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venerdì, Maggio 9, 2025
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MK e l’alba di un nuovo Venerdì

GIULIA MURONI| «Tutta l’opera di Roussel ruota intorno ad una esperienza singolare: il legame del linguaggio con questo spazio inesistente che, al di sotto della superficie delle cose, separa l’interno della loro faccia visibile e la periferia del loro nocciolo invisibile. E là, fra ciò che c’è di nascosto nel manifesto e di luminoso nell’inaccessibile, che si crea il compito del suo linguaggio».

©Luca-Trevisani

Queste le suggestioni di Michel Foucault (1963) a proposito di Raymond Roussel, il cui Impressions d’Afrique ha costituito il riferimento di una delle più recenti performance di MK, vista a novembre alla Galleria Comunale di Cagliari, nel cartellone di Autunno Danza. A partire dall’Africa come orizzonte immaginifico, la disamina dei rapporti coloniali in un contesto esotico (“una donna destinata al sacrificio, una pattuglia di marines in avanscoperta, dei guerrieri esperti di tecniche di ipnosi”) rinvia a una continua astrazione il compito del proprio linguaggio corporeo.

In quello stesso iato tra il nascosto nel manifesto e il luminoso nell’inaccessibile, che in Roussel si esercita in un linguaggio paradossale e metalinguistico, si situa anche l’ultima creazione Robinson, vista alle Fonderie Limone a Moncalieri, all’interno della rassegna Interplay. Qui il rimando è a Michel Tournier che, con il suo Venerdì o il limbo del pacifico (1967), ha sconquassato la vicenda di Robinson Crusoe per dare voce al bistrattato Venerdì e rimodellare, in un’ottica novecentesca densa di nozioni dell’antropologia strutturalista, i concetti di selvaggio e di civiltà. Leone d’argento per la danza alla Biennale Danza di Venezia 2014, Robinson vede deflagrare il protagonista di Defoe, morto di solipsismo, per assumere un nuovo personaggio errabondo e sperduto, costretto a ridimensionarsi nell’inaspettato incontro con l’alterità. Il processo di astrazione coreografica spinge all’analogia per giungere a definire la danza ciò che è soltanto nell’incontro e che si mantiene in vita grazie ad esso.

Sul candore del fondale e del tappeto si definiscono le figure dei danzatori, ma la prima apparizione spetta a Philippe Barbut in mutande, dipinto di nero e giallo, che con un lungo bastone flessibile rivela l’elemento scenografico di rilievo: una sorta di vela fluttuante e iridescente, gonfia e metallica, su cui si rifrangono le luci. A partire da questa apparizione perturbante si susseguono le presenze in scena dei danzatori, coperti da pochi indumenti dal colore neutro. I loro movimenti vanno ad amalgamarsi, fino a esplicitare la dinamica ripetitiva che compone le diverse combinazioni nello spazio. Di tanto in tanto una sospensione: è l’ingresso di quella stessa figura anomala che, toccando con l’asta qualcuno dei performers, cambia l’atmosfera. Poi la danza riprende il suo corso, in questo loop di incontri e addii, foriero di indefinite possibilità. L’idea di fondo è condotta con coerenza e metodo nell’arco di tutto lo spettacolo, senza ammiccamenti ma anzi con un rigore formale notevole e uno sguardo registico determinato e presente. L’estetica, resa forte da un tappeto sonoro costante e un disegno luci ricchissimo, a tratti risulta ostica ma rappresenta una tappa razionale del percorso iconoclasta e destrutturante degli MK.

 

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Andrea Cigni: la mia favola con il Festival Orizzonti

Andrea CigniMATTEO BRIGHENTI | Dal primo al 10 agosto a Chiusi, in provincia di Siena, l’orizzonte sarà l’incontro. Dal teatro alla danza, passando per l’opera e la musica, fino alle mostre, alle presentazioni, ai laboratori e alle proiezioni. Otto campi dell’arte per riscrivere il Festival Orizzonti. “In piazza del Duomo c’è un pozzo ottagonale – racconta Andrea Cigni – la gente ci passa accanto e spesso non si rende neanche conto che c’è. In realtà è un piccolo monumento nel centro della città. Con Orizzonti vogliamo dimostrare che la cultura è la chiave di volta per la crescita di questi luoghi.”

La stilizzazione del pozzo, che rimanda agli otto ambiti artistici del programma, è il nuovo luogo della manifestazione, l’impronta dell’inedito passo dato da Andrea Cigni. È arrivata alla 12esima edizione, ma è come se fosse la prima, iniziata un anno fa con il bando della Fondazione Orizzonti d’Arte di Chiusi (organo voluto dal Comune, oggi sostenuto principalmente da soci privati di rilevanza territoriale) per trovare un direttore artistico con il preciso intento di inserire il Festival nel panorama italiano delle kermesse teatrali estive. Su una rosa di oltre 40 candidati, da tutta Italia, è risultato vincente il progetto di Cigni. “Facevo segreteria artistica e direzione di produzione a Cremona quando ho ricevuto per e-mail notizia del bando. Dopo dieci anni lì si stava chiudendo un ciclo e allora mi sono detto: provo. È stata una sfida con me stesso.”

40 anni, toscano, laureato al Dams di Bologna, tra i registi più apprezzati nel panorama lirico italiano ed europeo, Cigni è stato scelto principalmente per la “forte motivazione dimostrata”. “La motivazione mi viene dall’affetto per un territorio che conosco (la mia famiglia viene da qua) e poi dalla volontà di far nascere in una città come Chiusi, che ha delle tradizioni culturali molto forti, una manifestazione che si ritagli un suo spazio nel panorama contemporaneo delle arti performative.”

I dieci giorni del Festival Orizzonti 2014 saranno densi come un mese intero: 71 eventi coinvolgeranno in totale 103 artisti di campi differenti per invogliare il pubblico a transitare da un genere all’altro. “Tra mito e favola”, come recita il tema di quest’anno, con riferimento al mito dell’identità di questa terra, alla sua storia e alle sue tradizioni, punto di partenza per uno slancio creativo che tenga insieme arte e spettacolo. Si comincia con la danza di Col Tempo di Virgilio Sieni, in prima nazionale, si prosegue con il teatro e lo studio su Macbeth della Socìetas Raffaello Sanzio, i Sacchi di Sabbia di Piccoli suicidi in ottava rima – volume 1 e volume 2 e di Marmocchio una specie di Pinocchio di marmo, un’altra prima nazionale, poi la Compagnia Simona Bucci, Teatri di Vita, Fortebraccio Teatro; la produzione operistica (insolita per un festival estivo come questo) di Gianni Schiacci di Puccini e Pierrot Lunaire di Schönberg, affidata tramite concorso al regista Roberto Catalano, mentre l’esecuzione sarà dell’Orchestra da Camera del Maggio Musicale Fiorentino. “Sono molto sincero: nessuno conosceva il Festival. Gli artisti che vengono lo fanno per fare un piacere a Chiusi e a me, rientra in un percorso di amicizia e stima che ho costruito con loro in questi anni. Offriamo l’ospitalità (vitto e alloggio), un simbolico rimborso spese, le strutture tecniche e una città intera per sperimentare i loro linguaggi. Se poi un giorno, ad esempio, i cantanti mi chiedessero di fare una regia d’opera gratis, non mi tirerò certo indietro.” Altre novità sono la costituzione del Premio Orizzonti, un riconoscimento ai meriti artistici e intellettuali che verrà assegnato ad Ascanio Celestini, e la nascita di una Compagnia Festival Orizzonti, con l’obiettivo di darle gambe che la portino ad affacciarsi anche in altre manifestazioni.

Il Festival, dunque, si sposa con il borgo e la sua gente: l’immagine sui manifesti è La Sposa di Carta, ovvero il performer Davide Francesca, fiero e struggente, vestito da sposa per le strade di Chiusi, un teatro di produzione a cielo aperto. “Orizzonti è un luogo sano e pulito a livello di intenzioni e di persone che ci lavorano. Chiarezza, trasparenza sono sempre più rare in teatro. È bello vedere che qualcosa può ancora nascere.” C’è tutto il tempo di vederla anche crescere, dal momento che il suo contratto con la Fondazione Orizzonti d’Arte è triennale. “Chiamiamolo “impegno” più che “contratto”. Anch’io, come tutti, lavoro praticamente gratis, ma va bene così, siamo appena partiti, se poi dimostreremo quanto valiamo magari il prossimo anno ci sosterrà il Ministero o la Regione Toscana.” Quindi fare il direttore artistico qui, come dice il titolo del Festival, è più un mito o una favola? “Con queste condizioni è più una favola. Stiamo cercando di realizzare un sogno. Il mito spero di farlo in teatro, mai io no, non lo sono.”

Comunicazione, elezioni e l’irresistibile tentazione del salotto all’italiana

grillo da vespaALESSANDRO MASTANDREA | Venti di cambiamento soffiano forte sopra la vecchia Europa. Proprio in queste ore si va consumando lo psicodramma dell’intero establishment europeo, messo sotto assedio dai movimenti antieuropeisti di tutto il continente: la vittoria in Francia di Marin Le Pen, così come, nella Grecia commissariata dal fondo monetario, quella di Alexis Tsipras. Da questo trambusto generale, l’Italia non poteva certo uscire indenne, e la TV, nonostante le astruse regole della par-condicio pre-elettorale, ha svolto il proprio ruolo di cassa di risonanza sia degli umori dell’elettorato, che delle ansie e paure della classe dirigente. Così, come se si trattasse di una enorme seduta terapeutica di gruppo, politici nostrani (poco avvezzi a gestire la tensione agonistica per un appuntamento ritenuto tutto sommato secondario) ed europei hanno avuto modo di condividere le rispettive “ansie da prestazione” in attesa dei risultati dello scrutinio. In questo stato di disorientamento generalizzato, neanche uno psicologo coi fiocchi del calibro di Giovanni Mari (“In Treatment”, martedì in prima serata su LA7), riuscirebbe a ridare le giuste coordinate a un ambiente emotivamente provato e in lotta per il riposizionamento e la sopravvivenza.

Che d’altro canto vi fosse nell’aria qualcosa di nuovo, ne avevamo avuto giusta anticipazione un paio di lunedì fa, nella “terza camera” di Porta a Porta. Il faccia a faccia tra “l’integrato” Vespa e “l’apocalittico” comico Grillo, non poteva certo passare inosservata, anche per un medium abituato alle più repentine metamorfosi.
Più che di metamorfosi, tuttavia, per la presenza di Grillo in Rai bisognerebbe parlare di vera e propria inversione esistenziale sulla strada delle proprie convinzioni; seconda solo, forse, a quella di chef Carlo Cracco, che per anni ce l’ha menata con l’alta cucina e le materie prime di qualità, prima di abdicare tristemente prestando la propria immagine a un sacchetto di patatine fritte.
In fondo, ormai, dell’assenza dal video del comico genovese e dei suoi penta stellati ce ne eravamo fatti una ragione, e tutto sommato, trattandosi di questione di principio, se ne potevano anche condividere le ragioni profonde. Per un movimento di rottura come il M5S, nato dal basso e dalla rete, decidere di non invischiarsi nel groviglio di parole dei talk show politici (dove conta solo l’effetto spettacolare e l’escalation drammatica), era il loro modo di dichiarare la propria diversità, anche nel modo di comunicare al proprio elettorato.
“Sono qui per dimostrare che in fondo sono un bravo ragazzo e non solamente uno che è capace di urlare” dice Beppe a Bruno, proprio lui che, all’indomani delle elezioni, i giornalisti avrebbe voluto processarli.
Dapprincipio entrambi in piedi, passeggiando nervosamente per lo studio, come duellanti nervosi prima del singolar tenzone, poi finalmente seduti cercando di controbattere l’uno all’altro. La prima fase è di studio, ma è anche la più interessante, dove il padrone di casa tenta di prendere le misure dell’avversario, mentre il secondo prova a decodificare, per noi spettatori, l’impianto liturgico e ideologico della trasmissione: il pubblico a pagamento ma senza diritto di parola, le poltrone, lo studio con la dominante bianca e rassicurante.
Ma è quando Grillo decide di sedersi che cambia qualcosa nei rapporti di forza tra i due e il padrone di casa segna un punto a suo favore, magari impercettibile, ma determinante nell’economia della sfida. Le parole del comico scorrono veloci e irruenti come al solito, quasi si trattasse di un fiume in piena, destinato tuttavia a infrangersi sulla comoda seduta di una comoda poltrona. Oggetto scenografico all’apparenza innocuo, eppure pericolosamente pregno del carico ideologico a cui prima si accennava. Il campanello che suona, il maggiordomo che apre la porta, l’ospite che entra e si accomoda non è forse la rappresentazione plastica della TV “in quanto strumento del potere e potere essa stessa”?.
A giochi fatti, verrebbe da dire che l’iniziale politica del movimento di tenersi alla larga dal medium televisivo aveva la sua buona dose di ragione, Grillo sa bene quanto la TV vada maneggiata con cura. Quel che forse non immaginava è che, all’interno della sua rassicurante cornice, anche le Vespe fanno male quando pungono.

Beppe Grillo visto da Maurizio Crozza

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Se i classici hanno ancora ragione d’essere

SILVIA TORANI | opera_la_bella_addormentata_nel_bosco_coreografia_di_chalmer_11498Ci domandiamo che senso abbia oggi assistere a uno spettacolo come La bella addormentata nel bosco, al Teatro dell’Opera di Roma fino al primo giugno. È solo uno status symbol? Una conferma autoreferenziale della nostra identità culturale? Un recupero nostalgico di un passato che non c’è più? Perché in questa versione del 2002, da allora riproposta ciclicamente ogni due, tre anni, il coreografo Paul Chalmer non si allontana dall’imponente e magnifica ombra di Marius Petipa?

Non siamo ancora stanchi dei principi stranieri stereotipati, con la pelle di leopardo sulla schiena seminuda? Delle principesse adolescenti, ingenue e fiduciose? Vogliamo ancora vedere teli trasparenti che calano atmosfere oniriche sul palco?

Eppure altre strade si sono tentate. Conosciamo l’Aurora disagiata e ribelle di Mats Ek, punta dal fuso della droga per cadere preda di un sonno senza sogni; ricordiamo le tinte gotiche della Belle di Jean-Christophe Maillot. Ma il problema delle rivisitazioni contemporanee è che spesso non ci dicono molto di più, non aggiungono latenze che non fossero già presenti nell’originale. Senza allontanarci dal canone del balletto classico, perfino un lavoro poetico, scanzonato e ironico come Swan Lake, della giovanissima (e bravissima) coreografa sudafricana Dada Masilo, in scena al Teatro Argentina lo scorso novembre, rende esplicite tensioni omosessuali già insite nell’amore “diverso” che porta il principe a rifiutare le belle pretendenti cui i genitori lo vorrebbero fidanzato per inseguire la chimera di un cigno.

La moda delle attualizzazioni, interessanti se intelligenti, e pur sempre lecite, rischia di togliere tutto il piacere al pubblico, la soddisfazione di leggere tra le righe, di costruirsi la sua storia, di andare oltre quell’apparente banalità del visibile. Certo, resta il piacere della danza. Ma quello rimane anche nel più classico dei classici.

L’Aurora delle prove generali è dolce, a tratti leziosa. Incerta nel difficile Adagio della Rosa, recupera durante il grande passo a due del terzo atto, preceduto da una sfilata esemplare di tecnica e virtuosismi: alcuni personaggi mancano, ma le ottime variazioni della principessa Florine e dell’Uccello Blu, della fata Diamante e delle sue compagne riescono a compensare la debolezza di un secondo atto un po’ fiacco. Degno di nota il vivace pas de caractère dei due gatti.

Mentre l’uso uniforme delle luci non valorizza abbastanza i passaggi coreutici e narrativi, costumi e scenografia ben caratterizzano i ruoli mimici dei cortigiani e della strega Carabosse, antagonista fiera e convincente nella sua intensa gestualità, moltiplicata come in un incubo dall’espressivo corteo infernale dei corvi.

L’allestimento potrà forse essere lo stesso di dieci anni fa, la coreografia simile a quella del secolo scorso, ma di certo non stiamo assistendo allo stesso balletto di allora. Non esistono ricostruzioni filologiche neutre, perché il passato non si resuscita e nessuna rievocazione di esperienze potrà mai dirsi assoluta: possiamo imparare tanto della vita di un falsario dal modo in cui crede di riprodurre fedelmente lo stile di un capolavoro.

La différence, il senso, è nell’incontro tra le storie, tra le persone: ballerini, scenografi, costumisti, tecnici, spettatori. Perché le persone eccedono ogni schema.

Interplay e la danza israeliana di Assaf e Fridman

ph: Andrea Macchia
ph: Andrea Macchia

GIULIA MURONI | Nello sterminato ventaglio di possibilità del corpo c’è la reazione creativa alla guerra e alla sofferenza. Il corpo umano in condizioni di guerra si dà come soggetto reale, strumento attraverso cui è vissuta l’esperienza bellica e quindi oggetto, bersaglio da abbattere, umiliare, annichilire. Luogo vivo della difesa e dell’offesa, porta i segni della mutilazione o i fregi di vittorie temporanee. Nel corpo sopravvissuto le cicatrici vi disegnano un luogo della memoria.

Abbozzo dello sfaccettato panorama su cui si staglia la danza contemporanea israeliana, ne abbiamo avuto due notevoli esempi alla serata inaugurale di Interplay al Teatro Astra. La prima parte è stata dedicata a The Hill, la nuova creazione di Roy Assaf, il quale ha preso spunto dalla canzone popolare Givat Hatahmoshetche. Il brano, con una base vivace e incalzante, racconta della presa da parte dei paracadutisti israeliani di un avamposto giordano durante la Guerra dei Sei giorni. Benché si sia trattato di una vittoria, l’esercito israeliano ha perso molti uomini e il testo della canzone sottolinea l’amarezza di un traguardo che perde esponenzialmente di senso. Il lavoro di Assaf ha visto un trio maschile, improntato su quella stessa leggerezza ritmica della canzone, mosso da una qualità fisica peculiare, energica e estroversa, capace di dispiegare il movimento in proiezioni importanti. Questo menage à trois maschile fatto di rimandi all’hora israeliana(danza tradizionale), inclusioni, esclusioni e giochi infantili ha costituito un ritratto di una maschilità che non rinnega il gioco e l’emotività. Lo spettacolo si è chiuso un attimo dopo aver raggiunto l’achmè emotivo, risultato finale di un crescendo drammatico inaspettato. Questo gioco, in grado di mutare registro con disinvoltura e di scorrere dal cameratismo ai toni drammatici, è connotato da una fisicità sapiente in grado di dare voce a vicende legate al proprio processo storico, astraendole in una narrazione antinaturalistica di segni del reale.

ph: Andrea Macchia
ph: Andrea Macchia

Alle 21 è stata la volta di Sharon Fridman, israeliano adottato in Spagna, con Caìda Libre in anteprima nazionale. Lo spettacolo ha portato in scena 6 interpreti della compagnia e 15 partecipanti al laboratorio con il coreografo, i quali hanno costituito una importante cornice entro cui si è sviluppata la drammaturgia. L’istanza centrale su cui si è imperniata la ricerca è quella della sopravvivenza e delle sue implicazioni, a cui viene conferito un continuo movimento dall’alto al basso e viceversa, in un perenne cadere e rialzarsi che intesse l’esistenza umana e che, in questa sua ripetizione costante, va a definirsi in un andamento circolare, lo stesso dell’hora israeliana e di molte danze rituali.  La danza di Fridman è giunta alle conseguenze estreme della contact improvisation, e come nel duo Hasta Donde…?, la tensione e il peso dei corpi raggiungono vette virtuose, ai limiti delle loro potenzialità. Dal momento che qui il focus è sulla sopravvivenza, quella qualità di movimento si presta ad essere collante e disgregante del gruppo nello stesso momento, materiale esplosivo e mastice, in un quadro, fatto di percussioni e tagli di luce calda laterali, che non disdegna i toni epici e vi arriva con potenza e pathos.

Interplay dà il via alle sue serate con il botto, la sala in standing ovation e il quadro di una danza, frutto di un proficuo melting pot di danza moderna americana, tradizionale araba e contemporanea europea, in stretto dialogo con un vissuto profondamente segnato dalle sofferenze inferte e subite.

Interazione scenica, sguardo sornione sull’America

interVINCENZO SARDELLI | Occhi fissati sul pubblico, cristallizzati in un sorriso sornione. Sguardi dietro occhiali dalla montatura rossa, filtro, rimando ai mondi artificiali del web. Così Enoch Marrella di Interazione scenica accoglie il pubblico di Zona K a Milano, in occasione di Play With Food, La scena del cibo, teatro + perfomance + arti visive, selezione dal Festival Play With Food 2014 di Torino. Nel terzo week-end di maggio, Zona K ospita tre giorni di performance, installazioni, teatro, opere video e opere d’arte sui temi dell’imminente Expo 2015. Nel monologo Thanksgivingday-Episodio 1, drammaturgia e regia di Andrea Ciommiento, Marrella è Fausto, un diciassettenne che, nell’ambito di un programma di scambio culturale, lascia l’Italia per trascorrere un anno in America. Fausto contempla questo mondo nel Giorno del Ringraziamento, con curiosità e quel minimo di criterio. Lo percorre con gli occhi aperti in un ghigno di fascinazione. Fausto interagisce con i vizi e gli eccessi che abitano gli USA: college party, strampalati motori di ricerca, armi a portata di mano, culto dello sport. Soprattutto, eccessi alimentari: patatine e palle di pollo, pepsi e aragoste, salsicce e pomodori verdi fritti, banane e burritos: e pensare che il background erano fettuccine e scaloppine, trangugiate a ritmo di tarantella. L’incontinenza alimentare è viatico ai richiami dell’eros. Entrambe sono metafore delle seduzioni e delle fantasie di un intero continente. Il che ricorda i temi dominanti in Angelo della Gravità di Massimo Sgorbani. Solo che in Sgorbani il cibo, compensazione di tormenti esistenziali, degenera in obesità, incoscienza, follia e colpa. Qui prevale uno sguardo sorridente e leggero di fondo, aperto sulle contraddizioni, ma anche conquistato dal dinamismo del mondo americano. Fausto attraversa il labirinto e ne esce vivo. Non si perde. Non si snatura. Fa affidamento su quei valori della cultura italiana che vanno dalla pasta al pomodoro cucinata a regola d’arte (non quel pastrocchio colloso condito con ketchup degli USA) a un Dante versione Bignami fai-da-te, passando per Ramazzotti, Jovanotti e Battiato. Le bizzarre esplosioni emotive non compromettono l’equilibrio delle relazioni di Fausto, neppure il suo autocontrollo. La regia di Andrea Ciommiento segue il percorso di Fausto con una supervisione lieve ma non evanescente, intrigante e discreta. La scena è vuota, le luci ferme, in qualche modo surreali. Gli oggetti scenici sono inesistenti, salvo che non si consideri la virtuale palla fantasma che il protagonista continua a lanciare agli spettatori: un esercizio basilare di training teatrale, che provoca un brio collettivo. Che non è risata, piuttosto ironia dilatata. Di questa bislacca storia che è l’America, portiamo a casa l’ottimismo del Yes we can, la curiosità del why not.

Un registro drammaturgico un po’ monocorde, una regia spoglia, secondo la formula dello stand-up drama anglosassone. Ma ci può stare. Anche per la durata minimalista dello spettacolo, che non supera i tre quarti d’ora.

La suite californiana dello scandalo

Appartamento_1221_del_st._francis_hotel_di_s._francisco,_5_settembre_1921SILVIA TORANI | Nel gergo musicale con il termine “suite” si intende una composizione per strumento solista, orchestra o complesso da camera divisa in quattro movimenti di danze dal ritmo diverso. Nel corso degli anni ’60 e ’70 il termine tornò di moda nell’ambito della popular music, tanto che nel 1976 Neil Simon poté sfruttarne l’ambiguità semantica e intitolare la sua commedia in quattro atti California Suite. Una suite ispirata alla California e ai suoi miti, a Hollywood, ai pionieri e alla corsa all’oro, per un viaggio attraverso la deforme mediocrità dei desideri umani.

Quella portata in scena al teatro Manzoni di Roma, dopo una lunga tournée in giro per l’Italia, è una versione leggera, senza pretese, con riduzioni e aggiunte al testo originale: su uno degli episodi più famosi, quello della prostituta ubriaca nel letto del marito infedele, si innesta un secondo atto inedito, che segue i personaggi dieci anni nel futuro, per trovarli ancora (in)felicemente devoti alle loro schiavitù. Persa la struttura quaternaria della suite musicale, sopravvive però l’eredità fisica e iterativa della danza.

Gianfranco D’Angelo e Paola Quattrini, star incontrastate di questa commedia a due voci, percorrono la scena in una parodia di balletto, una coreografia che rincorre la comicità circense e impacciata di Stanlio e Ollio. Marvin, bugiardo cronico con pretese di furbizia e autorità, e Millie, moglie svampita e ingenua, si spartiscono gli archetipi che furono il marchio di fabbrica del duo hollywoodiano. Declinazioni contemporanee di clown bianco e augusto, allestiscono un diabolico gioco di rispecchiamenti che entrambi perdono credendo di aver vinto.

Del resto non c’è dubbio che la comicità di Simon guardi a sicuri modelli cinematografici, come Chaplin, Keaton e tutte quelle star del muto che popolano il suo immaginario di bambino. Come ignorare poi il ricordo di un’altra suite californiana, quella dello scandalo che negli anni Venti coinvolse il divo dello slapstick “Fatty”Arbuckle e aizzò la nazione contro i ruggenti eccessi di Hollywood?

Le fotografie dell’appartamento 1221 del St. Francis Hotel devastato dall’orgia, masticate e digerite dalla macchina del cinema per giungere fino a noi nella suite semidistrutta del Caesars Palace di Una notte da leoni, dovettero calare un velo inquietante sulle facce bonarie e sorridenti che dallo schermo avevano a lungo confortato e divertito il pubblico americano. L’assoluta, perfetta coincidenza tra arte e vita su cui così tanto il cinema aveva investito iniziava a scricchiolare.

Lo spettacolo di Massimiliano Farau riesce a rendere conto, involontariamente, di questo che è in fondo il trauma del moderno: una suite troppo spoglia, troppo candida per ospitare il quotidiano dramma dell’umano. Sullo sfondo una gigantografia posterizzata del Sunset Boulevard, strada icona della società dello spettacolo da Gloria Swanson a Lynch, sede dello scandalo, luogo del rimosso, spazio del cortocircuito. Ecco così trasparire, oltre il cabaret e le improvvisazioni comiche tra sala e scena, l’orribile volto del Reale con cui ridendo cerchiamo di venire a patti. Ancora.

Di cosa parliamo quando non parliamo d’amore

confluenzeGIULIA MURONI | E’ dove le acque di Torinodanza incontrano quelle di Unione Musicale che nasce “Confluenze”, serate-evento che vedono la compresenza effettiva di entrambe le arti, in un’ottica di spettacolo/accadimento senza confini di genere. Pregevole l’obiettivo, andiamo ora ad approfondirne alcuni esiti.

Abbiamo visto “Ne parlez pas d’amour” al Teatro Vittoria di Torino. Sulle musiche del compositore Carlo Boccadoro, eseguite dal vivo dal Trio Debussy (violino, violoncello e pianoforte) i movimenti della danzatrice Daisy Ransom Phillips e dei due performer Vijaya Bechis Boll, Hervé Guerrisi, sotto la guida di Gaia Saitta. La musica, composta ad hoc da Carlo Boccadoro, notevole, è stata vivificata dall’ottima esecuzione dal vivo del Trio Debussy. Un’opera d’arte a sé stante, da sola valeva la serata.

L’azione coreografica risulta essenziale, si direbbe in posizione ancillare rispetto alla musica.

I due performer eseguono azioni semplici, prima da soli, poi in coppia, poi di nuovo da soli. Arrivati sulla scena vestiti, si spogliano e si rivestono. In questo dialogo silenzioso, di cui a tratti invero resta oscura la grammatica allo spettatore, la presenza della danzatrice Daisy Ransom Philipps e della sua qualità fisica duttile e densa dona movimento alla scena, in un ruolo di controcanto rispetto alla narrazione principale. Un’eco del ruolo di Pina Bausch in Cafè Muller. Una figura sognante, marginale e allo stesso tempo in primo piano rispetto a ciò che accade sulla scena. Ma se il lascito del Tanztheater è esplicito per quanto riguarda l’estetica e l’uso del linguaggio del gesto, non arriva altrettanto forte il segno dello slancio creativo che fu della grande coreografa, quella sua eccezionale verità nella lettura del reale, la radicale messa in gioco esistenziale e la cultura espressiva ricchissima e poliedrica.

L’esperienza forse più profondamente attorale di Saitta mostra qui ancora dei limiti nell’approccio alla profondità più coreutico performativa del linguaggio del corpo, vissuto nella sua totale padronanza e preservando la necessaria autonomia dei linguaggi, specie a riguardo di una drammaturgia in grado di dare sostegno ai segni dei corpi che, quando non completamente allocati di referenti di senso, corrono il rischio di scivolare nell’esteriorità formale. Si avverte quindi la sensazione della necessità che risulti più rafforzata l’idea coreografica che soggiace a questa creazione, di schiudere maggiori varchi di senso, correndosi all’opposto il rischio di stringersi nello spazio di una cornice estetizzante, di una danza di accompagnamento mentre ai musicisti, fissi al centro del palco, è riservato il fuoco dell’attenzione, in una ripartizione fra le parti non abbastanza equilibrata. E questo, anche a livello simbolico funziona poco. Si avverte l’urgenza di un dialogo efficace tra le due parti, di una partitura musicale che non inghiottisca i vocaboli dei corpi e di una danza che si faccia carico di una scrittura scenica realmente corale. E va anche bene se già dal titolo ci intimate “Ne parlez pas d’amour”, ma allora…Parlons d’autre chose, au moins, s’il vous plaît!

Ci vuole Rodari per leggere il mondo con gli occhi degli altri

suiterodarifoto1LAURA NOVELLI | Proviamo a capovolgere la realtà e ad immaginare un filobus birichino che non rispetta orari e tragitti, un semaforo che diventa improvvisamente azzurro, delle macchine industriali che si rifiutano di costruire armi, una Cenerentola romana eletta Miss Universo, un re stagliato sul pentagramma senza corona, un funerale con epilogo tragico, un’eclissi di sole scambiata per un cerchio nero e un imperatore così sciocco da sentirsi adulato per un vestito che non indossa e da scambiare la sua nudità per sontuosità. Ne ricaveremmo un mondo rovesciato prodigo di poesia; un universo sghembo, delicato, naïf, che ce la dice lunga sulla stupidità degli uomini – tanto più degli adulti e dei potenti – ricordandoci quella massima senza tempo de Il piccolo principe secondo la quale “l’essenziale è invisibile agli occhi”. E non poche affinità con l’incantevole inquilino dell’asteroide B612 possiede la fantasia di Gianni Rodari, scrittore per l’infanzia che andrebbe letto e riletto in diverse stagioni della vita e che, in quanto a mostrare ciò che risulta invisibile agli occhi, è stato un impareggiabile genio.

Il filobus numero 75, Il semaforo blu, La rivolta delle macchine, Miss Universo dagli occhi color verde-Venere, Il sole nero, Il funerale della volpe, Un re senza corona e Il vestito nuovo dell’imperatore appartengono alla sua produzione di racconti e costituiscono le diverse tessere che Roberto Gandini (regista) e Attilio Marangon (drammaturgo) hanno messo insieme nell’arioso Suite Rodari. Allegretto, surreale con moto, ennesima bella produzione del “Laboratorio Teatrale Integrato Piero Gabrielli” (un’esperienza formativa unica nel suo genere, di cui ho scritto nei precedenti contributi www.paneacqua.info/2012/07/allenareleemozioni-tra-scuola-e-teatro e www.paneacquaculture.net/2013/05/14/diciannoveragazzieilmiracolo) ed ennesima riprova che il palcoscenico può fare miracoli quando si tratta di educare i giovanissimi ad accettare le proprie fragilità, a comprendere quelle dei coetanei, a condividere un’esperienza creativa che è e vuole essere innanzitutto un’occasione di crescita umana.

I diciotto ragazzi coinvolti nel progetto (alcuni dei quali con disabilità) si muovono perfettamente a loro agio tra le montagne russe surreali (ma sarebbe meglio dire surrealista) di Rodari: passano da un quadro all’altro con naturalezza spiazzante, aiutati dallo splendido accompagnamento musicale di Roberto Gori che, scherzoso e frizzante, funge da personaggio vivo sempre presente, interlocutorio, espressivo, imprescindibile dalla drammaturgia delle parole. Quello che ne deriva è dunque un gustoso suiterodarifoto2cabaret dai toni funambolici e stralunati, un montaggio della attrazioni fluido, organico e divertente dove, complici le agili scenografie di Paolo Ferrari e gli accurati costumi di Loredana Spadoni, gli interpreti (anche ottimi cantanti) azzerano le differenze, fanno piazza pulita delle gerarchie, ridicolizzano cliché e luoghi comuni, confondono i confini tra perfezione e imperfezione, entrando a gamba tesa nella filosofia di Rodari, nel suo pensiero altro. “La parola singola (gettata lì a caso con la sua forza evocativa di immagini, ricordi, fantasie, personaggi, avvenimenti del passato…) – scrive nella Grammatica della fantasia – agisce solo quando ne incontra una seconda che la provoca , la costringe ad uscire dai binari dell’abitudine, a scoprire nuove capacità di significato…Una storia può nascere solo da un binomio fantastico”.

Qui di binomi fantastici ce ne sono a iosa e costituiscono l’essenza del lungo e appassionato lavoro fatto prima di andare in scena. In quel tempo del gioco, delle acrobazie dell’immaginazione, delle sfide fisiche e psicologiche, delle relazioni profonde senza il quale anche uno spettacolo curato e prezioso come Suite Rodari, debuttato all’Argentina nei giorni scorsi e ottavo allestimento del Laboratorio dedicato all’immaginario dell’autore di Omegna (basti ricordare titoli come Circo Rodari, La sirena di Rodari, La storia di tutte le storie) perderebbe di significato.

E il significato autentico di questo festoso viaggio nel fantastico nessuno ce può raccontare meglio di Gandini stesso: “Siamo nel 1995, durante il primo Laboratorio Teatrale Integrato “Piero Gabrielli”: un ragazzo con la sindrome di Down, sta facendo l’improvvisazione delle scarpe, un esercizio che consiste nel fingere di indossare un paio di scarpe e di muoversi di conseguenza […]. Ebbene, Diego, questo il nome di quel ragazzo, dopo aver indossato delle misteriose calzature, si mette a ballare soavemente coinvolgendo tutti i presenti, ragazzi e adulti. Io gli dico: “Belli questi movimenti, Diego, ma… di chi erano le scarpe? Chi stavi facendo?” E lui: “Ero una farfalla, ballavo!” […] I ragazzi con disabilità come Diego si trovano perfettamente a proprio agio nel mondo surrealista, e anzi, molti comunicano quasi esclusivamente in maniera surreale. A volte è un surrealismo involontario, cioè legato a quella disinibizione per cui ragazzi con disabilità esprimono pensieri e sentimenti così come vengono, senza star troppo a pensare, senza valutare tutte le conseguenze. Altre volte invece è un modo cosciente, provocatorio, una maniera di essere che vuole stimolare l’interlocutore a un confronto disinibito e che permette di non prendersi troppo sul serio” (www.pierogabriellinellescuole.it).

D’Aquino vs Raimondi: le Regine antagoniste di Alberto Oliva

regineVINCENZO SARDELLI | La ragion di stato, nelle logiche di potere, prevale sulle ragioni del cuore e del sangue. Fino a schiacciarle e a eliderle.

“Dura lex, sed lex”, in queste Regine, Elisabetta vs Maria Stuarda, che abbiamo visto al Teatro Oscar di Milano. Con due primedonne del palcoscenico, Annig Raimondi e Maria Eugenia D’Aquino, dirette da Alberto Oliva. Al regista piace osare, misurandosi con situazioni e attori diversi, e azzardi drammaturgici che s’incuneano nella sperimentazione, partendo però da una base di scuola. Acrobazie timide, con la rete aperta, a proteggere da eventuali svarioni.

La vicenda, tratta da Friedrich Schiller e rivisitata da Paolo Bignamini, è quella di Elisabetta I e Maria Stuarda, le due regine che nella seconda metà del XVI secolo si contesero il potere in Inghilterra. Elisabetta I Tudor, protestante, “Regina Vergine” figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, dovette fronteggiare varie tensioni religiose e tentativi di congiura. Maria Stuarda, sovrana di Scozia, regina consorte di Francia dal 1559 al 1560, e regina d’Inghilterra per i legittimisti inglesi (che non riconoscevano Elisabetta) tornò in Scozia alla morte del primo marito, il francese Francesco II. Qui la attendeva lo scontro con la nuova religione calvinista. Rifugiata in Inghilterra, pensava di poter essere aiutata proprio da sua cugina Elisabetta. Che invece la imprigionò per quasi vent’anni. Maria divenne il fulcro del cattolicesimo inglese. Molti complotti furono organizzati in suo nome per assassinare Elisabetta. Invece fu Maria a rimetterci la testa. La sua esecuzione fu una mannaia sul prestigio della monarchiai: per la prima volta nella storia una “regina consacrata da Dio” fu giudicata e condannata a morte.

Questa pièce, della durata di un’ora, si apre con una fuliggine che materializza le protagoniste da un tempo indistinto. Le musiche elettroniche di Maurizio Pisati, unite alle luci livide di Fulvio Michelazzi, creano un’atmosfera straniante. Come quella gabbia (di Giuseppe Marco di Paolo) che sembra racchiudere la scena. Una ragnatela, la torre-galera che imprigionò Maria. Che con il suo slancio piramidale mozzato e i suoi pioli estemporanei esprime la scalata al potere, con quel tanto di logorio e precarietà che comporta.

I costumi baroccheggianti di Ilaria Parente danno risalto alla mimica di queste regine, inizialmente fantasmi surreali, bambole silenti da teatro di figura. Poi affiorano le parole, centellinate, tremanti; quindi maestose, di solennità shakespeariana. Nasce un dialogo ambivalente tra le due donne, antagoniste e complici: odio e amore, trame e desideri repressi.

Sogni, ricordi, rimpianti, proiezioni: il registro espressivo oscilla tra pantomima e grottesco, farsa e tragedia. Esilarante Raimondi quando abbandona i panni di Maria e dà vita al fantasma decapitato di Anna Bolena. Flashback e flashforward, ripetute escursioni nella contemporaneità, dosano sorrisi accompagnati da una smorfia. Come quando Maria rievoca la Francia, l’amore con Francesco II, le corse lungo la Costa Azzurra in auto sportiva decappottabile: il ricordo proietta nel futuro. O quando l’inquieta D’Aquino-Elisabetta percorre la platea in lungo e largo, telefona al cellulare, si accomoda in sala chiedendo al pubblico che spettacolo (si) stia recitando.

La lotta per il potere è sempre la stessa: una commedia. Vince non necessariamente chi rimane sul trono. Ecco perché, a esibirsi sul cubo al centro della scena, è Maria, amante, sposa, madre. Semenza di quel Giacomo che succederà proprio a Elisabetta, regina confinata a rappresentazione astratta e patetica del potere: mai pienamente donna, interprete di una vita vissuta a metà.

Uno spettacolo senza sussulti geniali, ma calibrato. Che ha il suo nerbo nell’interpretazione maiuscola e nel carisma scenico delle attrici. Qualche debolezza sta nel testo, nelle escursioni anacronistiche umoristiche che rimangono sopite, e fissano negli spettatori un sorriso incerto. Ma forse è giusto così. Di fondo, nelle trame dei potenti, l’amarezza prevale sulla satira.