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sabato, Luglio 27, 2024
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Bancarella, ma non il premio. Ivan Arnaldi e il Bisonte Bianco

gocce di scritturaCARIBALDI | Piccola precisazione riguardo al titolo, per evitare fraintendimenti. Non ho niente contro il Premio Bancarella, o almeno per ora, la mia attenzione non è mai stata catturata da tale evento, che poi, come tutti gli eventi di questo genere, si sta trasformando, (o è già avvenuto?), in presenzialismo di volti e nomi fritti e rifritti con alle spalle macchine da guerra di case editrici sempre più prolifiche dal punto di vista quantitativo anziché qualitativo, ma tant’è. Tanto poi è il tempo a definire la qualità. Per consolarmi penso spesso, tra lontane memorie universitarie all’esaustiva Storia della letteratura italiana di Giulio Ferroni, a due nomi, Prati e Aleardi, considerati nell’Ottocento poeti di chiara fama, ma dei quali oggi in pochi ricordano persino il nome. Ed a proposito di questa lunga introduzione non posso esimermi dal segnalare un breve saggio del sopra citato Ferroni, ovvero Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero, che può fornire utili indicazioni ai lettori di romanzi e perché no, anche ai giurati del sopracitato premio.
Uso il termine “bancarella” nel senso di luogo in cui si possono trovare, spesso a bassissimo costo, perle rare, libri di cui negli anni si è persa notizia, autori che hanno preferito dedicarsi alla loro opera senza rincorrere festival e salotti televisivi e non. Così, nelle mie peregrinazioni, mi sono imbattuto in una libreria che all’esterno offre, mescolati tra generi e case editrici eterogenei, in una cassa di legno, che fa un po’ cassa da morto, mucchi di libri ad un euro. Ed io, pseudo Martin Eden di provincia, come sempre mi sono fatto abbacinare dal fascino dello struzzo e ho comprato quei pochi Nuovi coralli Einaudi (l’aggettivo Nuovi è quanto mai lontano dalla realtà). Tra questi, ho scovato un testo di Ivan Arnaldi, Il Bisonte Bianco (1989), che si è rivelato una sorpresa, soprattutto per la capacità dell’autore di mescolare vari generi, dal romanzo al saggio, in un incrocio tra Melville, l’Angelo Maria Ripellino di Praga magica e il Michele Mari di Tutto il ferro della Torre Eiffel. Tutti libri da leggere, questi tre, “che ve lo dico a fare?”.
Ma Il Bisonte Bianco è anche, o forse soprattutto, un atto di denuncia contro il massacro e il genocidio degli Indiani d’America, contro il sistematico espandersi del capitalismo protestante –tematica quanto mai attuale- che nel tempo ha affinato tecniche di affermazione spietate. Così, lo spunto narrativo di fondo, forse un po’ debole rispetto al resto, è solo occasione per una riflessione colta, ricca di rimandi –Melville e la sua Balena Bianca su tutti, il Leviatano, etc- sulla figura del bison, bisontis (per dirlo alla latina), così vicina all’ancestrale toro che già in epoca micenea rappresentava il mito, il simbolo della natura, con il quale l’uomo era costretto a confrontarsi e che poi si è perpetrata nel moderno rito della corrida.
Seguiamo il protagonista, Isacco Babel (ricordate Isaak Babel’?), che parte alla ricerca del bisonte bianco, accompagnato dal pistolero Shane, figura di cavaliere che molto ha in comune con le figure medievali del ciclo bretone di Chrétien de Troyes e si imbatte in vari personaggi, che hanno popolato e popolano universi contemporanei di fumetti e celebri lungometraggi.
Colpisce, nell’opera di Arnaldi, la finezza con cui analizza l’epopea della Frontiera, il mito dell’West, tra figure spietate di assassini di indiani e di cacciatori di bufali, protagonisti di una campagna sistematica di sterminio che ha permesso di estromettere e ridurre in minoranza i pellerossa. Così l’infanzia di noi adulti (absit iniuria verbis) assume un sapore amaro, capta un odore dolciastro di sangue e fa persino rabbia, vi dirò, riascoltare Buffalo Bill di De Gregori. Incontriamo Calamity Jane, David Crockett, Custer, Geronimo, figure che poi sono passate alla storia, grazie a un processo di mistificazione che ha teso a giustificare azioni inqualificabili, atroci, ma che hanno costruito e imposto miti e valori, che nel tempo hanno avuto la meglio sulla verità storica. La simbiosi tra gli Indiani e il bufalo è stata tranciata di netto ed è stata una delle cause principali che ha permesso la nascita e la colonizzazione di un territorio che, fino all’arrivo dei coloni, era regolato da ben altri equilibri.
Ma non intendo fare del semplice trito e ritrito antiamericanismo. Niente politica, s’il vous plaît. Che poi ci infarciamo di retorica e perdiamo il gusto di non prenderci sul serio, cosa fondamentale e cosa che ne Il Bisonte Bianco, è uno dei tratti distintivi dello stile e della narrazione. Voglio solo porre l’attenzione su un autore, Ivan Arnaldi, che meriterebbe maggiore attenzione. Così, soffermiamoci di più sulle bancarelle, che magari, in un mattino d’estate, per caso, vi mettono in mano pagine ingiallite ma che, se guardate bene, sono velate di polvere d’oro. In Italia, di questi tempi, ci sono anche quelle.

Disegno di Renzo Francabandera

Mondocane#14 – Tutti dicono “Non sono Stato io”.

paranoie di cimabueMARAT | Ma veramente c’è qualcuno che ci crede? E non dico agli angeli, alla reincarnazione, agli alieni, alla musica indie, al tabaccaio sotto casa aperto a quest’ora o che Armstrong non si dopasse. Libertà autonoma di abbindolamento. Ma che la spesa per gli F35 venga dirottata alla cultura è roba da professionisti dell'(auto)illusione. Come quando un giorno di maggio del 1973, mio padre all’estero, apre un quotidiano straniero e legge: Verona – Milan 5:3. Si consideri che era l’ultima giornata di un campionato dominato dalla squadra di Nereo Rocco e se proprio buttava male si poteva ancora rimediare con un pareggio, c’era già il Veuve Clicquot in fresco. A questo punto si può capire come mio padre, all’epoca bello, giovane, innamorato e un po’ dandy, abbia chiuso il giornale pensando a un refuso. Due cifre invertite. Beata illusione. Era la Fatal Verona… Comunque non sia mai, magari questa volta non è così. Ma per quanto mi riguarda, sono pronto a mangiarmi il cappello, come Rockerduck. E devo ammettere che un po’ rimango pure spiazzato che in tanti ci possano credere con tale leggerezza. E magari prenderne spunto in un pezzo, per riflessioni teatrali, precoci giudizi politici, assoluzioni di categoria. Per sottolineare anche come i teatranti quasi mai siano stati responsabili della crisi attuale, quasi mai colpevoli di cattive gestioni. Mah. Sarà. E sorvolo sull’appello retorico che qualcuno finalmente dica come noi si campi male. Che mi fa pensare che non solo non ci sia dialogo fra vecchi e giovani (e per me vecchio e anziano a teatro sono sinonimi, tranne rari casi a cui mando un abbraccio forte, fortissimo). Ma nemmeno fra colleghi coetanei. Tornando all’innocenza, credo sia sintomo di un difetto atavico del teatro e dei suoi protagonisti. Evidentemente anche dei suoi protagonisti più lucidi. Ovvero che il teatro sia buono e la politica sia cattiva. Che il teatro sia una cosa e il resto del mondo un’altra. Ben distinti. Tutti santi, tutti vittime. Ma i teatranti hanno eccome responsabilità nell’attuale crisi. Di settore e non. E penso a gestioni e furberie, alla non tutela dei lavoratori, all’ipocrita difesa dello status quo che diviene sistema. A (soprattutto) l’incapacità di proporsi come categoria. E piaccia o meno, anche i teatranti fan parte di una comunità. Votano, eleggono rappresentanti, hanno un governo da sostenere o a cui opporsi. Il considerarsi innocenti ed estranei al resto della società, sbandierare una illibatezza acritica, tradisce un senso di diversità (una snoberia) che molto ha da spartire con il complesso d’inferiorità. Ed è questa la distanza. Fra il lottare insieme per un proprio diritto e l’inseguire una regalia. Una chimera.

Vecchi e giovani. Ode e bestemmia a mio padre

san-gimignano-1300-1RENZO FRANCABANDERA | Che c’è bisogno che ce lo diciamo, che qui non ci parliamo. Che i figli non conoscono i padri e i padri neanche i nomi dei figli. Anzi, ancora ancora i figli conoscono i nomi e le gesta paterne. Ma molti di questi padri misconoscono i figli. Si celebrano in epoche che furono. Dove c’era il pre, il post, lo strutturalismo e il destrutturalismo, l’avanguardia, la post e la trans. Noi invece siamo transgender dalla nascita, crossmediali. Per loro c’era il partito. Per noi il partito è partito e rimaniamo ad aspettare in stazione un treno di cui non conosciamo orario e destinazione.
Ero a San Gimignano, dove per la seconda edizione del Festival Orizzonti Verticali, si è avuta la felice e disperante idea di avvicinare generazioni di interpreti, critici e appassionati di teatro. I vecchi non conoscevano neanche i nomi dei figli/nipoti. Che generazione terribile, quella di chi non riconosce il suo futuro, del nonno che scansa la guancia del nipote per guardare il telecomando e cambiare canale.
Si, vi ho odiati: voi che parlavate del mondo che con voi finisce. Di tutto quello che dopo di voi non sarà più. Di tutto quello che già ora non è più come prima. Di voi che per leggere correttamente il mio cognome di merda, lungo e insolito, dovete inforcare lenti bifocali, perchè ovviamente non sapete neanche come mi chiamo, dopo mezz’ora che siamo uno di fronte all’altro.
Eravamo in pochi, eppure le torri di pietra di San Gimignano erano metafora perfetta dell’isolamento in cui ognuno era chiuso, erto e irto nell’autorappresentazione del proprio potere, del proprio organo sessuale, di quell’erezione logorroica infantile, onanistica.
Non sarò mai abbastanza grato a chi mi ha invitato per avermi fatto comprendere alcune profonde verità sul fare arte e sul dialogo fra generazioni nell’arte e nel teatro oggi.
Perchè ha avuto il coraggio di mettere nella stessa gabbia la mangusta e il serpente. E mi è venuto di colpo in mente la lettera di Antonio a Delio, in cui lui dalla prigione gli chiede se ha letto la storia della mangusta Rikki-Tikki- Tawi. DI quando la lessi da bambino ne L’albero del riccio. A lui che pur distante si interessava di coltivare il futuro dei figli. Di segnarne il cammino. Anche solo per corrispondenza. Invece i nostri padri, i grandi vecchi del teatro stanno andando via uno dopo l’altro senza parlarci, senza voltarsi indietro, quasi come il padre di Zeno, e sul letto di morte, cadendo ci mollano persino uno schiaffo. Loro, che in alcuni teatri hanno avuto la poltrona fissa, sempre quella, per anni.
Noi, che a mala pena gli accrediti.
Loro che scrivevano in terza pagina con Montale e Malaparte. Loro che scrivono su giornali che ora non si stampano neanche più. Noi che non ci abbiamo mai scritto.
Loro, sempre ben elencati nelle rassegne stampa anche per trafiletti al pepe verde, in salsa addolcita da un invito a cena della compagnia, e poi la prefazione del libro, l’intervista al regista. Noi, che invece non fatichiamo a esser letti, ma a strappare qualche co.co.pro con qualche giornalino di provincia su cui raccontare un festival.
Loro che pure il padreterno gli rimborserà il viaggio all’oltretomba, manderà qualcuno in stazione a prenderne l’animaccia e si curerà di rimboccargli le coperte prima di andare a dormire e di mandarli al diavolo. Noi, che se un festival ci elemosina un rimborso spese e una branda quasi scodinzoliamo.
Ecco come siamo ridotti.
Chiamateci per nome. E provate a ricordarvene anche domani. Se vi riesce.

Il Nemico Pubblico. Arte e coscienza dietro le sbarre

copertina ennemi publicMARIA CRISTINA SERRA | Se l’arte contemporanea è anche una lente di ingrandimento che mette a fuoco le distorsioni del presente, quando entra oltre le sbarre del carcere, con le sue illuminazioni diventa testimonianza di smarrimento esistenziale. Uno sguardo dissacrante che scala gli alti muri di cinta fuori dai quali il mondo esterno si immagina al sicuro, separato da quello destabilizzante dei reati e delle pene. Un’immaginazione libera per raccontare gli abissi, dove le parole perdono senso e non pronunciarle può sancire la salvezza, per dilatare il non-spazio e misurare il non-tempo. Un tentativo di fissare con tensione emotiva quel microcosmo di vite perdute, intrecciate di solitudini e promiscuità per coglierne le speranze disattese e i desideri soffocati, sparpagliati e immiseriti lungo i labirinti dei corridoi sbarrati da cancelli insuperabili.

Più della cronaca, su ciò che avviene “dentro”, con il carico di violenza, sovraffollamento, suicidi e disperazione, sono le parole di Dostoevskij a farci riflettere: “Il grado di civiltà della società si misura dalle proprie prigioni”. Mentre in Italia scorre il film infinito sulle nuove misure detentive (dopo la condanna di Strasburgo), in Francia gli artisti si affidano alla concretezza delle loro visioni. “Era da molto tempo che pensavo di realizzare una mostra sulle prigioni”, ci dice Barbara Polla, scrittrice e gallerista d’arte a Ginevra e Parigi, “da sempre questa tematica è stata al centro della mia emozione politica, la mia prima ribellione contro l’assurdità  di ciò che gli uomini fanno agli altri  uomini. Sogno l’arrivo di un nuovo Basaglia che possa aprire quelle porte, così come lui ha fatto per i manicomi in Italia”. Così è nato il progetto sull’ “Ennemi Public”, con una  prima mostra alla galleria parigina di Magda Danysz, spazio affacciato sulla strada, ma “con delle sbarre a tutte le finestre, sulle quali sono state posti vasi pieni di fiori bianchi come omaggio a Jean Genet”. E poi, conferenze, performance, video, la pubblicazione del libro “L’Ennemi Public” (La Muette ed.) scritto insieme a Paul Ardenne con il contributo di artisti di fama mondiale, legati tra di loro dall’idea  “dell’arte come sollecitazione e azione politica” e dal comune desiderio di coniugare estetica ed etica. ”Sono artisti in costante lotta, non con un Public Enemy, ma con i loro nemici interni”, spiega Barbara Polla, che vivono pienamente  sia le assonanze  fra immaginazione e realtà sia le dissonanze del brutto per filtrare il bello. Come in un gioco di rimandi incrociati le opere escono delle gallerie ed entrano nelle pagine scritte; le soggettività tracciano parabole ardite per fondersi in oggettività dense di connessioni fra letteratura e filosofia.

l'ultimo pasto condannato a morteJoanna Malinowska modula la sua arte di “antropologa culturale”, in perenne dualità fra materia e spirito nella ricerca di un equilibrio fra diverse culture, per chiedere la grazia di Leonard Peltier (nativo americano, militante dell’AIM, sepolto in un carcere federale da 36 anni, condannato a due ergastoli senza prove certe), con una lettera a Obama e un cadeau di tabacco profumato per siglare la pace con i “First Nations”.

Le tonalità fiamminghe delle composizioni stampate su pelle di capra di Mat Collishaw (al museo Pascali di Polignano a Mare una sua personale) “Last Meals on Death Row”, riscrivono le nature morte seicentesche ispirandosi all’ultima cena dei condannati a morte nelle carceri USA con tocchi di “sublime orrore”. L’intreccio fra mondo letterario e artistico e quello dell’esperienza è declinato con rigore dal filosofo e storico dell’arte Paul Ardenne. “La prigione esiste, è un dato materiale, uno spazio, un perimetro di vita, un luogo di coscienza. Va visibilizzata, interrogata sul suo significato di rivelatore intimo, sociale, immaginario, simbolico”. Sfogliando le pagine si entra in un percorso circolare che libera la mente dal pregiudizio. Si colgono le intuizioni laiche e razionali e la consapevolezza di Foucault, i frammenti poetici di Genet e il suo “Chant d’Amour”, il crudo realismo della serie TV americana Prison Break, l’esistenzialismo di Heiddegger, le lacerazioni e le sconfitte dopo le illusioni di Kafka. Non si sfugge alla condanna nel “Processo”. E nella “Colonia Penale” è sempre certa la colpa. Compie un viaggio nella memoria Jean-Michel Pancin nella penombra della prigione Saint-Anne di Avignon, ricomponendo con la cura del dettaglio, simile a un affresco di Balzac, la vita dei suoi abitanti. La luce accecante entra come lamelle, a intermittenza, nel buio delle celle: “Ho fatto dialogare la luce solare, la libertà e la potenza dei muri, depositari delle storie dei detenuti”. Jhafis Quintero (ex-detenuto a Panama, artista alla Biennale di Venezia) abbatte le pareti della reclusione e delle tante solitudini: ”La creatività è essenziale per sopravvivere. Mi ha permesso di organizzare in maniera estetica il pensiero, mi ha fatto rappresentare la trasgressione che è parte di me”.

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Teatro dell’Arte, fucina multimediale con Schino, Studio Azzurro e Ikeda

schinoVINCENZO SARDELLI | Riapre il Teatro dell’Arte-Triennale come luna park intimistico. Porte aperte tra edifici architettonici: il pubblico si riversa negli spazi dell’edificio progettato ottant’anni fa da Gio Ponti. È un percorso inusuale, con attraversamento di generi e sperimentazione di nuove forme espressive. È un modo diverso di essere spettatore, un intreccio tra teatro, musica e danza con arti applicate, architettura e design, grazie agli strumenti offerti dalle nuove tecnologie digitali e dall’immagine elettronica.
Tre spazi, tre luoghi creativi. Si parte con il gruppo Opera, diretto da Vincenzo Schino, presente con l’installazione Il bosco / passaggio con respiro, su pitture di Pierluca Cetara. Si prosegue con Retroscena2 / memorie aeree di camera astratta di Studio Azzurro e Paolo Rosa. Si finisce con Test pattern del giapponese Ryoji Ikeda, con il suo linguaggio musicale e visivo totalmente generato da un computer.
Tre spazi, tre luoghi dell’anima. Un viaggio escatologico sfasato e senza lieto fine, verrebbe da dire: purgatorio, paradiso e inferno, senza ritorno.
Suggestiva la prima tappa, con dipinti su tela che raffigurano soggetti umani in preda a un sonno vicino alla morte. Occhi chiusi su quelle tele, visi animati dalla luce che sale, scende, sfuma, si spegne, accompagnata dal riverbero di note eseguite al pianoforte da Federico Ortica. La relazione crossmediale coinvolge lo spettatore, supera la percezione bidimensionale, crea una drammaturgia del respiro. È forse la parte più poetica del viaggio. La luce mostra l’intensità del colore, la forza delle pennellate, la corposità della materia creativa. Svela trasparenze. Questi dipinti-arazzi formano una foresta d’immagini e inquietudini, di spettri ed estasi. Sublimano nella seconda tappa del percorso.
Ci arriviamo lambendo i camerini, dove si preparano per la scena non attori o truccatori, ma corde e fasci di luce. Proprio corde pendenti, colpite a pois da fasci di luce, insieme a onde elettromagnetiche e suoni onirici, saranno protagoniste della Camera astratta. In questo spazio delle meraviglie si rimane a bocca aperta davanti ai caleidoscopici effetti luminosi. Si percepisce l’essenza dell’uomo, “misura di tutte le cose”. Non è l’arte in sé che ammiriamo, ma l’interazione tra arte e luce.
Dal paradiso all’inferno il passo è breve. Il celebrato Ryoji Ikeda, star giapponese dell’intreccio di musica e arte visiva, attende immobile. Sul maxischermo alle sue spalle, azionate dal computer, scorrono geometrie in bianco e nero come rettangoli di cruciverba sillabici e quadrati di scacchiere, nastri rullanti, e codici a barre. L’inganno pirotecnico s’accompagna a fischi assordanti, sibili e ronzii, rombi come locomotive e mitragliatrici. L’irreale disarmonia, squilibrio di luci e ombre, diventa alienante macchina tecnologica, catena di montaggio che fagocita e bombarda lo spettatore. I fuochi d’artificio elettronici diventano monotonia soffocante, martellamento dei timpani (e dei maroni). È una sequenza sferragliante senz’anima, né sentimento né pentimento. Se la musica di Mozart è euritmia, proporzione che stimola intelligenza e pensiero divergente, quest’esibizione, che dipende dai capricci del demiurgo, sortisce l’effetto di un impasticcamento d’ecstasy sotto i rumori devastanti di una discoteca techno-house. Con la differenza che non godi neppure un secondo e ti riempi il cervello di radicali liberi. Gli allucinanti effetti sonori di Ikeda, Hikikomori del palcoscenico, mettono alle corde il sistema nervoso.
È una prova di resistenza. Molti spettatori s’allontanano già dopo i primi minuti. Rimangono gli stoici. Alla buonora, dopo sessanta minuti di percussione autistica, Ikeda schizza via tra qualche applauso, silenzi esterrefatti e alcuni fischi.
Usciamo dalla sala con una gran voglia di gelato. Persuasi che, d’ora in poi, troveremo la poesia anche nell’alito pesante di un ultrà o in una barzelletta spinta di Berlusconi.
L’arte di Ryoji Ikeda (o le bizze della Tv degli albori)
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Amleto, Flash Gordon e i venti minuti: videoreport Tfaddal

Schermata 07-2456482 alle 13.54.36RENZO FRANCABANDERA | Venti minuti. Un tempo brevissimo. Eppure mitico. Nel mio immaginario legato all’adolescenza e alla sessualità. Nell’immaginario teatrale, da alcuni anni, definisce per antonomasia la proposta di “studio” con cui le compagnie, giovani e non solo, propongono anteprime dei loro lavori, al fine di testarne la robustezza scenica.
Siamo pro o contro i 20 minuti? La madre del mio amico Mario, io da poco maggiorenne, durante un pranzo a tavola in cui si parlava di rapporti sessuali, mi disse: “Beh, per una donna è bello quando dura almeno venti minuti…” Alle prime armi e con una foga che all’epoca poteva essere quella di Flash Gordon, venti minuti mi sembravano un tempo lunghissimo. Irraggiungibile.
Può esserlo invero anche a teatro, se lo spettacolo è noioso. Detto questo, nel recente passato ho testato come la consistenza della proposta dei venti minuti sia abbastanza effimera, specie per gli spettacoli delle giovani compagnie, che si concentrano a trovare idee buone per quell’orizzonte temporale. E’ frequentissimo però verificare come idee che sembravano interessanti sull’orizzonte breve, trasposte (spesso stiracchiate) sulla durata di un’ora, diventavano insopportabili. Oltre al fatto che per qualche anno (adesso per fortuna pare si sia capita la cosa) i Festival erano infarciti di “venti minuti” di questo o quello, di “primo studio per..”.
La rassegna Tfaddal, ospitata al Franco Parenti nel maggio scorso, ha suggerito una soluzione diversa: non pillole di spettacolo, o studi per (anche se qualcuno l’ha inteso in questa forma), ma spettacoli di 30 minuti su l’Amleto. Gli artisti chiamati a declinare, ognuno a suo modo, il classico shakespeariano, scelti da tre rappresentanti del giornalismo teatrale. Mezz’ora o poco più. Ne sono scaturite proposte diversissime, alcune più consistenti e robuste, altre da rodare, altre deboli, ma comunque con un importante successo di un pubblico giovane, che in una serata fruiva tre o quattro di queste brevi esecuzioni spettacolari.
Secondo me questa è una possibilità. Il tempo di 30-40 minuti è un tempo che cerca una mediazione fra il performativo e il teatrale, che consente non solo di esporre un’idea, ma di approcciare forme spettacolari nuove, sfidanti.
E soprattutto con un focus sull’essenziale, cosa che spesso le compagnie hanno in scarsa considerazione, allungando i tempi oltre l’ora per presunte esigenze di promozione. In onestà, riteniamo preferibile di gran lunga una proposta interessante di 30-40 minuti che una poco convincente di un’ora e mezza.
Perchè insomma bisogna per forza durare?
Certo, se la mamma di Mario mi avesse detto 30 minuti, sarebbe stata come il tocco della spada avvelenata di Laerte. Ne sarei potuto morire.

Ecco le interviste e le immagini della rassegna al TFP di Milano
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Mondocane#13 – Elogio della (dis)armonia teatrale

imagesMARAT | Mi domando spesso perché continuo col teatro. Credo se lo domandino in tanti. Ma non riesco mai a darmi risposta. Una almeno che resista al tempo. Ai saliscendi della mia sensibilità ciclotimica. Di solito faccio semplicemente passare la giornata. Altre volte ho bisogno di qualcosa di bello per crederci di nuovo. Uno spettacolo, un progetto, perfino una semplice conversazione, un incontro. E i festival estivi in questo aiutano. Ma ci sono periodi in cui il pensiero picchia duro, fastidioso come la maleducazione. Giorni in cui ti svegli con Tricky, ce l’hai proprio nel sangue Tricky, ti accompagna a casa, ti rimbocca le lenzuola. Così roco. Da bronchite mal curata. I drink till I’m drunk, and I smoke till I’m senseless. In quei giorni penso con una certa convinzione cose del tipo: c’è troppo poco talento; vedo decine di spettacoli orribili; il meccanismo è distorto, elitario, si autoalimenta, come una riserva indiana; i vertici sono inadeguati, la base fa la fame, in mezzo è mediocrità; gli stipendi sono da ridere, si fa leva su passioni e fragilità; vige il piccolo cabotaggio, il basso profilo; un film o una canzone di solito mi emozionano dieci volte tanto; la critica non ha più alcun ruolo, si bea di una condizione masturbatoria e salottiera, del superbo giochino del giudizio. Cose così. Ma solo quando sono di cattivo umore… Ultimamente lo sono meno. Alzo un po’ di più la tapparella, non litigo in macchina. E quando mi domando perché continuo col teatro, penso a un saggio di Gillo Dorfles “Meglio un pianoforte scordato?”, in cui prosegue la riflessione già in “Elogio della disarmonia”. Ovvero, di fronte all’arte, l’importanza della tensione fra il fattore equilibrante e quello disequilibrante. Il fascino dell’imperfezione. Una sensibilità. Che diviene, a seconda dei casi, semplice soddisfazione estetica, passaggio necessario per godere del successivo ritorno alla simmetria, fuga da una perfezione che invece di rassicurare sgomenta, come il sublime romantico. Ecco, subisco il fascino dell’imperfezione. Che mi fa preferire la Madonna di Munch, la Pietà Rondanini, l’urlo di Layne Staley, la trattoria sotto casa. Il teatro. La cui distanza fra proclami e quotidianità fa quasi tenerezza. E che comunque vada, osservi con gli occhi dell’innamorato. Che innamorato rimane anche di fronte ai difetti. E scambia occhiate complici con chi ancora ne sa intravedere la (grande) bellezza. Come noi.

 

IP, l’identità precaria di Ilinx

ipVINCENZO SARDELLI | Ondeggiante abbrivio di musica d’archi, I.P. (Identità precaria), anteprima della compagnia Ilinx che abbiamo visto nella panoramica cornice di Campsirago nell’ambito della rassegna Giardino delle Esperidi, è uno spettacolo che oscilla tra assurdo e teatro di figure (regia di Nicolas Ceruti, drammaturgia di Amanda Spernicelli, in scena Mariarosa Criniti, Giulia Lombezzi e Luca Marchiori).
In maniera evocativa, per flash irrelati, I.P. tratteggia il fenomeno sempre più diffuso (dilagante in Giappone) degli hikikomori: ragazzi che si chiudono nelle loro stanze, smettono di andare a scuola e di avere vita sociale. Legati al mondo reale solo attraverso il computer e internet, questi ragazzi si isolano persino dalle loro famiglie, confondono il giorno con la notte, non mangiano, non si lavano. Si chiudono in un angosciante silenzio. A volte deperiscono, fino a morire.
Lo spettacolo. Una gabbia separa gli spettatori da una scena grigia, laconica, sullo sfondo della quale campeggia un cumulo di giornali. Nel vuoto imperante stridono gli abiti fucsia e viola delle attrici: un tocco di colore sgargiante e al tempo stesso tetro, che non riscatta entità senza identità.
Tutto è sospeso, provvisorio. I personaggi corrono a vuoto. Il “dove e quando” non diventa “qui e adesso”. La “conoscenza”, richiamata dall’uso dei giornali, non è finestra sul mondo e sulla vita, ma muro che divide. L’artificiale purgatorio telematico dentro cui hikikomori di tutte le solfe si tuffano per la loro inettitudine a comunicare con esseri in carne e ossa, diventa vortice. L’io vi annega. Si disperde.
Un’ironia sottile e disperata tenta di animare questa pièce, dalla recitazione senza pretese, che condanna l’autistica società in ripiegamento su se stessa.
L’intimità svapora nelle figure senza nerbo che riempiono la scena. Tutti anelano a fuggire, forse alla ricerca del vero sé. Alcune scelte drammaturgiche e registiche sono spiazzanti. Alla piatta staticità (psicologica?) si alternino momenti di corsa frenetica. Qual è lo scopo? Rivelare che siamo un cumulo di contraddizioni? Animali in gabbia? Non è chiaro al pubblico, forse neppure a chi ha realizzato lo spettacolo.
Note techno, full-jazz e rock riproducono un’atmosfera straniante che interferisce con le parole. Le parole stesse volano via come i fogli di giornale spinti dal vento che, progressivamente, deposti dagli attori sulle grate della gabbia, rendono impenetrabile allo sguardo e al respiro il muro che li racchiude.
Tecnica naif, questo spettacolo utilizza qualche espediente scenico e registico già visto per evocare la dissociazione di una società che non trova soluzioni e precipita. Rimane il vuoto desolante, che ricade sullo spettatore. Senza appello. Quell’appello che deve meritarsi la compagnia di Inzago (Mi) per definire meglio drammaturgia, regia, stile e intenti comunicativi. Altrimenti i primi ad essere spiazzati sono proprio gli attori.
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“This is an american drama in Italy!”: i Deerhunter a Milano

bradford-cox-2_V1MANFRED ZEIT | “This is an american drama in Italy!”. Così dichiara un irritato e irritante (per molti degli astanti, ma non per chi scrive) Bradford Cox a circa metà esibizione dei suoi Deerhunter, tra le zanzare e il pubblico inerte del Magnolia. Basterebbe questa frase a spiegare che cosa è accaduto, ma entriamo nei dettagli!

Bradford Cox, assieme a Lockett Pundt (amati da molti anche per i rispettivi progetti solisti Atlas Sound e Lotus Plaza), è la mente musicale dei Deerhunter. Ma la mente poetica ed emozionale è certamente l’allampanato freak (affetto da Sindrome di Marfan fin dalla nascita) di Altanta: Bradford Cox ragazzo difficile e musicista prolifico oltreché dal tocco originale e unico. Arrogante e dispotico, con voce candida e poi improvvisamente aspra, appassionato di escapismo!

Un personaggio naif e trasversale che certamente incarna con esattezza l’essenza del musicista indie contemporaneo. Però qui non si tratta di pose, qui tutto è fottutamente reale e sofferto: Bradford è realmente malato, Bradford è un reale provocatore, disturba e afferma la sua diversità con grande convinzione e con il supporto di un immaginario sonoro e poetico (oltreché estetico, ma su questo torneremo) di grande impatto e di grande autenticità. Bradford Cox è una creatura dell’America freak e sognante, marginale e vitale, reale e artificiosa, potrebbe ricordare lo spaventapasseri o l’omino di latta del meraviglioso mondo di Oz. L’immaginario dei Deerhunter si colloca in quella zona dell’indie americano che va dai REM a Flaming Lips, dai Velvet Underground agli Animal Collective.

Sebbene molti “moralisti” rock’n’roll un po’ se la stiano prendendo, io non mi stupisco che Bradford Cox sia antipatico e indolente perché l’acustica del Magnolia si rivela inadeguata e, nonostante ripetute richieste da parte dei musicisti, i fonici del locale non siano in grado di migliorarla. Non mi stupisce che Bradford sia dispotico con il resto della band, ne’ che si conceda variazioni sui brani e lunghe digressioni verbali dove, prima prova a dialogare ironicamente con il pubblico che non comprende il suo inglese americano, restando bolso e inerte, poi comincia a insultare il così detto “malcostume degli italiani”, il provincialismo, Berlusconi e così via. Intona anche una preghiera per Little Tony e si chiede come questo possa essere il paese che ha prodotto Pasolini. Ma non è mica la prima volta che musicisti stranieri si irritano e si scagliano contro il clima mefitico e sciatto che si respira dalle nostre parti! Che qualcuno dell’organizzazione si lamenti di quanto è stato irritante, cattivo e indisciplinato un artista rock, lo trovo quantomeno patetico: se organizzi concerti rock non ti aspetterai di ricevere sempre dei simpatici e composti gruppetti di boy scout!?

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I Deerhunter pare abbiano passato il pomeriggio a decorare sassi, questi simpatici oggetti sostituiranno il merchandising assente e saranno offerti gratuitamente al pubblico dalla band.

Quindi tutto diventa psicodramma e farsa. I brani del nuovo stupendo album “Monomania” (titolo assolutamente puntuale e preciso nel descrivere il contenuto dell’album), ma anche quelli pescati dai dischi precedenti, sono dal vivo molto più rumorosi e affollati di suono: una melassa sporca e seducente, assordante e trascinante. Tutto è romanticamente confuso e piangente. Bradford provoca e sbeffeggia il pubblico tra coltri di chitarre sovrapposte e sovraesposte, mentre la batteria di Moses Archuleta riorganizza il caos scandendo ritmicamente questa matassa di suono notturno, indolente e retrò. Bradford indossa una parrucca nera con enorme ciuffone da New York Wavers che richiama alla mente il CBGB’s di fine ’70, ed è un perfetto costume di scena: per buona parte del concerto sembrano essere i suoi veri capelli a coprirgli metà del volto e gli occhi. Poi quando qualcuno nelle prime file, durante un momento particolarmente noise del concerto, incita Bradford a buttarsi nel pubblico come un vero punk rocker dei Seventies, lui si toglie improvvisamente la parrucca ed è straniamento puro: “guardatemi, spennacchiato e deforme, io sono un freak, una creatura eccezionale. Non mi butterò tra le vostre braccia!”, dopodiché indossa nuovamente la parrucca svelata come fosse una protezione. Un’arma.

Il ritmo delle città: John Taylor e il valore della dissolvenza

ritmocitta_taylorRENZO FRANCABANDERA | E’ singolare che in una città ci sia un grande musicista che dedica un concerto interpretando i brani di un altro grande musicista, che quella stessa sera suona in un’altra città a pochi km di distanza. Se poi sono due musicisti inglesi settantenni in Italia, la cosa ha un che di singolare.

John Taylor mancava da dieci anni da Milano. Paul McCartney da molti meno in Italia. L’ultimo tour è del 2011. Il primo ha deciso di presentare un progetto di studi e interpretazioni di brani del secondo, debuttando nel capoluogo lombardo, all’interno della notevolissima rassegna di musica jazz Il ritmo delle città la stessa sera del concerto dell’ex Beatles a Verona.

In realtà, come spesso accade a teatro o nelle arti, l’ispirazione è un pretesto. Questo progetto dedicato alle canzoni scritte da McCartney era un delicato pretesto per continuare il dialogo artistico con Diana Torto, con cui Taylor suona regolarmente in duo sia in Italia che all’estero dal 2005. Taylor ha una grande attenzione per le voci del jazz italiane. Era già uscito nel 2008 Triangoli, un album con la Torto accompagnata dal pianista e Anders Jormin. Ma è di sedici anni fa Verso, il bel lavoro con la voce di Maria Pia De Vito, ripreso cinque anni dopo da Nel Respiro, sempre con la stessa interprete.

In questo caso la formazione si allarga ad un quartetto di matrice nord europea in cui segnaliamo la straordinaria verve di Martin France, che per tutta la sera con la sua batteria fornisce un contrappunto ritmico straordinario alle arrampicate vocali della cantante italiana e alle sue improvvisazioni.

Di Diana Torto inutile raccontare del percorso di anni, tutto fuori dalle vie facili e commerciali, con quella voce capace di escursioni timbriche, gutturali, di animalesca poesia che riescono a duettare in sincrono con uno strumento a fiato dando l’idea di un principio meccanico di produzione sonora, e a distanza di qualche battuta a scolpire l’arco delle tonalità che nessuno strumento può produrre, se non la voce umana. In lei si respira quella perfetta intonazione nasale dell’emissione vocale, utile al riverbero interiore che non è più solo armonico ma finisce poi per diventare concettuale. Lo diventa ancor di più quando sfuggendo alle regole della partitura è libera di variare e improvvisare con lirica leggerezza.

E Taylor e McCartney? In realtà la grandezza di Taylor è quella di riuscire quasi a fare un passo indietro, una caratteristica tipica dei leader, che mettono al servizio di un progetto e dell’altrui talento la capacità di un’eclissi parziale, in nome del collettivo, che è così libero di emergere quanto le individualità che lo compongono. Il progetto McCartney in fondo è nato da pochissimo e forse è più che altro un pretesto che se su alcuni brani ha già trovato la misura di un’originale reinterpretazione dei classici dell’ex Beatles, su altri rimane più schiacciato sulla matrice originaria. Ecco che bene, nel mezzo del concerto, vengono a spezzare ritmo e assonanze i brani scritti dalla cantante e dal maestro che più libertà d’esecuzione inducono nella scaletta. Così anche McCartney si eclissa, e che sia a Verona poco importa, mentre noi ce la godiamo aell’Orto Botanico di Cascina Rosa a Città Studi, in uno di quegli angoli inusuali della città in cui questa rassegna negli anni è riuscita a portarci.

Il ritmo delle città durerà per tutto il mese di luglio a Milano e in alcune località vicine Arese, Legnano e Magenta. Proprio il 3 ad Arese, sarà in concerto Gianluca Petrella, giovane talento di prima grandezza a livello internazionale del trombone.

Ma gli appuntamenti sono tutti ghiottissimi: dallo Steve Swallow Quintet, con la magica Carla Bley (il 15 luglio al Castello Sforzesco), al norvegese Jazz Mob e al francese Rémi Panossian Trio (il 25 luglio al Castello Sforzesco), per non parlare di Chick Corea, il 22 luglio sempre all’Orto Botanico di Cascina Rosa. Anche Corea, come Taylor, sarà protagonista nel corso della giornata del concerto di un seminario organizzato dai Civici Corsi di Jazz della Fondazione Milano presso l’Auditorium Lattuada.