valentina Banci) e Christine.
Assistiamo ad un’ultima cena ‘europea’ dove i commensali a turno divorano una cartina geografica dell’Europa, ingozzando e sputando i resti di una società in totale disfacimento che trasforma l’apatia e la rassegnazione in depressione collettiva. Un momento ben enfatizzato dalle musiche di Alexander Balanescu. Le due donne che rappresentano l’una l’alter ego dell’altra, s’incontrano una sola volta, da sole in scena, e in quell’incontro-scontro in un’altalena di luci, escono allo scoperto tutte le loro fragilità mai risolte.
Tra gli attori, Marcello Bartoli (Müller) affianca sulla scena Francesco Borchi (Max), Daniel Dwerryhouse (Karl), Mauro Malinverno (Barone von Stetten), Fabio Mascagni (Strasser).
Molte le invettive lanciate sulla questione politica odierna e sull’importanza del lavoro dell’attore, sulla condizione femminile e sulla realtà politica in cui siamo invischiati. Quasi a voler sottolineare − come afferma uno di loro − che la verità è sempre volgare. Una storia cruenta che poteva chiudersi già al primo atto, senza dilatare troppo i tempi, che lascia allo spettatore un senso di inquietudine e amarezza.

Qui una videointervista a Magelli sullo spettacolo, realizzata da ChiediscenainToscana
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GirogiroMondo #1 – Il New Orleans Jazz festival da casa vostra

new-orleans-jazz-heritage-festival-logoSARA TRECATE | Non si può dire che non si sappiano divertire a New Orleans: in primavera si susseguono Festival di ogni genere, e la scoppiettante festa del Mardi Gras, nel periodo di Carnevale, è ogni anno un appuntamento attesissimo (state pronti a strizzare l’occhio o mandare un bacio ai figuranti sui carri per farvi regalare collane di perline colorate!).
Come testimoniano film (La città del jazz, 1947) e canzoni (King creole, Johnny B. Goode…), New Orleans è il paradiso dei musicisti. Là, sulle rive del Mississippi, convivono tradizioni europee, caraibiche, africane, ed è la musica ad unire le varie anime della città.
Il New Orleans Jazz & Heritage Festival scalda gli animi in Louisiana dal 1970. L’edizione 2013, che si svolgerà nei fine settimana 26-28 aprile e 2-5 maggio, promette giorni intensi di musica, cibo, artigianato: una vera celebrazione del variegato patrimonio culturale della zona. Per cominciare, vi consiglio la lettura di questa guida pratica per i visitatori del Festival.

Ormai fervono i preparativi, il programma già disponibile online è fittissimo, e i commenti sui social network si fanno sempre più nervosi per il sovrapporsi di concerti importanti tra cui si è obbligati a scegliere.
La culla del jazz offrirà anche performance di musica gospel, R&B, rock&roll, zydeco (musica tradizionale della popolazione creola). La line-up di quest’anno prevede: Fleetwood Mac, Billy Joel, Dave Matthews Band, Maroon 5, The Black Keys, John Mayer, Daryl Hall and John Oates, B.B. King, Frank Ocean, Earth Wind & Fire, Willie Nelson, George Benson, The Gipsy Kings, Jeffrey Osborne, Patti Smith, Ben Harper and Charlie Musselwhite e altri…

Ma c’è una sorpresa per noi viaggiatori immobili: un buon numero di concerti si potranno ascoltare in streaming su Tune In, promotore dell’esclusiva JazzFest radio, che dal 3 al 5 maggio proporrà interviste agli artisti e concerti live in versione integrale direttamente da New Orleans (il programma completo sarà disponibile sul blog di TuneIn a ridosso dell’inizio della manifestazione). Nell’attesa potete ascoltare, sempre sulla web radio, pezzi interpretati dai partecipanti alla prossima edizione, oppure acquistare sul sito ufficiale registrazioni di concerti live delle edizioni passate (dal 2004 in poi).

Così un po’ di jazz partirà dagli USA, attraverserà la dorsale oceanica fino a raggiungere e far vibrare le nostre cuffiette auricolari. Niente da fare, invece, per cibo, odori e sapori: potremo soltanto immaginare assaggi di jambalaya, panini po’ boy con carne di maiale o gamberetti fritti, ricette cajun a base di anatra…
Se siete a Milano, potreste rimediare ordinando take away dal Louisiana Cajun Bistrot o da Dixieland (entrambi in zona Brera) e gustare cucina creola mentre ascoltate lo streaming. Et voilà, il Jazz Festival prenderà vita nel vostro salotto.

E a notte fonda, una volta spenta la musica, sarebbe bello avventurarsi alla scoperta del lato oscuro di New Orleans, la città più stregata d’America! Bar, ristoranti, hotel, cimiteri, strade…ogni angolo pare sia popolato da fantasmi, tra cui gli spiriti delle grandi regine Voodoo che hanno abitato in questi luoghi, facendo proprio il sistema magico che arrivò in America grazie agli schiavi dei coloni francesi (c’è anche un museo in città: www.voodoomuseum.com). A tutte le ore del giorno agenzie locali organizzano tour a tema, per far scorrere un brivido lungo la schiena ai turisti. Se non vi manca il coraggio, prendete nota dei 10 posti più infestati di New Orleans, da visitare nel vostro prossimo viaggio.

Official Jazz Fest 2013 Talent Announcement Video

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=DYcQ8wI1xaw]

I cambi dell’armadio ed il Conte Mascetti. Eppur bisogna andar

valeria_mariniALICE CANNONE | “Meglio cambiare, no?!”. È certamente così che Paris Hilton, filosofa liberale massima esponente del decadentismo post moderno, avrebbe commentato lo status quo della situazione geopolitica italiana.

E il cambiamento si anelava e si temeva, esattamente come si anela e si teme il cambio dell’armadio primaverile, che sotto sotto fa paura, ma non bisogna ammetterlo troppo ad alta voce, ché poi tutte le fatiche vengono sempre premiate da un piacevole tepore e dall’esibirsi finalmente scosciate senza calze troppo velate. Esattamente come si teme la ceretta brasiliana, ma poi vuoi mettere? Roba per molte ma non per tutte, ché la paura si sa gioca brutti scherzi. E l’unica per fronteggiare l’arma di distruzione di massa della ceretta è un mix letale di antidolorifici ed alcoolici, dichiarato illegale dalle ultime risoluzioni dell’ONU, ma che la tradizione orale di matriarche impavide ha saputo tramandarsi.
E di cambio dell’armadio ad un certo punto se ne stava cominciando a parlare, a dispetto di meteorologi troppo restii al cambiamento. E quei loden e quei paltò stavano davvero per finire, in parte, nel posto che stagionalmente dovrebbero occupare, ben cosparsi di naftalina. E noi impavide, e provvidenzialmente narcotizzate, stavamo già sgambettando verso una liberatoria ceretta, a conquistare la rossa primavera.
Ed invece no. I loden restano lì, e la peluria di troppo pure, ben piazzata su certi opulenti stomaci. E quel che resta è solo un certo sentore di democrazia, non esattamente rappresentativa. Ché lì, in quegli scranni più alti dove l’alternarsi delle stagioni è scandito solo dall’alternarsi del peso di giacche firmate indossate, la volontà popolare aveva, embrionalmente e timidamente cominciato ad esprimersi. Ché la gente ci ha sperato, e ci ha sperato davvero, che a fare il rimbottino di fine anno ci fosse Rocco Siffredi. O che fra i due corazzieri si piazzasse salvificamente Raffaello Mascetti a farci una bella super cazzola. E se proprio proprio gli oneri ed onori della carica, che almeno fosse Veronica Lario a parlarci di quanto è difficile fare la madre in tempo di crisi, che mensilmente aspetta gli alimenti del marito. O quanto meno la Marini, che di ingombrante si porta dietro solo il cognome, a concedere la grazia cavalcando una mortadella.
Ed invece no. Però possiamo risparmiare sulle foto da appendere ai muri delle scuole e delle caserme. Mica poco, eh. E così il cambio dell’armadio quest’anno e saltato. E la ceretta pure. Eppur bisogna andar.

A futura ed imperitura memoria:

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Tec Teatro: e sei Protagonista!

tecVINCENZO SARDELLI | Che cosa saremmo disposti a fare pur di comparire, di esibirci, di uscire dall’anonimato ed essere catapultati nel gigantesco caravanserraglio mediatico che è il mondo dello spettacolo e della Tv?
È questa la domanda che ci si pone assistendo allo stravagante show di Tec Teatro dal titolo “Il protagonista”, vincitore della Borsa Teatrale “Anna Pancirolli” 2012 (anche Menzione Giuria Giovani) recentemente di scena al Teatro I di Milano con l’altro vincitore ex aequo, “Mi chiamo Rachel Corrie”, di Marta Paganelli.

Qualunque simulacro di video serve a immortalare la nostra faccia, i nostri gesti, attimi banali di vita normale, con la narcisistica illusione che basti cristallizzarli in un’immagine per renderli rilevanti ed eterni.
Per perpetuare le nostre sembianze, per guadagnare un’effimera celebrità, saremmo disposti a qualunque tipo di rischio. Forse persino a rinunciare… alla vita?
“Il protagonista” (con Riccardo Maffiotti, Filippo Parma, Luca Roncaglia, Marco Cantori, fonografia di Luca Roncaglia, luci di Enrico Barbieri, regia di Marco Cantori) è ispirato a “La lotteria di Babilonia”, racconto breve di Borges, dove l’estrazione di una speciale lotteria assegna ai partecipanti dei destini: alcuni belli, altri terribili.

In questo spettacolo dai toni surreali, con qualche venatura d’assurdo e un  grottesco ping-pong di battute con il pubblico, compaiono tre personaggi di una scalcinata compagnia. Sono un capocomico e un inserviente entrambi in camice bianco e occhiali da sole a specchio, e anche un presentatore in frac, che presto si trasformerà in una stramba, rubiconda, sinistramente eccitante valletta-trans.

Parte lo show televisivo. L’estrazione sta per avere inizio. Il Protagonista sorteggiato festeggia con foga iperbolica, con tanto di spogliarello e maquillage, fino al coinvolgimento in una serie di demenziali format televisivi che vanno dal mega-colloquio mozzafiato a un’estenuante gara pubblicitaria, a un’esilarante performance ballo-ginnica. Si finisce con una pirotecnica prova del cuoco, che impregna la sala dell’odore pungente degli ortaggi usati.
Luci ammiccanti e atmosfere soft, voci persuasive e decadentemente calde al microfono, coreografie di gruppo bizzarre e monche esprimono la vacuità di un mondo di lustrini e paillettes. Il baraccone mediatico fagocita la nostra coscienza e individualità, ancor prima della nostra intelligenza.
L’umorismo cinico di Tec Teatro si vale di pochi mezzi (un camice da estetista, o cuoco o infermiere; un lenzuolo bianco che diventa sudario o schermo su cui proiettare delle immagini) per irridere la nostra epoca, che preferisce l’apparire all’essere, la copia all’originale.

Il burlesco manichino in cartone di Giorgio, il Protagonista, tra una coltre di palloncini bianchi, chiude uno show divertente e laconico. Non semplice, perché l’attributo di qualunque fenomeno è la complessità; ma capace di distrarre e di far riflettere senza la pretesa di persuadere.

Rinunciando agli effetti speciali di uno stile barocco o di un finale inatteso, Tec Teatro, in bilico tra realtà e fantasia, tra realismo e simbolo, preferisce la preparazione di un’aspettativa a quella di uno stupore. Intraprendente la regia, esuberante e convincente la prova degli attori.

Teatri di Vetro 2013: le visioni degli artisti possono aiutarci a superare la crisi odierna

tdvetroLAURA NOVELLI | “Io non ho paura”: ricorda il titolo di un celebre romanzo di Niccolò Ammaniti il filo conduttore tematico che lega insieme le diverse proposte messe in campo da Teatri di Vetro 2013 e che Roberta Nicolai, direttrice artistica della vetrina romana, ha scelto per raccontare uno spaccato di nuova creatività italiana, figlia giocoforza della crisi attuale ma anche capace di aprire prospettive di riflessione sul mondo di domani.
Il ricco programma di questa settima edizione, al via domenica 21 e con eventi fino a martedì 30 dislocati in diversi spazi della capitale (teatro Palladium, Centrale Preneste, Forte Fanfulla, Fonderie Digitali e lotti del quartiere Garbatella), non risparmia nessun ambito della creazione contemporanea e anzi, a fronte di risorse economiche pressoché dimezzate, rafforza il suo legame con l’oggi aprendosi a nuove forme espressive: installazioni site-specific, arti visive, audio-documentari, video-arte (comprensiva di video-danza e video-teatro), performance, percorsi musicali sospesi tra digitale e analogico si insinuano tra scritture coreografiche e operazioni specificatamente teatrali che – e qui sta forse la scommessa più stimolante della vetrina – entrano in dialogo con le costole più nuove e sperimentali del cartellone per chiedere allo spettatore, tutte insieme e tutte con pari autorevolezza, di porsi delle domande, di ascoltare le sue necessità, di interrogarsi sui suoi bisogni culturali.
“Ogni anno – spiega Roberta Nicolai – mi propongo di indagare il contemporaneo inteso come un luogo in cui coesistono molteplici modi di pensare e rielaborare la realtà. Quando io e gli altri curatori della vetrina selezioniamo i progetti da inserire nel cartellone, ciò che cerchiamo di ritrovarvi non riguarda solo la praticità del fare artistico ma anche, e direi soprattutto, il senso teorico di un’indagine, di un percorso di pensiero e di conoscenza. Personalmente, entro in contatto molto stretto con gli artisti che sostengo, li curo da vicino, cerco di conoscerli bene. Poi ovviamente devo scegliere, selezionare e lo faccio prediligendo sempre quelle operazioni che, a prescindere dal fatto che siano già approdate ad una forma finita o viceversa ancora in fase embrionale, hanno provocato uno spostamento, anche lieve, del mio pensiero. Penso infatti che, tanto più in questi tempi di angoscia e di crisi, chi crea debba pretendere dal pubblico l’attitudine ad un’indagine, la voglia di fare un’esperienza, di interrogarsi sulle necessità proprie e dell’artista stesso. Non mi interessa cioè l’arte come semplice oggetto commerciale, cibo da consumare e digerire”.
Consiste dunque in questa vigile attenzione verso il reale ma anche verso il pensiero che progetta e immagina il futuro (“quando Strehler fondò il Piccolo di Milano, non ebbe forse una visione? E non sono stati forse visionari tutti i padri fondatori del teatro del Novecento?”) la battaglia contro la paura, personale e collettiva, che il teatro e l’arte in genere possono intraprendere in momenti duri e difficili come quello attuale. “Abbiamo scelto Io non ho paura perché è uno slogan espresso in prima persona, ci chiama singolarmente alla responsabilità della scelta. Se non ci mettiamo in testa, noi artisti, operatori, critici, intellettuali di cambiare, di ascoltare le trasformazioni in atto nel mondo reale, di riformulare le nostre possibilità e i nostri ruoli, rischiamo di diventare sempre più marginali”.
Ciò significa ovviamente riformulare anche i codici estetici, le definizioni di genere, i confini di “parentela” tra arte e arte. “Non credo che oggi noi possiamo chiamare teatro solo ciò che è sempre stato teatro. Credo anzi che nella contemporaneità anche un video o una performance possano entrare di diritto nella definizione, o possano almeno confondere le acque al punto di stimolare una riflessione a riguardo. Dipende, appunto, da cosa quell’opera cerca di dirmi come spettatore, quale necessità esprime o intercetta”.
Mettiamoci dunque in ascolto di “opere” come, ad esempio, gli sconfinamenti nel tessuto urbano previsti dal contenitore Overlab Project e dalla tappa finale della maratona studentesca tra le “paure” dei cittadini, Across Lightblack il titolo, ideata da Dynamis teatro. Cerchiamo di interpretare la necessità di un artista come Filippo Berta, cui la rassegna dedica una personale, o di una cronista come Ornella Bellucci, curatrice di tre reportage giornalistici pensati per un ascolto live.
E lasciamoci ovviamente sollecitare dalla ricca programmazione drammaturgica, assemblata anch’essa secondo un’ottica di fluida contaminazione tra linguaggi e forme: Andrea Cosentino approfondisce lo studio “Not here, not now” già avviato in seno al laboratorio Perdutamente del Teatro di Roma; “La società” si intitola invece il lavoro della compagnia Musella/Mazzarelli che, sorretto da una scrittura solida e concreta e da una recitazione quasi cinematografica, arriva a Roma prodotto dallo Stabile delle Marche; Carrozzeria Orfeo figura in cartellone con “Robe dell’altro mondo”, produzione già molto apprezzata da pubblico e critica che affronta le paure metropolitane in chiave fumettistica e grottesca, mentre la giovane formazione Leviedeifool rilegge in modo assolutamente originale il capolavoro di Collodi e, in “Requiem for Pinocchio”, confeziona uno spettacolo sovraesposto che viaggia su piani diversi. Pari interesse suscitano poi “Grattati e vinci” di Quotidiana.com, “Col tempo” di Clinica Mammut, “Religions – 1.studio” di Farmacia Zooe’ e la lettura scenica, a cura della compagnia Biancofango, di “Las Vegas” di Tobia Rossi, testo vincitore del bando Urgenze.
Questo è tuttavia solo un timido assaggio di quanto programmato. Vi consigliamo perciò di consultare l’accurato catalogo on-line sul sito (ma anche www.teatridivetro.it e www.romaeuropa.net/palladium) e di seguire più eventi possibile. Portando sempre con voi alcune domande centrali: cosa mi sta dicendo questo artista? Cosa mi sta chiedendo? Come e quanto sta spostando il mio pensiero? Che tipo di esperienza sto facendo?

Mondocane#4 – L’insostenibile leggerezza dell’artista

MOndocane 4MARAT | Ho un’amica borderline. Tutti hanno (almeno) un’amica borderline. E se non la si riconosce, probabilmente siamo noi gli amici borderline, come il pollo al tavolo da poker. Comunque di solito è facile: alla prima chiacchierata, trovano presto il modo di parlare del loro analista. La mia amica borderline ovviamente fa l’attrice. Perché c’è questa cosa strana al mondo per cui se fai un mestiere artistico, ogni cosa ti è più o meno permessa. Quindi se fai l’attrice, hai diritto di scassare la balle al mondo intero. Perché sei fragile, sei sensibile, sei delicata, sei paolograssina. Sei creativa, sei in un rush creativo, sei in crisi, sei in un periodo inquieto, ti senti (ir)risolta, fai colazione con l’insofferenza, vai a letto con l’ansia. Al femminile perché la mia amica è (appunto) un’amica.
Ma il corrispettivo maschile è identico. Solo un pochetto più sul maledettismo rock’n’roll baudelairiano esistenzialista adolescenza forever di ‘sticazzi. Quindi più droghe e meno farmaci, nottate alcoliche, logorree da poetastri, la mitologia del maledetto, la mitologia del “non è che non ce l’ho fatta, non ce l’ho voluta fare”, una donna ogni sera (poi scopri che stanno con la stessa dalle lezioni di analisi logica delle medie), la domenica in barca a vela e i lunedì al Leoncavallo.
“Come campi?” chiedeva Moretti e mi chiedo io ogni tanto. Con tutto l’affetto, s’intende. Che il ristorante lo offro uguale senza paturnie. Ma più che altro poi mi vengono in mente quelle amiche (e quegli amici) fra tecnici, organizzatori, uffici stampa che paiono mangiarsi il mondo per correre da un appuntamento all’altro. Si spupazzano il pupo e nel frattempo trastullano il partner. Perdono gli occhi a ritoccare comunicati, il cellulare sorta di protesi cyberpunk acceso 24 ore su 24, sette giorni su sette. Come un alimentare libanese. Aziendalisti per missione, martiri per contesto socio-politico e allineamento degli astri, che non s’allineano mai come dovrebbero. Se loro cominciassero a lamentarsi sul serio, sarebbe davvero l’apocalisse. Altro che scioperi del lunedì sera… Forse per tenerli buoni si potrebbe almeno invertire l’ordine nelle locandine. Se proprio non li si vuole pagare dignitosamente, almeno dar loro un po’ di visibilità. Sperando poi che non si scoprano fragili pure loro.
Che non sentano la necessità di un analista. O di un giro in India. A ritrovar sé stessi. Ed esportare piadine romagnole.

Marta Paganelli porta in scena la vita, i sogni e la morte di Rachel Corrie

martaVINCENZO SARDELLI | Fa piacere vedere il tradizionale un po’ obsoleto teatro di narrazione rigenerato da una fluida crema antigeriatrica. L’operazione di restyling è riuscita alla pisana Marta Paganelli, che ha portato in scena al teatro I di Milano “Mi chiamo Rachel Corrie”, monologo tratto dagli scritti di Rachel Corrie, volontaria 24enne uccisa il 16 marzo 2003 da un bulldozer israeliano a Gaza. Lo spettacolo ha vinto lo scorso anno, ex aequo con “Il protagonista” di Tec Teatro, la Borsa Teatrale Anna Pancirolli.
Anna Pancirolli, scomparsa nel 2000 a 24 anni, credeva nel teatro come antidoto vitale. Combatteva la propria malattia partecipando a un laboratorio al Crt. L’associazione che porta il suo nome (www.amicidianna.it) è nata per «far diventar realtà i sogni di altri giovani che credono nel teatro come medicina dello spirito».
Anna e Rachel condividevano una forte carica idealista. Credevano nell’arte, nella bellezza, nella possibilità per ciascuno di noi di incidere un poco nel mondo rendendolo un posto migliore. Anna amava il teatro come forma espressiva identificante, come scavo alla ricerca della felicità. Rachel credeva nei diritti civili, nella politica come lotta per bucare il silenzio che ci circonda.
“Mi chiamo Rachel Corrie”, coniuga anima artistica e giudizio civile. Tratto dai diari della giovane pacifista americana, curati nella versione teatrale da Alan Rickman e Katharine Viner, con la traduzione di Monica Capuani e Marta Gilmore, lo spettacolo si serve di simboli cari a Rachel. Felpa e jeans, Marta Paganelli, attrice e regista in scena, si muove con semplicità tra due sedie, una poltrona, uno zaino da viaggio, pagine di diario, una kefiah, davanti a un pannello rosso con appese delle foto. Dalle estemporanee vibrazioni di chitarra eseguite dal vivo da Adriano Russo si materializzano le note, a sprazzi incalzanti, dei Magnetic Fields, gruppo Indie-rock amato da Rachel.
Il monologo si articola in due parti. Nella prima una Paganelli descrittiva, con la sua tagliente dizione “sporcata “di toscano, rievoca la fanciullezza geniale, divorante, schizzata, istericamente disordinata di Rachel. È una giostra psicotica da cui emerge il guazzabuglio d’idee del personaggio che si racconta, il fuoco che le ardeva in pancia, ben reso dagli occhi sgranati e dal ghigno dell’attrice, capace anche di cocenti acuti canori.
Entriamo nel mondo sognante di un’adolescente denti-aguzzi, occhi-a-spillo e speranze; ne esploriamo gli amori, le utopie, con quel po’ d’autoironia che l’attraversava costantemente.
Seconda parte. Lo zaino si riempie di tutto quanto era sparpagliato sul palco, la kefiah viene indossata, il pannello rosso ruota di 180 gradi e diventa una lavagna. Marta-Rachel vi segna con un gessetto a una a una le date cruciali delle ultime settimane di vita: da quel 25 gennaio 2003 quando si unì all’International Solidarity Movement (l’organizzazione finalizzata a “sostenere la resistenza non violenta del popolo palestinese all’occupazione militare israeliana”) al 16 marzo 2003, quando morì schiacciata da un bulldozer israeliano mentre cercava d’impedire la demolizione di abitazioni palestinesi.
Le atmosfere si fanno grigie. È l’incolore della guerra, dei profughi, delle torrette, dell’Intifada contro i carri armati. Sono le sfumature livide dei morti, dei bambini di otto anni così consapevoli degli orrori della vita, degli uomini che vivono l’angoscia costante della distruzione. È il silenzio della voce di Rachel.
Percepiamo in questo spettacolo il senso di una giovane vita e di un benessere strangolati.
Le lacrime di Marta sulla scena sono le lacrime di Rachel, ferita di quanto orrore si riesce a sopportare nel mondo. Rachel sognatrice come Che Guevara. Rachel realista più di Anna Frank nella disincantata riflessione pre-mortem: “Sto mettendo in dubbio la mia fiducia nella natura umana”.
Marta Paganelli si immedesima. Si appropria del testo. Si avvicina fortemente a una credibilità complessiva da autorizzare a pensare che ciò che porta in scena faccia parte del suo mondo interiore.

Helmut Newton. La forza della seduzione.

Nude e VestiteMARIA CRISTINA SERRA | La celebre fotografia, scattata per Vogue nel 1981 “Les Nus et le Vetus”, in duplice versione, in cui le quattro modelle avanzano verso gli spettatori come moderne valchirie wagneriane, prima svestite, ondeggiando sui tacchi a spillo, poi indossando con nonchalance morbidi abiti YSL, è emblematica dello stile e del sentire artistico del grande fotografo di origine tedesca Helmut Newton. Di come il suo occhio irriverente da “voyeur professionista” ha riscritto i vecchi codici estetici imbalsamati, rivoluzionando la foto di moda negli anni’70. Non più un sogno da vendere, impresso sulle pagine patinate delle più importanti riviste di settore, ma fantasie da rielaborare, sulle quali imbastire sogni in libertà. “Una buona immagine di moda”, sosteneva, “non deve assomigliare ad un ritratto, ad un cliché di paparazzi, ad un souvenir, deve avere un tocco di volgarità, che la renda più eccitante del cosiddetto buongusto che altro non è che la normalizzazione dello sguardo. La moda, per me, non è un’illustrazione, ma un’idea da mettere in scena”.
Il suo è un mondo totalmente liberato dalle convenzioni moraleggianti, dai conformismi e dalle ipocrisie e, nello stesso tempo, è pieno di ambiguità e di complessità esistenziali; dominato dal fascino per la bellezza, attratto dal potere della seduzione femminile, fonti inesauribili per il suo processo creativo e il suo immaginario erotico, come filtro di elaborazione per coniare un linguaggio fotografico fantastico, che attinge al reale.
“Io sono una persona molto pura”, diceva di sé , quasi sussurrando con voce gentile, respingendo le accuse delle femministe tedesche che di fronte alle immagini più audaci lo accusavano di pornografia. “Quello che è impresso nel negativo è solo ciò che è presente nella realtà. Il vero erotismo per me è il contrario del nudo integrale; non è espresso dal sesso, ma dal viso”. La mostra “Helmut Newton-White Women, Sleepless Nights, Big Nudes”, allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma (fino al 21 luglio), è una buona occasione per ammirare la sua opera attraverso una selezione di oltre 200 scatti, tratti dai suoi primi tre libri e sgombrare così la sua arte dai tanti luoghi comuni che l’hanno accompagnata. E’ il “fascino segreto della borghesia” ad occupare la scena, così come lui l’ha catturata e ritratta col suo obiettivo, senza veli, rivelandone i desideri e le pulsioni più segrete, gli angoli più nascosti, sottraendola a inutili pudori, adornandola di sottile, raffinata ironia. ”Sempre coerente con la mia cattiva reputazione, senza la pretesa di nascondermi dietro spiegazioni complicate. Io non ho mai raccontato la società nel suo insieme, ma solo il mondo dei ricchi e le loro relazioni”.
Una sincerità disarmante che ci permette di mettere a fuoco un aspetto della sua personalità e della sua biografia, costellata di capitoli intricati come un romanzo, mentre osserviamo la straordinaria forza espressiva e stilistica delle sue foto che il passare del tempo ha reso ancora più belle. Lo scandalo c’è solo negli occhi di chi lo vuole vedere, di chi non riesce a comprendere che le parole e le forme di espressione di un artista, se sincere, mostrano verità nascoste e scomode. Davanti ai suoi bianco/neri contrastati, scolpiti dal gioco sapiente delle luci, si ha la sensazione di trovarsi al cospetto di una scenografia viscontiana, dove ogni dettaglio è studiato alla perfezione e nulla è superfluo.
E’ la sua cultura di uomo del Novecento, figlio dell’alta borghesia ebraica tedesca (Helmut Neustadter era nato nel 1920 a Berlino), cresciuto fra sollecitazioni letterarie, avanguardie artistiche e reminescenze ottocentesche, ad affiorare fra le righe delle sue eleganti composizioni. Radici ed identità che si spezzarono definitivamente nell’inverno del ’38 per sfuggire alla razzia nazista, lasciandosi alle spalle il ricordo di Berlino, luogo dell’anima e di sogni perduti, la dolcezza di sua madre e le tinte pastello dei suoi abiti di satin. Poi la fuga in Australia, l’incontro con June (futura Alice Spring), la passione per la fotografia noire e metropolitana di Weegee, il ritorno in Europa e la consacrazione a Parigi.
Sono la luce cruda, la composizione elaborata, i forti contrasti in perfetto equilibrio fra di loro, la messa a fuoco dei particolari dal forte potere evocativo e simbolico a caratterizzare il suo stile, che negli anni andrà sempre più levigandosi, mantenendo la sua scrittura inconfondibile e inimitabile. I sentimenti restano sempre esclusi dal campo visivo. L’emozione, la tensione e la voluttà scorrono fluidamente come sequenze cinematografiche dal finale aperto. I vicoli deserti rischiarati dai pallidi lampioni fanno da cornice ai giochi di ruolo delle mannequin di Saint Laurent, in abiti scollati e smoking nero, simbolo di emancipazione e manifesto di un’epoca: come la pubblicità hard di Hermés, con una sella posata sulla schiena della modella inginocchiata sul letto.
Spregiudicatezza e sfida alle convenzioni; gusto per l’estremo, come fattore di vitalità.
L’eterno gioco delle apparenze e delle scomposizioni scolpite dalla luce nei suoi nudi anni ’80, ci fanno pensare alla “Venere allo Specchio” di Velasquez. La naturalezza delle pose colte nell’intimità, ai disegni di Degas. I suoi ritratti di donne tenere, inquiete, misteriose, abbandonate fra i cuscini di saloni dai toni ovattati, rievocano la pittura concreta e sublime di Manet. Specchiere e lampadari sono determinanti per definire le proporzioni dello spazio e colmano di ossessioni e di significato gli angoli vuoti. ”Mi piacciono i lampadari che vengono fuori dalla testa delle persone. Li trovo divertenti. Io non penso mai al gioco grafico o se ci penso è per evitarlo”. Le sue donne, prive di tabù e padrone del proprio corpo, davanti al suo obiettivo scoprono le pieghe del loro animo, le fragilità e le zone d’ombra. Catherine Deneuve è un’eterna, disarmante, ”Belle de Jour”. Charlotte Rampling un’enigmatica femme fatale. Madonna una rockstar travestita da “Angelo azzurro”. June, la sigaretta tra le labbra e il vestito scostato sul seno, accende un fiammifero nella notte, appagata dopo una cena appena consumata. Il suo autoritratto del ’81, con l’impermeabile sgualcito e le sneakers ai piedi, è un cammeo incastonato e riflesso nello specchio dentro lo studio di Vogue in Place du Palais-Bourbon. “Tutto quello che si vede fa parte della mia vita: la mia macchina fotografica, la mia modella di nudo preferita, mia moglie June divertita. Questa è una foto autobiografica. E’ un buon esercizio. Ogni foto lo è”.

Proponiamo due video su Helmut Newton e la mostra romana:

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=9Bgr91U058Q]

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=s_v1ChMnQfs]

PAC partecipa alla Giornata nazionale di C.Re.S.Co.

crescoLa 2° Giornata Nazionale C.Re.S.Co., fissata per il 20 aprile 2013, ha un cuore: il Laboratorio (permanente) sul contemporaneo, una pratica che parte dal pensiero degli artisti sul fare artistico, esplora una metodologia, confronta la scena con le altre arti e pone gli artisti della scena in dialogo con altri artisti intorno ai temi della creazione.

La giornata del 20 aprile, attraverso eventi singoli inseriti in una mappa plurale, mette al centro il pensiero artistico esistente rendendolo evidente all’interno di un grande evento nazionale, e stimola un nuovo pensiero, ritirando ogni delega, ridando parola agli artisti e chiedendo loro di sospendere  momentaneamente le discussioni rivendicative e politiche, per guardare alle poetiche, anch’esse fortemente politiche, ai linguaggi, al fare artistico sia esso solitario o di gruppo.

In data 20 aprile Cresco attiverà in ogni regione italiana una serie di attività congiunte.

 Nelle varie regioni sono stati interpellati artisti e operatori culturali che hanno elaborato una relazione a partire da specifiche domande. Gli elaborati saranno lo spunto da cui sviluppare una riflessione, un dialogo aperto e informale tra tutti gli artisti che vorranno partecipare numerosi alle tavole rotonde.

PER PAC Renzo Francabandera parteciperà con un intervento alla giornata in Sardegna con un collegamento via Skype alle ore 10,30 e a seguire modererà con Edgardo Bellini la tavola rotonda del Piemonte ad Avigliana (Torino), di cui riportiamo il programma sintetico

SABATO 20 APRILE 2013
dalle 11.00 alle 18.00

 Teatro Fassino di Avigliana (To) – TEATRO ABITATO
TEATRO: ARTE DEL PRESENTE – LABORATORIO (PERMANENTE) SUL CONTEMPORANEO
GIORNATA NAZIONALE C.Re.S.Co.
Coordinamento Realtà della Scena Contemporanea

PROGRAMMA SINTETICO DELLA GIORNATA IN PIEMONTE:
MODERATORI – I CRITICI RENZO FRANCABANDERA E EDGARDO BELLINI

11.00 – 11.30  -SALUTI 

  • Come si intrecciano etica ed estetica nel lavoro d’attore? BELLE BANDIERE  -11.30 – 12.30
  • Creazione: urgenza di cosa dire versus necessità del come farlo” CASTALDO – 12.30 – 13.30
  • Perchè voglio incontrare gli spettatori oggi? DI MAURO 13.30 – 14.30
  • PAUSA 14.30 – 15.30
  • Basi neurofisiologiche dell’arte performativa IVALDI 15.30 – 16.30
  • Teatro di Regia alle soglie del terzo millennio. BRIE 16.30 – 17.30
  • CONCLUSIONI 17.30 – 18