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venerdì, Maggio 9, 2025
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Inquietanti quegli anni: i «Figli senza volto» di Animanera

animaneraVINCENZO SARDELLI | Starebbe bene come spazio performativo in una mostra sugli anni Settanta Figli senza volto, messo in scena dai milanesi Animanera, bel testo di Ida Farè, regia di Aldo Cassano, con una Natascia Curci di forte impatto. Una storia calata negli Anni di Piombo. Una militante della lotta armata, tra quotidianità e anonimato, affetti e ideologia. Tre quarti d’ora di monologo, in uno degli spazi angusti della Triennale-Teatro dell’Arte.

Ma qui tutto è angusto, il movimento, la parola, l’anima: «Ho seguito il filo della ribellione pura, l’acqua della vita. Sono state le vostre mani a intorbidirla di morte, ma eravate più forti e ho dovuto raccogliere le armi che mi avete consegnato. Sono diventata come voi. Ho bevuto l’acqua della ribellione amara».

Casermone popolare di una città del Nord, appartamento come tanti. Una donna sola, volto smunto, sottana, maglione a trecce. Moquette, sedia. Elettrodomestici dal design postmoderno: tv, ferro da stiro, videocamera. Borsa, scarpe. Giradischi, note su vinile: la struggente Ultima neve di primavera di Franco Micalizzi, l’acid rock di White Rabbit dei Jefferson Airplane, Rain and Tears degli Aphrodite’s Child, colonna sonora del Maggio francese: a volte sono i figli a tradire i padri.

Portacenere, cicche, fumo: gli oggetti (spazio scenico Valentina Tescari, costumi Lucia Lapolla) hanno contenuti emozionali. Ritagli di giornale, Polaroid, pistola, parrucca: travestimenti, anche della sfera affettiva. Patimenti, pentimenti. Anche le luci da interior design (di Beppe Sordi) sono emozionali, la progettazione dell’epoca era così spiazzante. Le luci dilatano ombre, le ombre i gesti. Gesti di mani intorpidite. Mani che tremano, sparano, uccidono.

Un velo sottile separa una vita dalle nostre. Due mondi, due epoche. Siamo in intimità, a volte in empatia, persino. Dietro la quotidianità di un uomo e di una donna, gesti e azioni banali, si cela l’angoscia di due terroristi.

La scelta della lotta armata. L’esistenza nell’ombra. L’ansia di nascondersi, dalla polizia, dai vicini, dal letturista del gas. Anche noi ci sentiamo braccati. Dall’urgenza di trattenere il tempo. Dalla giovinezza che vola. Da passato e futuro intrecciati, sospesi, nell’emozione dei silenzi.

Figli senza volto ce li ricorda bene quegli anni: le sigle di fine programmazione della Rai, il meteo di Bernacca, Kraft-cose-buone-dal-mondo, Bontempi e la musica a portata d’infante. C’è questo nello spettacolo, e anche il resto: le armi, l’isolamento, le atmosfere livide e profonde. Gli effetti audio (di Antonio Spitaleri) s’intersecano in uno straniante climax: borbottio di caffettiera, ticchettii di macchina da scrivere, sveglia, bomba a orologeria, spari di mitragliatrice, rombo di terremoto.

Suoni meccanici. Come la voce della protagonista, fredda e metallica. Come i colpi delle P38. E sangue, a fiotti.

C’è un climax anche olfattivo: sigarette, fumo, barricate, molotov. A squarciare il grigio dilagano, proiettati sul velo, effetti caleidoscopici, a creare un acquario psichedelico che è fuga, fantasia, filtro per una danza nell’ombra della protagonista. C’è un contrappunto, cose di un altro mondo: E se domani di Mina, l’intervista a una donna siciliana che prova a emanciparsi tra una fuitina d’amore e un paio di aborti, all’epoca clandestini anch’essi.

Brandelli esistenziali, ideologie perdenti, amori (e valori) smarriti. Nostalgia, disperazione.

Che cosa resta di quegli anni, delle battaglie, di chi sacrificò la vita, propria e altrui? Scorre sul velo-schermo-sipario, come titolo di coda, un bilancio di quelle ferite, curato da Giorgio Galli. A precederlo immagini della Tv contemporanea, Porta a porta, Il grande fratello, X-Factor, La prova del cuoco, Affari tuoi. Didascalia preziosa per alcuni, pedante secondo noi. Occorreva un finale, e forse è l’unica scaglia da limare di questa messinscena di grande intensità. Che ci ha trasmesso ricordi ed emozioni. E riflessioni, ancora nuove. Quarant’anni dopo.

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Chomsky, italiano e rotocalchi… trova l’intruso!

lin2BRUNA MONACO | Chi l’ha detto che le estenuanti file dal dottore non possano essere istruttive? E che i settimanali scandalistici siano solo collettori di idiozie? Ebbene, qualche volta, può anche capitare che fra un post-nozze di Belen e l’approfondimento sull’ultimo programma di Milly Carlucci, se ne stia quatto quatto un articolo in grado di dare un senso e un guizzo a quella che altrimenti sarebbe stata la solita improduttiva e noiosa attesa. Parlo di un inaspettato articolo divulgativo sui mutamenti della nostra lingua, con tanto di intervista a Nicoletta Maraschio, presidentessa dell’Accademia della Crusca. Lo spazio che il rotocalco scandalistico Di Più dedica all’argomento non è neppure esiguo: i vari aspetti della vexata quaestio dell’italiano che cambia sono scandagliati in una serie di puntate da più di tre pagine l’una. C’è da credere che il Sig. Sandro Mayer, direttore del giornale, abbia ponderato bene la scelta, ritenendo il suo pubblico potenzialmente attratto dal tema. Avrà ragione?

Non è nuovo l’interesse per i cambiamenti della lingua: ogni cittadino italiano di media cultura ha un’opinione sul destino del congiuntivo o del passato remoto. E si interroga sulla giustezza di egli rispetto a lui come pronome soggetto. Di le, rispetto a gli se l’oggetto indiretto in questione è femminile. Ma Di Più non è esplicitamente destinato a un pubblico di cultura media. L’interesse per argomenti linguistici si sta dunque allargando, o si allarga solo quello per il destino della lingua italiana? No, non solo quello, parrebbe.

Sul numero di gennaio de La mente & il cervello è uscito un dossier sui misteri del linguaggio in cui si affronta il tema dal punto di vista delle neuro-scienze. E nello stesso periodo si è svolto a Roma il Festival delle Scienze 2014, organizzato dal Parco della Musica: quest’anno il titolo dell’evento era i Linguaggi.

Il folto pubblico che ha popolato l’Auditorium in occasione del Festival delle Scienze è di certo diverso da quello di Di Più e infatti le questioni linguistiche affrontate in quella sede sono state di alto livello: si è discusso, fra l’altro, del rapporto tra il successo di una società e la sua struttura linguistica, della diffusione delle lingue indoeuropee e della teoria della povertà dello stimolo. Tutto l’evento ha fatto perno sulla figura del grande linguista e attivista americano Noam Chomsky, fortunato fondatore della grammatica generativo-trasformazionale, presente con due appuntamenti e nella duplice veste di attivista e linguista. Come prevedibile il pubblico è affluito numerosissimo, l’Auditorium ha dovuto predisporre degli schermi nella hall affinché, nonostante il sold out in sala, tutti potessero sentire le parole del maestro americano. La hall, come la sala, era gremita di pubblico.

Ma dicevamo: Chomsky non solo star e protagonista, ma perno dell’evento, gli intervenenti essendo tutti americani o quanto meno tutti della “scuola americana” che fa capo a Noam Chomsky. Eccezion fatta per Tullio de Mauro, presente da programma con una conferenza sull’incomprensione linguistica nel Bar dell’Auditorium, nessun esperto italiano o francese o tedesco, che pure sono all’avanguardia nelle discipline linguistiche. Perché? Se è vero che le questioni linguistiche si stanno facendo largo nell’interesse degli italiani, forse non sono ancora in grado, da sole, di conquistare il pubblico. E allora un personaggio noto e carismatico come Chomsky fa da specchietto per le allodole, sicuramente più accattivante di altri pur insigni studiosi, magari meno avvezzi al mondo mediatico.

E il caso Di Più, allora? Anche lì, seppur celato, uno specchietto per le allodole c’è: nell’articolo Nicoletta Maraschio mostra come le mutazioni linguistiche siano naturali in una lingua viva e sostenendo ciò, di fatto, rilascia una patente di correttezza alla lingua parlata dai lettori dei rotocalchi, facendo rientrare nell’italiano standard tratti specifici del parlato che la vulgata normalmente addita come errori. Nicoletta Maraschio dice al lettore di Di Più che non deve vergognarsi di dire “se venivi, ti divertivi” perché questa è un’espressione accettabile, semplicemente appartiene a un registro familiare della lingua. E implicitamente, dice anche, che non esiste una norma rispetto a cui riconoscere degli errori, bensì un ampio spettro di registri e varietà di una lingua.

Così il pubblico aumenta e aumentano i temi linguistici a cui è disposto a interessarsi. Ma dall’altra parte, dalla parte di chi deve informare, qual è l’atteggiamento nei confronti del vasto pubblico? Affinché sia accessibile, di una scienza occorre fare un’opera di divulgazione. Lo stesso Chomsky, nonostante la predisposizione a parlare alle folle, quando entra nel merito di questioni linguistiche diventa ostico: a chiunque non avesse letto almeno un manuale di linguistica generale, la conferenza dell’Auditorium deve essere parsa incomprensibile. E Chomsky non è l’unico ad avere problemi con la divulgazione: paradossalmente i linguisti parlano poco, e solo con addetti ai lavori. Anche in Italia la differenza di conoscenza fra gli esperti e il resto della popolazione è altissima. Fatto comprensibile, da cui non sono immuni neppure le altre scienze, dure o morbide che siano.

Ma la lingua non è solo il prismatico oggetto di una scienza, è anche la forma attraverso cui si esprime qualunque discorso scientifico, qualunque discorso. Non si parla solo di lingua, ma con la lingua parliamo. Venire incontro al nuovo pubblico è forse doveroso.

Speriamo che questo boom di interesse verso la materia linguistica sia foriero di una divulgazione sistematica. E, sembrerà strano, ma forse affinché questo avvenga, gli accademici dovrebbero imparare Di Più e non aver paura di farsi capire.

Passato batte presente a mani basse? Dopofestival al digerseltz

sanremo-2014EMANUELE TIRELLI | La vera prima donna del Festival di Sanremo 2014 è il calo vertiginoso di ascolti accompagnato da una lentezza soporifera. Per il resto, parlando di canzoni, Arisa è la prima dei big e Rocco Hunt vince nella categoria Giovani. La conduzione di Fabio Fazio e Luciana Littizzetto fa registrare una perdita di quasi quattro milioni di telespettatori rispetto al 2013 e, ancora di più, al 2012. Quindi gli italiani criticano il festival e poi lo guardano, sì, ma in pochi.

L’edizione 2014 si apre con due dipendenti del Consorzio di bacino di Napoli e Caserta che minacciano di lanciarsi da una balaustra se Fazio non leggerà una lettera nella quale spiegano qual è la loro situazione. Qualcuno si chiede come potrebbe fare un Consorzio di Bacino ad avere 800 dipendenti senza evidenti problemi economici. Qualcuno ricorda che il problema è stato affrontato pochi anni fa. Per altri versi, invece, i fan del festival e di Pippo Baudo hanno un déjà-vu.

Per quanto riguarda la gara, funziona così: ogni cantante interpreta due canzoni che esegue una dopo l’altra. Il televoto decide quale debba essere esclusa e quale continuare. Un leggero spunto di riflessione sulla distanza tra il pubblico e gli addetti ai lavori è nel Premio della critica Mia Martini assegnato a Cristiano De Andrè per “Invisibili”, il suo brano scartato.
Le canzoni non sembrano destinate a passare alla storia. Forse solo a durare una stagione o, alla meglio, un anno radiofonico. Giuliano Palma con i ritmi in levare del suo “Così lontano” porta sul palco almeno un po’ di verve interpretativa. Poi i Perturbazione (“L’unica”) si aggiudicano il riconoscimento di sala stampa e tv, mentre Raphael Gualazzi e Renzo Rubino mettono in tasca secondo e terzo piazzamento generale. Il resto è poca roba. C’è Francesco Renga, grande favorito e con un certo appeal per il pubblico femminile, ma poco interessante artisticamente. C’è Riccardo Sinigallia che viene escluso dalla gara perché il suo brano non era inedito, chiede scusa e annuncia che non presenterà ricorso. Ci sono Noemi, Ron, Francesco Sarcina, Giusy Ferreri, Franki Hi-NRG e Antonella Ruggiero ancora meno pervenuti. Tutti in una grande media che si fa più o meno interessante a seconda dell’ascoltatore e soprattutto di chi li segue già, festival o non festival.
Ancora meno pervenuti risultano tutti i partecipanti dopo la serata delle cover. Venerdì ogni candidato introduce all’Ariston un omaggio alla canzone italiana d’autore. Ed ecco che Arisa rifà, in modo imbarazzante, “Cuccuruccucu” di Battiato, Renga presenta “Un giorno credi” di Edoardo Bennato, I Perturbazione “La donna cannone” di De Gregori, Ron “Cara” di Lucio Dalla, e così via. Gino Paoli, tra gli ospiti della serata, canta Tenco, Bindi e se stesso.
Allora la domanda è: tra venti anni quali canzoni potranno sostituire o quantomeno affiancare quelle di venerdì sera?
La risposta è in una riflessione puntuale di Red Ronnie di qualche mattina fa. Ci ricorda che Lucio Dalla, Vasco Rossi e tanti altri oggi non potrebbero esistere, perché quando hanno iniziato a fare dischi non vendevano quasi niente. Se le case discografiche non avessero creduto in loro per i primi anni, sarebbero finiti impiegati in tutt’altri mestieri. E, ancora, se quelli che oggi vendono e sono un po’ più interessanti vanno poi a riempire le giurie e gli staff dei talent show, quando trovano davvero il tempo per fare il proprio lavoro?

a_sanremo_una_serata_amarcord_sul_palco_kessler_valeri_e_baglioni-330-0-392133La stessa riflessione va fatta per la maggior parte degli ospiti: Raffaella Carrà, le Kessler, Franca Valeri, Renzo Arbore. Fanno all’incirca quattrocento anni, più o meno.
Passato batte presente a mani basse?
O quantomeno passato batte valorizzazione del presente. Che forse è ancora meno diverte e più angosciante.

Poi una serie di ospiti nazionali e internazionali accomunati dal tema della bellezza scelto per il festival, ma, considerando tutto, senza un reale appeal.
Sul versante giovani, sette nuove proposte che poi diventano quattro. Zibba, Diodato, The Niro, Rocco Hunt. Relegati in terza serata, quando invece avrebbero bisogno di maggiore visibilità. Vengono liquidati in poco tempo anche nel momento della premiazione. Peccato.
Rocco Hunt si commuove quando riceve il premio e viene invitato a cantare di nuovo la sua “Nu juorno buono”, un pezzo di speranza soprattutto per quella parte della Campania che soffre la politica dell’abbandono e dei rifiuti. Una canzone solare e fresca che, complice una serie di indizi, fa dire a tutti: bravo il giovane napoletano. E invece no, è salernitano. E Salerno non entra neanche nella Terra dei Fuochi citata nel brano. Quindi via con le polemiche. Ma almeno il pezzo si distingue, non è appiattito dall’orchestra e funziona. Funziona sì, al contrario di tutto il resto che invece fa molta fatica e chiude una settimana di kermesse sotto tono, poco incisiva e che darà un gran da fare agli organizzatori della prossima edizione per non ripetere il flop. Anche perché è vero che almeno hanno smesso di vincere i cantanti usciti dai talent e dai programmi della De Filippi, ma questo non basta ancora.

Wittgenstein, immagini di filosofia prendendo ad esempio la scena

copertinawNICOLA ARRIGONI «Immaginiamoci un teatro: si alza il sipario e noi vediamo un uomo solo camminare su e giù per la sua stanza, accendersi una sigaretta, mettersi a sedere e così via. Improvvisamente noi lo vedremmo come lui non potrebbe mai vedere se stesso, vale a dire dall’esterno. Vediamo con i nostri occhi, per così dire, un capitolo di una biografia – tutto questo è inquietante e mirabile al tempo stesso. Più mirabile di tutto ciò che un poeta potrebbe mai far rappresentare o dire sul palcoscenico. Noi vedremmo la vita stessa», così scrive Ludwig Wittgenstein il 22 agosto 1930. Questa citazione non solo apre il ricco e bellissimo volume a cura di Michael Nedo, Wittgenstein. Una biografia per immagini (Carocci editore, 75 euro), ma offre una chiave di lettura del volume stesso. Come scrive il curatore: «L’intento è quello di gettare uno sguardo il più possibile diretto e imparziale sulla vita e sull’opera di Wittgenstein. Il lettore è chiamato a rintracciare i legami tra la sua biografia , il suo ambiente spirituale e personale e la sua opera, e farsene una propria idea». Il lettore assume il ruolo dello spettatore del teatro citato all’inizio, gli spetta il compito di osservare, sfogliare, rubare la vita di Ludwig Wittgenstein, offerta dal documento muto eppure loquace di una serie di fotografie che ne raccontano la vicenda biografica, le origini aristocratiche, la storia familiare, il contesto culturale e sociale in cui il filosofo nasce, cresce e da cui cerca una distanza eremitica, enigmatica, assoluta, intensa, spiazzante.

«La forma del libro esprime il concetto di album che era proprio di Wittgenstein – scrive nella prefazione Michael Nedo – Egli lo applica alla descrizione tanto della sua opera quanto della sua vita: nel 1943 paragona i suoi scritti filosofici, le Ricerche filosofiche, che non contengono immagini, a un album di schizzi paesaggistici: negli anni trenta mette insieme un album fotografico in cui racconta la sua vita attraverso immagini». In questo stretto legame fra il filosofo e la biografia per immagini, raccontata da Nedo, si sviluppa il racconto iconico del filosofo austriaco, rampollo di una delle famiglie più in vista della Vienna fin de siècle, ingegnere aeronautico, volontario nella prima guerra mondiale, maestro di scuola elementare, giardiniere, architetto, professore a Cambridge. Basta questo elenco di ruoli e perché no di identità per dare conto della personalità e della biografia di Ludwig Wittgenstein che dicendo di sé nella prima pagina della biografia per immagini con la foto di lui neonato scrive: «Il mio nome è ‘L. W.’ E se qualcuno dovesse contestarlo, stabilirei immediatamente innumerevoli connessioni che lo renderebbero sicuro», 21 aprile 1951 e ancora più sotto si legge: «Perché il proprio nome dovrebbe essere sacro per l’essere umano? Se da un lato esso è lo strumento più importante che gli viene dato, dall’altro è come un gioiello che gli viene messo addosso alla nascita», 20 giugno 1931.

Ed è proprio nel coniugare immagini a frammenti del pensiero di Ludwig Wittgenstein che la lettura e il semplice sfogliare il volume di Carocci si fa un’esperienza dello spirito, un viaggio nel tempo, un racconto per ossimori che spazia dall’elegante palazzo viennese della famiglia Wittgenstein, alla casa ad Skjoden in Norvegia che assomiglia alla realizzazione di un sogno, la casa sull’albero che ogni bambino desidera, casa che è al tempo stesso rifugio ma anche possibilità di vedere la realtà e il mondo da un’altra prospettiva e dopotutto si legge nel testo che accompagna la riproduzione del primo tentativo di scrittura del bambino Ludwig: «I filosofi sono spesso come bambini piccoli che prima scarabocchiano con la matita su di un foglio di carta dei disegni qualsiasi e poi chiedono all’adulto: ‘Cos’è questo?’ – E’ andata così: l’adulto aveva più volte disegnato qualcosa per il bambino e gli aveva detto: ‘Questo è un uomo’, ‘Questa è una casa’ e così via. E allora il bambino fa anche lui dei segni e domanda: e questo cos’è?». Questo interrogativo è presente sempre e comunque nell’indagine filosofica di Wittgentein, un chiedersi ‘che cosa è questo?’ andando in cerca della pluralità, delle connessioni che costruiscono la realtà e il senso, il linguaggio e il nostro essere nel mondo. E allora appare illuminante quanto il filosofo scrive rispetto alle sue Ricerche filosofiche: «Ma perché, quando scrivo di filosofia, mi sembra di scrivere una poesia? E’ come se in ciò risiedesse un dettaglio che ha un significato grandioso. Come un fiore e una foglia», 31 ottobre 1946. In queste parole si specchia la foto scattata da Ben Richards nel settembre 1947 a Swansea in cui Ludwig Wittgenstein guarda in macchina con uno sguardo in cui dolcezza e distanza, in cui melanconia e assenza sono un tutt’uno su uno sfondo che è astratto e in cui a confondersi sono gli stessi abiti del filosofo.

Così sfogliando il volume Wittgenstein Una biografia per immagini ci si può soffermare sui protagonisti della Vienna fine secolo che passarono tutti o quasi in casa Wittgenstein, ci si può soffermare sui volti degli alunni dell’ultima classe del maestro Wittgenstein e riflettere su quanto scrisse il 13 gennaio 1940: «Un maestro che, mentre insegna, mostri di avere delle conoscenze buone, o addirittura sorprendenti, non è per questo ancora un buon maestro. E’ infatti possibile che, mentre gli studenti sono sotto la sua diretta influenza, egli li porti ad un’altezza per loro innaturale, senza però curarne lo sviluppo che li ha portati a quell’ebbrezza, cosicché non appena il maestro abbandona l’aula essi precipitano. Ci ho pensato: forse vale anche per me». In questo intersecarsi di immagini e citazioni o testimonianze legate a Ludwig Wittgenstein sembra realizzarsi un bisogno più volte espresso dal filosofo austriaco e con grande senso del pudore allontanato sempre: «Qualcosa in me mi dice che dovrei scrivere una biografia. Vorrei una buona volta chiarire la mia vita e renderla comprensibile a me stesso e agli altri. Non per giudicarla, quanto per amore della chiarezza e della verità». E viene da pensare che il ricco e appassionante volume curato da Michael Nedo soddisfi forse questo bisogno di chiarezza e verità biografiche espresse dal genio di Ludwig Wittgenstein.

Michael Nedo, a cura di, Wittgenstein. Una biografia per immagini, Carocci editore, Roma, 2013, pagine 469, 75 euro.

Ranuncoli#8: Cheek to Cheek con l’Imperatore per un discorso grigio

downloadCOSIMA PAGANINI | Certi passaggi della colonna sonora di Nuovo cinema Paradiso, di Morricone,  somigliano a certi passaggi della Faust Sinfonia di Liszt. Cheek to Cheek di Irving Berlin richiama la Sinfonia n 4 di Gustav Mahler. Discorso Grigio sembra un lacerto di Hitler – Un Film dalla Germania di Syberberg.

È ovvio che per citare Liszt, Mahler e Syberberg bisogna conoscerli. È ovvio  che Berlin, Morricone e Fanny & Alexander sono bravi, colti e intelligenti. Mi piacciono Mahler, Liszt e Syberberg, mi piacciono meno Berlin, Morricone e Fanny & Alexander.

Nel caso di Syberberg e Fanny & Alexander preferisco l’ opera del primo perché non ho bisogno di leggere testi critici per capire quello che vedo. O meglio, quello che fa il bravissimo Marco Cavalcoli lo capisco benissimo ma non mi racconta niente oltre a quanto siano bravi e intelligenti  e inutili i Fanny & Alexander.

Discorso Grigio non mantiene quello che promette nel programma di sala: non riesce a strutturare un pensiero critico rispetto al discorso politico: non mi offre nessuna arma contro il processo di manipolazione del potere.

Qualsiasi discorso decontestualizzato è un discorso vuoto e retorico. Non c’è discorso politico (anche uno di Lincoln o Kennedy o Obama) decontestualizzato che non sia vuoto e retorico: funziona in un contesto preciso e per un pubblico preciso. Mostrare che un discorso politico è vuoto può addirittura alimentare la credenza che ci siano discorsi capaci di dire di per sé delle cose vere e autentiche, al di là delle loro particolari strategie retoriche. Fanny & Alexander si limita a dire che l’Imperatore è nudo ma ormai dire questo non abbatte l’imperatore. Anzi,  l’imperatore, che sa benissimo di essere nudo, usa la sua nudità. La usa per creare empatia e tranquillizzare.

«Pretty» e «La cantatrice calva»: amore e conflitto in scena

nigroVINCENZO SARDELLI | Conflitti coniugali, incomunicabilità, mancanza di empatia. Fino alla rinuncia totale al confronto, alla quiete dove un attimo vale l’altro, ogni parola il suo contrario.

A Milano due spettacoli teatrali mettono in scena il vuoto nella relazione di coppia. Vuoto al quadrato. Perché in entrambi gli spettacoli le coppie in crisi sono due. È quanto emerge in Pretty – Un motivo per essere carini, di scena al teatro Tieffe Menotti (di Neil LaBute, regia di Fabrizio Arcuri) e in La cantatrice calva, che abbiamo visto alla Cooperativa (di Eugène Ionesco, regia di Marco Rampoldi).

LaBute con più realismo, Ionesco nei consueti modi surreali, mettono la società contemporanea davanti allo specchio. Ne mostrano vanità e superficialità. Il tutto amplificato dal fatto che i protagonisti sono sovrapponibili, in un magma dove affiorano qualunquismo e ipocrisia. Il risultato sono due commedie brillanti, tra equivoci e satira, intorno ai temi dell’identità, del conformismo, della relatività dell’essere, e in fondo di ogni relazione umana.

In Pretty l’ossessione per la bellezza domina i rapporti personali, creando incomprensioni banali, eppure senza uscita. Al centro due coppie di amici, Greg e Steph, Kent e Carly. È Steph a scagliarsi contro Greg perché, tra una chiacchiera e l’altra, lui si è lasciato sfuggire che lei non è una Venere, eppure non la lascerebbe mai. Apriti cielo. Perché Carly riferisce (a modo suo) l’accaduto a Steph. È il via a un intrigo d’incomprensioni, equivoci, tradimenti e segreti. Tra edonismo e narcisismo, capricci e vendette, le coppie implodono, con buona pace (e insoddisfazione) di tutti.

Copione con qualche luogo comune, ruoli stantii, recitazione pulita ma piatta. Una pièce d’intrattenimento. Dove emergono una convincente Fabrizia Sacchi e un Filippo Nigro bravo sì, ma che a teatro è sempre la stessa pietanza, qualunque salsa lo accompagni. Cresce Davanzati, con una Roncione acerbetta, nell’occasione disperata perché bella, ma così bella che gli uomini non possono evitare di apprezzarne l’involucro anziché l’anima. Poveraccia.

In Pretty ogni personaggio si guarda allo specchio nel tentativo di analizzarsi, di chiedersi chi sia, dove vada, che tipo di relazioni stabilisca con i suoi simili. Tutti sono in balia dell’ambiente che li circonda, prigionieri delle opinioni altrui. Qui si contesta l’idea stessa che l’individuo sia libero di autodeterminarsi. I dubbi di Steph riguardo alla propria bellezza, di Greg riguardo alla propria profondità, per non parlare delle manie più superficiali di Kent e Carly, sono pretesti per affermare che siamo tutti un po’ complessati. Le gigantografie dei protagonisti immortalati in quattro monologhi in successione, proiettati in doppia interfaccia da una telecamera, sono l’unico sussulto della regia di Arcuri, insieme al palco girevole che consente varie soluzioni e cambi di scena, e rende lo spettacolo dinamico e in fondo grazioso.

Meglio l’anticommedia La cantatrice calva, fosse solo per il fatto di essere l’opera più rappresentativa di quel cataro malefico delle pseudopovertà borghesi che era Ionesco. La scena qui è soltanto il riflesso di un mondo interiore frantumato e disperato. Personaggi, parole e situazioni sono inspiegabili. Ecco i dialoghi vuoti, i monologhi inconcludenti, la rinuncia a interrogarsi sulle finalità della vita.

L’operazione del regista Marco Rampoldi è arguta. Della serie: studi il testo, definisci i personaggi, recuperi sulla giostra mediatica di Zelig i primi cabarettisti che fanno alla bisogna, e il gioco è fatto. Ed ecco tre primedonne del palcoscenico (Leonardo Manera, Diego Parassole e Max Pisu) più tre attrici d’impatto scenico e di buona scuola teatrale (Marta Marangoni, Stefania Pepe, Roberta Petrozzi). Il tutto è ben assortito in un colorato interno borghese intriso d’arte astratta contemporanea, con divano, poltrona, libreria. Ecco una pendola, le cui ore corrono come minuti, i minuti come i secondi. Giusto per schernire le unità aristoteliche di tempo e azione, e ogni pretesa normalità. È un mondo capovolto: come il giornale tra le mani di Manera: come il cruciverba sul giornale, dove definizioni e soluzioni s’invertono e s’accavallano.

Si dice tutto e il contrario di tutto. La verità? Sta nel mezzo. Dove? In nessun luogo.

Una buona prova corale. Gli attori sono professionisti e si vede. Sono disinvolti, ognuno calato nel proprio personaggio. Ognuno riproduce se stesso, come l’abbiamo visto cento volte a teatro, mille altre in tv: gli occhi allampanati di Manera, quelli strabuzzati da uccello spennacchiato di Parassole, quelli da pesce lesso di Max Pisu.

Nessuno si schioda: lo voleva il regista, faceva comodo agli attori, se lo aspettava il pubblico. Che corre in massa, con tanto di repliche straordinarie, sold out, e applausi. Va bene così.

Uno spettacolo dove Pisu non è Pisu, Manera non è Manera e Parassole non è Parassole? La prossima volta. Forse.

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Teatro fuori dal teatro: La Batracomiomachia sui campi di calcio

Preparativi per la punizioneEMILIANA IACOVELLI | “La stima è come un fiore che, pestato una volta o gravemente appassito, mai più non ritorna” lo ha scritto Leopardi e lo ha ribadito più volte Vierchowod quindi è vero.
Il confronto con la guerra delle rane e dei topi potrebbe sembrare quanto meno ardito. In realtà lo è soltanto per la durata della contesa e non per l’acrimonia dello scontro. Per trovare l’origine della diatriba che sta occupando la stampa specializzata e non solo tra i due Mister Fabio Capello e Antonio Conte, celebri allenatori di calcio, occorre andare a ritroso nel tempo e, precisamente, all’anno del Signore 2004.
Antonio Conte calca ancora i campi verdi e non in cerca di margherite, Capello è già un allenatore affermato e subentra a Lippi alla guida tecnica della Juventus. Il bell’Antonio è in scadenza di contratto e aspetta il rinnovo per un’altra stagione: farebbe lo straordinario, non retribuito, raccattando i palloni dopo gli allenamenti e, all’occorrenza, darebbe una ramazzata negli spogliatoi, ma l’accordo salta per volere di Capello. Il povero Conte, disoccupato, è costretto a rilanciare: oltre allo straordinario offrirebbe un efficientissimo servizio lavanderia in cambio di un posticino nello staff. Anche questa volta Capello dice no.
Dieci anni dopo, i protagonisti sono sempre gli stessi. Capello, allenatore della Nazionale russa, mentre sorseggia un tè e vi intinge una piccola madelaine, si ricorda di avere una missione nella vita: mettere il bastone fra le ruote e – non solo – al suo Conte, rispondendo alla domanda più intelligente mai posta nella storia dell’umanità dopo quella se sia nato prima l’uovo o la gallina: “Cosa pensa della decisione di Conte di revocare il lunedì di riposo ai suoi giocatori, dopo il pareggio con il Verona?”
Inizia un’estenuante sequenza di botta e risposta. Entra in campo il più grande di tutti (in tema di tinture di capelli color ocra tramonto nel deserto), il Trapattoni nazionale, il vero valorizzatore dell’antica lingua babilonese: “A ridosso del rettilineo sorridere è difficile. Anche io, in questi momenti, andavo ai 320 all’ora. Un fatto umiliante e deprecabile!”
Il tecnico salentino, effervescente come un metronotte dopo un turno di lavoro, per offendere il suo antagonista gli dice che del suo periodo alla Juventus ricorda due scudetti revocati, salvo poi accorgersi che si tratta della squadra di cui è attualmente allenatore: i posteri non lo ricorderanno come allenatore aziendalista e dovrà sperare che i tifosi non lo riconosceranno mai per strada.
Si sa, uno quando è nervoso dice cose che non pensa o pensa cose che non dice. Anche qui , come in ogni Batracomiomachia degna di questo nome, ecco un intervento soprannaturale e dirimente. Pesante come un macigno (sul corretto utilizzo della lingua italiana), da un’emittente televisiva locale giunge un’entrata a gamba tesa. Una formosa ed esultante conduttrice annuncia: “C’è astice nell’aria!”

Equilibrio Festival: la sensuale danza dell’immagine di sé

k5BRUNA MONACO | Eccoci arrivati al decennale di Equilibrio Festival della nuova danza. Sidi Larbi Cherkaoui, direttore artistico ormai da cinque anni, propone per quest’anno un’edizione più composita, forse meno brillante del solito, ma sicuramente gli spettacoli interessanti non mancano. C’è Asobi, per esempio, di Kaori Ito, oggi danzatrice della compagnia belga Ballet C de la B diretta da Alain Platel. L’avevamo già vista in scena proprio nell’eccellente e sconcertante Out of context di Platel, nel corso del FestiVAl di Villa Adriana del 2011 (che fu purtroppo l’ultima edizione). Oggi a Equilibrio la trentacinquenne giapponese porta invece uno spettacolo di cui, oltre che danzatrice, è regista e coreografa.

In un’ampia parete di plastica posta in mezzo alla scena si specchia il pubblico in sala. Una quarta parete che riflette anziché separare e pone lo spettatore nella situazione che vive quotidianamente il performer: sotto osservazione, messo a nudo dagli sguardi. Kaori Ito, Csaba Varga, Jann Gallois e Péter Juhász sfilano davanti allo specchio, vestiti di tutto punto. Ma a ogni passaggio perdono un pezzo d’abito fino a lasciare nudo un lato del corpo, e ancora coperta l’altra metà. Nel contempo nudi e vestiti, i danzatori vogliono farsi simbolo di una condizione, quella che viviamo nella società dell’immagine: sempre attenti a rimandare agli altri l’immagine di noi che preferiamo, o che crediamo preferibile, sempre più artificiale e distante dell’autentico “noi”. Il tema dello sguardo dell’altro e della percezione di sé è al centro dello spettacolo: gli interpreti si esibiscono in pose standard, da foto d’adolescenti su facebook, da selfie. Pose esasperate fino ad essere irriconoscibili, ripetute e distorte a un ritmo incalzante, come fossero/fossimo automi, specializzati nella riproduzione in serie di false raffigurazioni di noi stessi.

Ma Asobi è anche altro. In giapponese il termine Asobi indica i giochi erotici degli adulti, degli uomini soprattutto. Kaori Ito li vuole mostrare e ribaltare: sono le due donne in scena a dirigere i giochi a essere determinanti nella scelta dell’immagine che di sé daranno i due uomini. Ma il rovesciamento dei ruoli sarà continuo, in un incessante susseguirsi di figure di danza da kamasutra, di atti sessuali che scivolano dallo stupro all’atto d’amore.

Tanti i temi abbordati e i riferimenti. Probabilmente troppi e troppo articolati per uno spettacolo di danza in cui tutto è affidato al gesto e all’espressività degli interpreti e della coreografia. Kaori Ito non contamina la sua danza, la voce “drammaturgia” non figura fra i crediti dello spettacolo, diversamente da ciò che accade, invece, in spettacoli complessi, più riusciti e semanticamente stratificati come per esempio l’Out of context di Platel.

Ciò che trionfa nello spettacolo, ciò che lo spettatore si porterà a casa e conserverà nella memoria, sono soprattutto le coreografie ritmate e incalzanti,  simmetriche ma scomposte. I movimenti inquieti e inquietanti, vibranti, dei corpi dei danzatori. E un’ironia agghiacciante, straziante quasi. Una comicità nervosa che ricorda un certo cinema muto con i suoi bruschi ed efficaci passaggi dal pianto al riso, dal buffo al tragico.

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AUT aut: la scelta di Impastato a teatro

UnknownRENZO FRANCABANDERA – ELENA SCOLARI | ES: Hai capito che bel Peppino Impastato abbiamo visto? E fammi dire, per una volta, qualcosa di superficiale! Proprio un bell’attore Stefano Annoni. Eravamo in prima fila, l’ho visto bene. E siccome è pure piuttosto bravo sono già contenta. Ti spiace?
RF: No no, figuriamoci. Ho visto che la storia, il dramma dell’uomo Impastato, ti ha soggiogato. Ho visto con quanta attenzione lo guardavi recitare. Di fronte e di schiena… Mai voltare le spalle alla legalità!
ES: Il rischio della retorica quando si parla di mafia è sempre in agguato, ma mi pare che stavolta l’abbiano ben aggirato. Impastato era un coraggioso sfacciato e in teatro il personaggio ne guadagna.
RF: Stiamo parlando di AUT – un viaggio con Peppino Impastato, produzione ArteVOX e Linguaggicreativi, spettacolo ispirato e di fatto per larga parte ricavato dagli scritti di Impastato, progetto di Stefano Annoni, Marta Galli, Roberto Rampi e Paolo Trotti, interpretato dal primo con la regia dell’ultimo.
ES: La regia che appunto sceglie di far raccontare la sua vita a lui medesimo, come se la vedesse scorrere dal finestrino di un treno, idea che ci piace, anche per il tu-tum ripetuto delle rotaie: un ritmo ferroviario “accelerato” per un’esistenza che va di corsa. E finisce per schiantarsi.
RF: Bello e dannato. Tipo James Dean. Che un po’ l’attore ricorda…E poi qualche espediente scenico con il gioco delle ombre, tra l’altro bello deciso, con immagini e parole che difficilmente 25 anni fa sarebbero state ospitate in un teatro di chiesa come quello che ospita la replica, il Teatro Arca con la collaborazione artistica del Teatro della Cooperativa. Potenza bergogliesca? O forza cooperativa? Comunque sia una bella prova di ecumenismo. La chiesa di oggi sta davanti. A certa bacchettonaggine sicuramente.
ES: Personalmente avrei preferito un minor uso di ammennicoli di richiamo circense e western, che mi hanno ricordato un po’ il look di Rino Gaetano e un po’ le parodie facili… Non tanto per il circo o il western in sé, ma perché credo che una delle due metafore sarebbe stata sufficiente per descrivere il paesello Cinisi e le sue gerarchie di potere criminale.
Molto va letto in chiave simbolica, come direbbe un buon critico: Annoni ha imparato anche un buon accento siciliano e ci cala credibilmente in un territorio dove le faide si combattono anche nelle vie centrali del paese, quelle lunghe strade con il saloon dove ci si sfida, il bordello dove si balla e ci si può anche innamorare, e la piazza per i duelli. Arroganze ed eroismi. Manca il mare. Quello nel west non c’è.
RF: LO specifico scenico dello spettacolo, quello che la regia aggiunge alla parola di Impastato, è di fatto un impianto di narrazione dove qui e lì scorrono apprezzabili idee per dare ritmo, idee nel complesso positive e ben pensate, mai lunghe e in generale non pretenziose. La drammaturgia rispetta Impastato, il suo percorso di vita.
ES: Dobbiamo dire qualcosa della radio di Impastato, non credi? Eh, sta pure nel titolo dello spettacolo. Radio AUT come autonomia, dice il testo, ma anche come AUTentico strumento di libertà, una voce OUT nel senso di fuori dal coro, ecco, forse la centralità della radio come scelta di lotta da parte di Peppino e dei suoi poteva essere ancora più presente, cosa ne pensi?
RF: Non so, per un verso l’avrei capito, ma sarebbe stato anche scontato. Così è un’altra storia, ed è giusto fosse così. Anche perché di fatto racconta anche in maniera un po’ onirica, nulla è schiacciato sul meramente cronachistico. Devo dire, ero un po’ prevenuto e invece mi sono dovuto nel complesso ricredere. Niente rivoluzioni, sia chiaro, ma un pulito lavoro di artigianato affidato ad un interprete con la faccia del ragazzino, ma all’altezza.
ES: Io la cronaca degli avvenimenti l’ho seguita abbastanza bene, mi è sembrata ben montata. Fino alla fine. Che per me doveva arrivare con la bella descrizione dell’esplosione fatta direttamente da Impastato, la vittima, che descrive – con la sordina – la sua morte “col botto”. Sai che io ho un po’ la mania dei finali ad effetto.
E invece la vocetta fuori campo del bambino che ci dice che cos’è un atteggiamento mafioso a scuola, no, nun ce la dovevano mette!
L’ultima battuta “E’ tutto, gente” con la pioggia di coriandoli dal cilindro? Un peccato.
RF: D’accordo al mille per cento. Mi è crollato mezzo gusto. Doveva finire cruda. Com’era, com’è stata. Senza intenti finto pedagogici e conigli dai cilindri che alla fine non escono. Il vero coniglio, giocato peraltro benissimo in quelle parole finali era l’esplosione. Lì lo spettacolo raggiunge il massimo. Dopo il piacere, il resto sono inutili chiacchiere. Meglio il silenzio. E il calore, o il freddo, delle grandi emozioni.
ES: E noi come finiamo? Al ristorante giappo per chiudere la serata nippo-sicula?
RF: Guarda, facciamo che se non vogliamo i finali posticci degli altri non ne mettiamo neanche noi negli articoli. Dove andiamo a mangiare, in fondo, sono fatti nostri. Andate a vedere questo spettacolo, se e quando vi capita.

C’era una volta un re: Facchetti e la follia del potere

facchettiVINCENZO SARDELLI | «Triste è quell’allievo che non supera il maestro», diceva Leonardo da Vinci. In C’era una volta un re, di scena al Teatro Leonardo di Milano fino al 23 febbraio, non si può dire che l’allievo Gianfelice Facchetti abbia superato il suo insegnante di teatro Claudio Orlandini. Però sorprende la capacità di entrambi di prestarsi al ribaltamento di ruoli, con Facchetti regista e Orlandini efficace protagonista in scena. Un gioco portato alle estreme conseguenze. Perché Orlandini da regista è solito muovere gli attori come trottole impazzite: predilige una recitazione convulsa, a tratti schizofrenica. Invece qui, da attore, è ingessato e introspettivo. E si lascia dirigere senza interferire. Paradossi della scena. E anche dei ruoli in scena. Perché proprio la schizofrenia è la condizione esistenziale del suo personaggio, Giorgio III d’Inghilterra. Dichiarato pazzo irreversibile nel 1811, rinchiuso nel castello di Windsor gli ultimi anni di vita, re Giorgio, ormai cieco, sordo, affetto dai reumatismi, alcune settimane prima di morire fu capace di parlare in maniera sconclusionata per 58 ore di fila. In questa messinscena, però, a colpire sono i suoi silenzi, il suo impaccio comunicativo. Lo stallo dei suoi pensieri, che tuttavia interroga il pubblico. Paradossi, appunto.

C’era una volta un re mette in luce il contrasto tra la corte, dove il sovrano è riverito e temuto, la debolezza dell’uomo malato e il mondo della politica, dominato dai cerimoniali pomposi e convenzioni rigide. La salute del re è al centro di giochi perversi. Alla famiglia reale, di fatto esautorata, resta il dovere di salvare l’etichetta. Il bizzoso sovrano, in fondo tenero nelle sue manie, è strumentalizzato da chi, dietro le quinte, complotta per alterare gli equilibri della nazione. Il burattinaio è l’insolente medico di corte (Pietro De Pascalis) supportato da due servitori muti (Umberto Banti e Luca Ramella).

Il passaggio dai fasti al delirio è reso da una scenografia semplice (di Vittoria Papaleo) prima di drappi e veli, poi di materassi che creano una parete-muro di gomma. Luci monocrome (di Claudio Intropido) ritraggono un’umanità disanimata, ipocrita e abietta.

Con musiche che spaziano dai Pink Floyd a Jimmy Fontana, da Tom Waits al Requiem di Mozart, lo spettacolo evidenzia la pericolosa contiguità fra potere e follia. Il potere logora, chi ce l’ha e chi non ce l’ha.

La forma dell’apologo fa riflettere sulla nostra realtà politica, sulla coltre di nebbia che tiene il popolo a distanza debita: pochi eroi, tante vittime, una folla d’ombre.

Ma la rottura dell’illusione scenica messa in atto da Facchetti va oltre. L’intreccio tra finzione e realtà diventa gioco metateatrale. Incrocia il presente. Apre lampi in direzione del passato. Gli attori si spogliano dei personaggi, scavano alle proprie radici, in una confessione che sa di outing e psicoterapia. Riaffiorano ricordi, schegge di vita vissuta, anche crudeli. E non finisce qui. Perché l’operazione rimbalza sul pubblico, con dei volontari che salgono sul palco a raccontarsi a propria volta.

Gli ingranaggi di questa sequenza finale dello spettacolo vanno oliati, ma l’idea è buona: riflettere su noi stessi, sul nostro impatto con il potere, sia quando l’abbiamo subito, sia quando l’abbiamo esercitato. Misurarci con il nostro passato. A costo d’imbatterci in qualche spettro, per elaborarlo.

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