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sabato, Maggio 10, 2025
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Il Caligola di Micol nel centenario di Albert Camus

caligolaVINCENZO SARDELLI | Il rapporto tra uomo, potere e immaginazione. Il delirio di chi, dal potere, si lascia corrodere. C’è la forza sublime del male e della violenza nel Caligola di Albert Camus che la compagnia Teatro Zeta dell’Aquila ha portato in scena al Binario 7 di Monza con la regia di Pino Micol. C’è il bisogno d’amore, sublime e angosciante più della violenza.
È un testo che contagia questo Caligola. Vogliamo soffermarci su Camus, sulla sua poetica intrisa di venature filosofiche. È il nostro modo di ricordarlo, a cent’anni dalla nascita.
Caligola, dunque.
Parigi 1941. Tempesta atmosferica e deflagrazione bellica. Lampi, tuoni, pioggia battente, fulmini; granate, spari, rinculi d’arma da fuoco. Sono laceranti le luci e i suoni di contorno alla scena, cui fanno da contrappunto le musiche lievi originali di Massimo Bizzarri, arie sacre d’organo e gorgheggi.
Siamo dentro un teatro. Una compagnia rappresenta la pièce, in una scenografia dal carattere domestico. L’arte è antidoto all’arroganza sanguinaria di Hitler.
Doppio binario, insomma: da una parte la guerra presente, la follia di Hitler, la Francia occupata dalle truppe tedesche; dall’altra una storia del passato rappresentata su un palcoscenico, che del presente diventa metafora e chiave di lettura.
In questo Caligola, Camus scandaglia la figura del tiranno in lotta contro i senatori, l’uomo affranto per la morte della sorella e amante Drusilla. Sono le alte passioni, l’ambiguità di chi si rimette la maschera e torna ad amare, la considerazione di quanto sia effimera la felicità, per il sovrano come per l’uomo comune.
Di fronte all’irrazionalità della vita, Caligola impone il gioco dell’assurdo. Nell’arbitrio sfrenato moltiplica crimini e misfatti, in un orizzonte indefinito tra il bene e il male.
La forza di questo dramma sta nella bellezza del testo, nell’intreccio tra poesia, sogno e azione. Tutto è alla mercé del caso. L’amore stesso è relativo, s’infila nella variabile tempo/morte.
La parola trafigge la ragione. Il senso dell’assurdo affiora continuamente. L’eloquio di Caligola si caratterizza per una serie di domande aperte che definiscono la complessità del personaggio. È quasi un’autolegittimazione: per quest’uomo si prova compassione, non disprezzo.
La morte, potenza divina e rivelatrice, attende Caligola, e prima ancora la sua amante Cesonia, che sprofonda nell’impotenza. Caligola, al termine di un avvincente climax di follia, riscatta con una morte coraggiosa una vita sciagurata.
La regia di Micol esalta la forza di questo dramma: movimenti da animali feriti e brancolanti, pose statuarie, nascondimenti. Ogni movimento ha un’anima. Tutto è rigore, classicità lontana da derive accademiche.
Micol riduce i dettagli descrittivi concentrandosi sui volti e sulle emozioni dei personaggi, in una serrata sequenza di ombre e di luci, senza esibizione. Con atmosfere tra Caravaggio, Reni e Hayez, con illuminazioni da espressionismo cinematografico tedesco, anche noi finiamo in scena, testimoni dei fatti narrati. Questa immediatezza, la volontà di rompere lo schermo che separa l’arte dalla vita, è forse l’aspetto più forte dello spettacolo. Micol rispetta Camus, stringe la scena intorno alle figure e agli oggetti essenziali, si concentra sull’immutabilità delle passioni, rompe le variabili spazio/tempo.
Angoscia e tenerezza, sacrificio e peccato, orrore e bellezza: Caligola colpisce perché parla di noi. Agisce nel presente come i miti classici, le terzine di Dante, i personaggi di Shakespeare.
Buona la prova di tutti gli attori (Massimiliano Cutrera, Ezio Budini, Gabriele Anagni, Nicola Ciccariello, Andrea Palladino, Valerio Giordano). Con Manuele Morgese-Caligola istrionico, capace di esprimere l’attimo, le smorfie subitanee dell’imperatore, ai cui deliri dà voce, corpo e occhi. E una Maria Letizia Gorga-Cesonia le cui pose vanno dall’espressività tranquilla di Cleopatra alla drammaticità della Maddalena, con incursioni canore nella lirica.

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Lasciatemi cantare: Fabio Volo e la pagina culturale sul Corriere

Fabio VoloEMANUELE TIRELLI | Toto Cutugno ha partecipato a quindici edizioni del Festival di Sanremo e ha vinto solo una volta, nel 1980, con Solo noi. Toto Cutugno ha scritto Soli per Celentano, Io amo per Fausto Leali, Noi ragazzi di oggi per Luis Miguel e molti altri brani conosciuti, popolari e vere hit per decenni interi, con e senza il suo amico paroliere Popi Minellono. Toto Cutugno è anche quello che ha scritto, e interpretato perché Celentano non se la sentiva, la canzone L’italiano. Insomma, lo possiamo prendere serenamente in giro, ma è uno dei personaggi più nazionalpopolari e rappresentativi della musica leggera italiana di una ventina d’anni.
Fabio Volo, invece, domenica 17 novembre esce per la prima volta in vita sua sulle pagine de La Lettura del Corriere della Sera. Lui stesso, pochi giorni prima, annuncia con un tweet: “Consegnato ora il mio primo articolo per la pagina della cultura de il corriere della sera. Esce domenica. Sono contento”.
Fabio Volo attore, presentatore televisivo, conduttore radiofonico, ex panettiere (lo dice sempre lui) e autore di sei libri per Mondadori. L’ultimo in ordine cronologico è recentissimo ed è già un successo di vendite. Le sue caratteristiche principali sono la scorrevolezza, la semplicità di narrazione e il racconto costante di vicende e stati d’animo che più o meno fanno parte della vita di tutti, o quantomeno di molti. Sicché è un attimo avvicinarsi a lui o che lui si avvicini a noi. Ed è altrettanto un attimo pensare “Anche io. L’ho pensato anche io. È successo anche a me”. Fabio Volo è comprensibile, racconta le cose semplicemente e non c’è bisogno di sforzarsi per capire cosa ci stia dicendo. Che non è un male, sia chiaro.
Nell’articolo a pagina 19 dell’inserto domenicale de Il Corriere della Sera parla ai lettori della sua scrittura, del perché scrive e forse si difende un po’, perché ragiona su una polemica che riguarda anche lui, anche se forse non lo dice esplicitamente. “Poi, quando torno in Italia, ripiombo nell’eterno mistero per cui un libro debba essere valutato con lo stesso metro con cui si giudica Dostoevskji: l’eterno mistero per cui si è obbligati a scegliere tra Checco Zalone o La vita di Adele come se non si potesse vederli entrambi senza esserne per forza contaminati. Mentre noi dobbiamo ancora fare pace con l’«intrattenimento», il mondo si chiede se il libro sia ancora la migliore forma di «letteratura»…”.
Toto CutugnoAdesso, non è che qui su PaneAcqua si dice che Fabio Volo non sappia scrivere in italiano e che non sia in grado di scrivere. Anzi. A farlo lo sa fare. E nemmeno che non faccia cultura. Probabilmente è un tipo di cultura diversa da quella che intendono alcune persone affezionate a questa parola. Un po’ come se al ristorante chiedete un cucchiaio per il brodo e vi portano una forchetta. Servono entrambi per mangiare, ma hanno qualche sensibile differenza. Comunque qui il discorso è un altro. Qui stiamo dicendo che quando Toto Cutugno nelle sue quindici presenze al Festival di Sanremo è arrivato primo una sola volta, gli è capitato di piazzarsi dietro, per esempio, Perdere l’amore di Massimo Ranieri, Uomini soli dei Pooh e Si può dare di più di Ruggeri-Morandi-Tozzi. Certo, una volta gli è capitato anche di arrivare dietro una giovane e perfetta sconosciuta chiamata Tiziana Rivale di cui nessuno ricorda il nome e la canzone. Ma è il Festival di Sanremo, una kermesse nazionalpopolare. Non parliamo mica del Premio Tenco assegnato a Bruno Lauzi, Franco Battiato, Charles Trenet, Tom Waits. È un’altra cosa. È davvero tutto un altro premio, un’altra manifestazione con presupposti e inclinazioni differenti.
Scusate.
Aspettate.
Aspettate un attimo.
Mi dicono che nel 2011 Luciano Ligabue ha vinto il Premio Tenco. E in virtù di questa informazione bisogna ritrattare. Perché se Luciano Ligabue può vincere il Tenco allora anche Fabio Volo o chi per lui può scrivere sulle pagine di cultura della domenica del Corriere della Sera. Resta ancora l’inserto del Sole24Ore. Forse ancora per poco.
Scusate
Scusate ancora un attimo.
Mi fanno notare che con quel suo “dobbiamo ancora fare pace con l’intrattenimento”, Fabio Volo abbia forse voluto inserire se stesso, e non solo, in questa categoria. Rispettabilissima categoria. Guai se non ci fosse l’intrattenimento. Saremmo tutti dei musoni incarogniti e gonfi di noia. Ma allora perché l’inserto La Lettura. Perché il suo stesso tweet “Consegnato ora il mio primo articolo per la pagina della cultura”. Forse c’è un po’ di confusione. Forse è davvero solo colpa della confusione. Molta confusione. Sì, ma Ligabue ha vinto il Premio Tenco.

Un link video, giusto per…

L’Histoire de Manon alla Scala

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Svetlana Zakharova – Roberto Bolle – ph Brescia e Amisano Teatro alla Scala

ANTONELLA POLI | Corruzione di costumi e desiderio di affermazione sociale, niente di nuovo in scena si penserebbe, come d’altronde non si potrebbe immaginare che questi due temi erano al centro del settecentesco romanzo dell’Abbé Prevost  che ci fa entrare nella Parigi de la Régence ove la borghesia cede ai facili costumi. Allora fece scandalo, fu censurato due volte anche se la storia della giovane Manon é una tragedia d’amore che ha il suo triste fine proprio perché vincitori ne escono l’amore e i sentimenti.

Non a caso Maupassant scrive : « Dans cette œuvre, si pleine de charmes et de perfidie instinctive, l’écrivain semble avoir concrétisé tout ce qui est le plus plaisant, le plus alléchant, et le plus infâme, de la créature féminine ! Manon est entièrement, complètement femme, comme elle l’a toujours été, comme elle l’est et comme elle le sera toujours. »

Sintesi perfetta questa dello scrittore francese che con questa citazione mette in evidenza tutte le qualità della protagonista elevandola a prototipo della figura femminile.

L’opera assume cosí una valenza più universale, alcuni potrebbero interpretare quest’idea come segno di antifemminismo e darle un significato negativo. Ció che va evidenziato invece é soprattutto il merito dell’Abbé Prevost per aver creato questo romanzo i cui personaggi incarnano i vizi sociali e sono descritti con un’acutezza psicologica profonda capace di restituire al lettore forti emozioni.

Nel 1974 il coreografo Kenneth Macmillan trae spunto da quest’opera  per crearne un balletto in tre atti che é stato in scena al teatro alla Scala  fino al 15 novembre con la presenza delle étoiles Svetlana Zakharova, Natalia Osipova, Roberto Bolle et il primo ballerino, giovane talento scaligero, Claudio Coviello.

Personaggi centrali del balletto sono Manon, Des Grieux e Lescault, vero artefice dell’intreccio. La coreografia é innovativa considerando che si tratta di un balletto di quarant’anni fa, ricca di passaggi complessi soprattutto nei pas des deux e che richiede anche una grande forza interpretativa da parte degli artisti. I momenti centrali sono costituiti dalla variazione di Des Grieux et dal pas des deux del primo atto ove gli amanti iniziano a dichiararsi il loro amore; una variazione in cui Manon mostra tutta la sua avidità per il lusso e ancora un pas des deux « languido » ove Des Grieux cerca di « addolcire e far cambiare vita » a Manon nel secondo atto e infine nel terzo atto, il pas des deux ove sensualità, tenerezza, amore e morte s’intrecciano per un finale oscuro e tragico.

Da non dimenticare anche le parti danzate, ed é il caso di dirle recitate, di Lescault. Verrebbe da dire che é lui il vero artefice della storia, il suo ruolo é centrale dato che la storia comincia proprio con la promessa di Lescault a un nobile per « cedergli » sua sorella Manon. Il suo comportamento si giustifica con le parole dello stesso Macmillan che afferma : « La chiave della sua condotta si trova, io credo, nelle sue origini: una famiglia dignitosa, sicuramente, ma modesta e ben presto ridotta alla povertà in quel XVIII secolo dove le fortune si creano e si disfano con la rapidità di un temporale. Ebbene, nella miseria, si finisce per perdere tutta la dignità. E Manon ha talmente paura della miseria! Meno della paura della povertà stessa che della vergogna di essere povera ».

Il primo cast in scena vedeva la coppia Zakharova- Bolle nei ruoli di Manon e di Des Grieux, il primo ballerino Sutera in Lescault e Alessandra Montanari nell’amante di quest’ultimo. Le due étoiles, già grazie alla loro esperienza e all’affiattamento oramai consolidato hanno impressionato ma sono mancati a volte un po’sul piano del pathos. Antonino Sutera poteva essere più scaltro, mostrarsi più maligno nella sua interpretazione cosí come anche Alessandra Montanari più viziosa nel ruolo di amante. Nel pas des deux finale la Manon ormai allo stremo (Zakharova) é trascinata sulle spalle del suo Des Grieux, sul suo volto e dal suo corpo emana un sentimento di morte reale.

l'histoire de Manon - Svetlana Zakharova - Roberto Bolle - ph Brescia e Amisano Teatro alla Scala K61A2286 b XVedendo il secondo cast in scena si ha l’impressione di vedere un altro spettacolo. Natalia Osipova (Manon), é molto espressiva, e il ventunenne Claudio Coviello (Des Grieux), comunicano più tra loro mostrando un’intesa perfetta. Il giovane, nononostante l’età, appare già maturo per un ruolo cosí importante e quello che colpisce é proprio il suo amore per la « vita ». Nel pas des deux finale, attraverso i suoi sguardi e i movimenti delle sue braccia cerca di ridare vita a Manon oramai febbricitante e morente. Certamente lavorare con Natalia Osipova ha costituito per lui un arricchimento professionale, facendo notare dei progressi anche rispetto al Lago dei Cigni del luglio scorso ove interpretava il principe Sigfrid. Nota di merito a Mick Zeni, nei panni di Lescault, che ha saputo in maniera magistrale condurre l’intreccio con le sue doti teatrali e alla sua amante maliziosa  Alessandra Vassallo.

Da non dimenticare la musica costituita da brani di Massenet, alcuni tra questi tratti da Le Cid e da Thaïs, Don Quichotte, Cleopatra, Ariane a Cenerentola, riarrangiati da Leighton Lucas su domanda dello stesso MacMillan e che il coreografo ha utilizzato come ottima fonte di ispirazione dato che questo balletto si rivela ed é amato anche per la grande omogeneità tra musica e danza.

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Ci vediamo all’uscita #2 – un’Elena tragica, rinchiusa in provincia

elena_elfoFRANCABANDERA & ZAZIE | Freddina e umidosa Milano in queste prime piogge. Usciamo dall’Elfo dopo Elena, Tragedia lirica sulla deriva del mito di Maddalena Mazzocut-Mis con la regia di Alessia Gennari. Due donne fra tradimenti, famiglie, uomini, figli. La scena divisa in due, davanti le due attrici, dietro un velo scuro trasparente i membri dell’Ensemble vocale Calycanthus diretto dal M° Pietro Ferrario. Le due donne sono Elena Russo Arman (che interpreta una moderna Elena (Bovary), moglie e madre, insoddisfatta dalla provincia e che cerca in un altro uomo il brivido del vivere) e Sara Urban (la tradita, che accudisce un figlio malato). Gli uomini non compaiono, sono giacche, i bambini hanno sembiante di pupazzi di stoffa. Il coro intervalla il recitato in prosa.

R.F: Rieccoci. ti trovo sempre all’uscita, mai una volta che ci si accordi prima…Allora? Che mi dici, severa visionaria?
Z: Cherchez la femme! Anzi les femmes, in questo caso. Già perché di chercher les hommes siamo stufe, noi Elene, non è à la page. E quindi appendiamo le giacche maschili al chiodo. Maschi assenti, giacche vuote, che novità…
R.F: A me piaci perchè hai il profumo di quelli che nella Corte d’Onore di Avignone si alzano durante lo spettacolo di Marthaler e vanno via facendo chiasso e battendo i piedi sulle impalcature di ferro. Penso che il teatro debba avere riguardo per chi lo guarda attentamente e anche per chi esprime il suo dissenso. La vera ricchezza. Dimmi allora, così ci confrontiamo.
Z: Non sarà che giacché si parla di miti, il timore che incutono impedisce di dire la propria sincera opinione fuori dai denti accademici? Ultimamente va l’idea di sostenere che Elena sia stata vittima, del fato, delle leggi, della propria bellezza. Sarà forse per questo che lo spettacolo vuole offrirne una nuova interpretazione. Intento non del tutto riuscito, secondo me. Prima di tutto il mix tra Elena, Menelao, Paride con Medea ed Ermione, a me, che sono sbadata, si sa, è sfuggito il senso. Tu che sei colto mi sai spiegare se sbaglio, poi, a trovare inspiegabile il figlio di Medea in dialisi che mangia la pastina?! E l’attualizzazione del mito che passa attraverso una chiave provinciale di corna domestico/casalinghe per la quale Elena l’amante aspetta la sera tardi l’uomo Paride che si liberi della famiglia gabbia mi lascia perplessa.
R.F: Bah, diciamo che è un lavoro in cui si sommano codici diversi. Il coro per esempio mi sembra una ricchezza del richiamo al tragico; sulla drammaturgia penso il richiamo (proprio o improprio) al tragico non sia un problema e, in generale, non sia il vero peccato originale di un testo che in avvio e per ancora un bel po’ ha anche un bel ritmo. Nel seguito, secondo me, si pretende di parlare di troppe cose e troppo grandi, i rapporti fra donne, con gli uomini, la provincia, i figli abbandonati, i nostoi…Tutto in un’oretta e per giunta intervallati dal coro, se non si è Eschilo… Secondo me focalizzandosi su meno questioni, la drammaturgia avrebbe anche potuto approfondire meglio alcune cose e fermarsi lì.
Z: Sempre per sbadataggine non ho tanto capito nemmeno Ermione pupazzo di pezza, mosso dall’attrice con tanto di voce in falsetto, figlia brutta che odia la madre bella.
R.F: la figlia-pupa di pezza mi è parsa non funzionare. Absolutely. Codice distonico con il tentativo di lasciare la scena abbastanza simbolica.
Z: Voglio dire qualcosa anche della regia, crepi l’avarizia! Buono lo spazio secondario, creato dal coro, fisso dietro una garza nera traslucida, a fondo palco, che contrappunta.
R.F: Come l’hai detto bene… Quando fai capire quanta ne sai, mi sento un po’ a disagio. Torna umana.
elena elfo2Z: Sciocco! Non mi far perdere il filo: il coro, stavo dicendo. E’ un elemento fisico e sonoro che dialoga coi personaggi, che invece non parlano mai tra di loro, a beneficio di un’ulteriore fissità, che era però già più che sufficiente. La Russo Arman, che altrove piacque, qui usa un birignao irritante, che se non sei stata Valentina Cortese è meglio lasciar stare, Sara Urban è più discreta ma debole, ed entrambe sembrano ispirate e mosse enfaticamente dalle mani del Fato, ma sono invece lasciate a loro stesse, perse nella scena del cui spazio non mostrano consapevolezza.
R.F: le due interpreti hanno calibri di femminilità diversa, sia nel trasposto drammaturgico che nella loro individualità attorale. Zac! Così parlo difficile anche io! Detto questo anche a me pare che, una volta avuta l’idea che le due non si parlino fra loro, restino incomunicabili e riversino le rispettive angosce sul rapporto filiale, la regia non arriva profondamente ad un’idea capace di dare nella seconda metà dello spettacolo una chiave di volta al lavoro, che infatti si appoggia su una certa fissità di schemi da cui non esce. Che, per carità, è in fondo anche la vicenda di questi soggetti in gabbia nella provincia senza brividi, come dice una battuta chiave in bocca ad Elena, ma il tutto alla fine resta un po’ “in bambola”.
In sostanza la dico così: uno sforzo onesto, di un gruppo di persone evidentemente appassionate, che provano un’operazione dai postulati interessanti e dall’esito non del tutto convincente. Cosa manca? Beh non posso dirlo io. Non è lavoro mio andare a mettere i baffi alla Gioconda. Il nostro è uscire di sala, analizzare quella che c’è, fantasticare e arrabbiarci sui simboli e poi…
Z: …e poi andare a cena. Lo so, lo so, non me lo ricordare. Sei un mitologico deficiente, affamato di cibo più che di cultura.
R.F: Ne vado fiero.

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Ci vediamo all'uscita #2 – un'Elena tragica, rinchiusa in provincia

elena_elfoFRANCABANDERA & ZAZIE | Freddina e umidosa Milano in queste prime piogge. Usciamo dall’Elfo dopo Elena, Tragedia lirica sulla deriva del mito di Maddalena Mazzocut-Mis con la regia di Alessia Gennari. Due donne fra tradimenti, famiglie, uomini, figli. La scena divisa in due, davanti le due attrici, dietro un velo scuro trasparente i membri dell’Ensemble vocale Calycanthus diretto dal M° Pietro Ferrario. Le due donne sono Elena Russo Arman (che interpreta una moderna Elena (Bovary), moglie e madre, insoddisfatta dalla provincia e che cerca in un altro uomo il brivido del vivere) e Sara Urban (la tradita, che accudisce un figlio malato). Gli uomini non compaiono, sono giacche, i bambini hanno sembiante di pupazzi di stoffa. Il coro intervalla il recitato in prosa.

R.F: Rieccoci. ti trovo sempre all’uscita, mai una volta che ci si accordi prima…Allora? Che mi dici, severa visionaria?
Z: Cherchez la femme! Anzi les femmes, in questo caso. Già perché di chercher les hommes siamo stufe, noi Elene, non è à la page. E quindi appendiamo le giacche maschili al chiodo. Maschi assenti, giacche vuote, che novità…
R.F: A me piaci perchè hai il profumo di quelli che nella Corte d’Onore di Avignone si alzano durante lo spettacolo di Marthaler e vanno via facendo chiasso e battendo i piedi sulle impalcature di ferro. Penso che il teatro debba avere riguardo per chi lo guarda attentamente e anche per chi esprime il suo dissenso. La vera ricchezza. Dimmi allora, così ci confrontiamo.
Z: Non sarà che giacché si parla di miti, il timore che incutono impedisce di dire la propria sincera opinione fuori dai denti accademici? Ultimamente va l’idea di sostenere che Elena sia stata vittima, del fato, delle leggi, della propria bellezza. Sarà forse per questo che lo spettacolo vuole offrirne una nuova interpretazione. Intento non del tutto riuscito, secondo me. Prima di tutto il mix tra Elena, Menelao, Paride con Medea ed Ermione, a me, che sono sbadata, si sa, è sfuggito il senso. Tu che sei colto mi sai spiegare se sbaglio, poi, a trovare inspiegabile il figlio di Medea in dialisi che mangia la pastina?! E l’attualizzazione del mito che passa attraverso una chiave provinciale di corna domestico/casalinghe per la quale Elena l’amante aspetta la sera tardi l’uomo Paride che si liberi della famiglia gabbia mi lascia perplessa.
R.F: Bah, diciamo che è un lavoro in cui si sommano codici diversi. Il coro per esempio mi sembra una ricchezza del richiamo al tragico; sulla drammaturgia penso il richiamo (proprio o improprio) al tragico non sia un problema e, in generale, non sia il vero peccato originale di un testo che in avvio e per ancora un bel po’ ha anche un bel ritmo. Nel seguito, secondo me, si pretende di parlare di troppe cose e troppo grandi, i rapporti fra donne, con gli uomini, la provincia, i figli abbandonati, i nostoi…Tutto in un’oretta e per giunta intervallati dal coro, se non si è Eschilo… Secondo me focalizzandosi su meno questioni, la drammaturgia avrebbe anche potuto approfondire meglio alcune cose e fermarsi lì.
Z: Sempre per sbadataggine non ho tanto capito nemmeno Ermione pupazzo di pezza, mosso dall’attrice con tanto di voce in falsetto, figlia brutta che odia la madre bella.
R.F: la figlia-pupa di pezza mi è parsa non funzionare. Absolutely. Codice distonico con il tentativo di lasciare la scena abbastanza simbolica.
Z: Voglio dire qualcosa anche della regia, crepi l’avarizia! Buono lo spazio secondario, creato dal coro, fisso dietro una garza nera traslucida, a fondo palco, che contrappunta.
R.F: Come l’hai detto bene… Quando fai capire quanta ne sai, mi sento un po’ a disagio. Torna umana.
elena elfo2Z: Sciocco! Non mi far perdere il filo: il coro, stavo dicendo. E’ un elemento fisico e sonoro che dialoga coi personaggi, che invece non parlano mai tra di loro, a beneficio di un’ulteriore fissità, che era però già più che sufficiente. La Russo Arman, che altrove piacque, qui usa un birignao irritante, che se non sei stata Valentina Cortese è meglio lasciar stare, Sara Urban è più discreta ma debole, ed entrambe sembrano ispirate e mosse enfaticamente dalle mani del Fato, ma sono invece lasciate a loro stesse, perse nella scena del cui spazio non mostrano consapevolezza.
R.F: le due interpreti hanno calibri di femminilità diversa, sia nel trasposto drammaturgico che nella loro individualità attorale. Zac! Così parlo difficile anche io! Detto questo anche a me pare che, una volta avuta l’idea che le due non si parlino fra loro, restino incomunicabili e riversino le rispettive angosce sul rapporto filiale, la regia non arriva profondamente ad un’idea capace di dare nella seconda metà dello spettacolo una chiave di volta al lavoro, che infatti si appoggia su una certa fissità di schemi da cui non esce. Che, per carità, è in fondo anche la vicenda di questi soggetti in gabbia nella provincia senza brividi, come dice una battuta chiave in bocca ad Elena, ma il tutto alla fine resta un po’ “in bambola”.
In sostanza la dico così: uno sforzo onesto, di un gruppo di persone evidentemente appassionate, che provano un’operazione dai postulati interessanti e dall’esito non del tutto convincente. Cosa manca? Beh non posso dirlo io. Non è lavoro mio andare a mettere i baffi alla Gioconda. Il nostro è uscire di sala, analizzare quella che c’è, fantasticare e arrabbiarci sui simboli e poi…
Z: …e poi andare a cena. Lo so, lo so, non me lo ricordare. Sei un mitologico deficiente, affamato di cibo più che di cultura.
R.F: Ne vado fiero.

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Alessio Pizzech racconta Ufficina Meneghello – l’intervista

locandina-piccola-UfficineMenegheloANDREA CIOMMIENTO | Luigi Meneghello è un outsider della cultura ufficiale, specchio di un’italianità propria e di una scrittura profondamente teatrale. Sì, perché i suoi personaggi parlano con una lingua fatta di accenti e modi di essere appartenenti a una specie-specifica, una razza senza ipocrisia che ha portato a compimento la sua feroce analisi di cosa voglia dire essere veneti e italiani. La sua scrittura racconta storie di personaggi vivi e immaginari costruendo una musicalità letteraria appartenente alla scena, fatta di “punteggiatura dal valore assoluto, come solfeggio della parola”, ci racconta Alessio Pizzech, responsabile del progetto Ufficina Meneghello, ideato dal regista e promosso da otto Comuni dell’Alto Vicentino insieme alla Fondazione Teatro Civico di Schio.

Perchè studiare Meneghello nel 2013?
Attraverso la sua Opera possiamo confrontarci con la nostra contemporaneità, con i problemi di un’Italia che si è trasformata e che forse non ha capito le strade possibili di sviluppo per il futuro.

In che senso?
Oggi l’Italia ha perso dei pezzi di se stessa, del proprio fare comunità e in qualche modo ha perso la memoria per costruire il futuro. Parlare di Meneghello significa raccontare le Carte degli anni Sessanta per cercare di capire da dove veniamo e quali sono stati i passaggi che hanno portato a una crisi morale profonda.

Perché hai scelto le Carte degli anni Sessanta?
Le Carte rappresentano una Ufficina, come lui le chiamava. Sono una sorta di magazzino, di luogo sulla carta, di laboratorio nel quale metteva bozze di romanzi, inizi di ritratti di personaggi, frammenti, idee della sua ricerca letteraria. Non sono un romanzo completo ma una sorta di retrobottega dove sperimentava, metteva aforismi, pensieri e appunti. Mi sono sembrate emblematiche diverse di queste carte, anche quelle degli anni Settanta e Ottanta, ma quelle del Sessanta credo siano le più interessanti per raccontare la fine della società contadina che nasceva nel Veneto, in quel Veneto che stava mutando attraverso un paesaggio umano e urbanistico naturalistico e profondamente in cambiamento. Queste carte nella loro complessità e sinteticità sono una straordinaria cartina di tornasole per leggere il pensiero di Meneghello.

Il progetto apre a una partecipazione ampia e si sta sviluppando insieme ai cittadini e ai ragazzi delle scuole…
Ci siamo uniti. Abbiamo messo insieme i Comuni dell’Alto Vicentino immaginando un’area vasta, un territorio che non sia fatto solamente di singoli Comuni ma piuttosto un insieme di enti locali che si trovano a costituire un’idea di territorio comune. Un’idea progettuale in cui Meneghello diventa il padre spirituale. Abbiamo immaginato con la Fondazione Teatro di Schio un laboratorio itinerante che attraversasse tutti gli ambienti. La mattina con i ragazzi delle scuole e la sera con i cittadini. Sperimentiamo i principi della comunicazione teatrale e allo stesso tempo il fare comunità, come se le Carte fossero un patrimonio condiviso.

Parlate di Meneghello per arrivare altrove…
Esatto, parliamo anche della qualità della vita, della funzione del sapere, della conoscenza dei concetti di libertà. I partecipanti sono spiazzati e allo stesso tempo scoprono l’ironia e la capacità di questa scrittura, la forza pervasiva e persuasiva.

Qual è la reazione dei più anziani?
Quegli scritti hanno a che fare con i loro pensieri, con la capacità preveggente dello scrittore di vedere in anticipo anche i deterioramenti del tessuto sociale. Il sentimento di rabbia nasce quando si confrontano con questo perché non lo hanno ascoltato e perché non è stato ascoltato. E di fatto aveva ragione lui.

Cosa rimane di tutto questo?
Il tema dell’urbanizzazione, del cambio così veloce e non controllato del territorio veneto, la sensazione di un territorio ora ingestibile. Un’accelerazione non più controllabile.

Come proseguirà il percorso?
Stiamo vivendo le esperienze delle diverse tappe fino all’ultima che faremo a Malo, nel paese dello scrittore. Lì tutti i cittadini che hanno partecipato al laboratorio si troveranno insieme a leggere le Carte e a popolare ad alta voce il paese. Una lunga festa di due giorni dove si andranno a recuperare le parole e tutto finirà con una grande comunicazione pubblica fra le varie generazioni che hanno partecipato al progetto. Il 14 e il 15 dicembre saranno due giorni di restituzione e comunicazione comune. Il modo migliore per far entrare le Carte nell’uso comune, nella condivisione di tutti.

Il videoritratto di Luigi Meneghello a cura di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini:

Alessio Pizzech racconta Ufficina Meneghello – l'intervista

locandina-piccola-UfficineMenegheloANDREA CIOMMIENTO | Luigi Meneghello è un outsider della cultura ufficiale, specchio di un’italianità propria e di una scrittura profondamente teatrale. Sì, perché i suoi personaggi parlano con una lingua fatta di accenti e modi di essere appartenenti a una specie-specifica, una razza senza ipocrisia che ha portato a compimento la sua feroce analisi di cosa voglia dire essere veneti e italiani. La sua scrittura racconta storie di personaggi vivi e immaginari costruendo una musicalità letteraria appartenente alla scena, fatta di “punteggiatura dal valore assoluto, come solfeggio della parola”, ci racconta Alessio Pizzech, responsabile del progetto Ufficina Meneghello, ideato dal regista e promosso da otto Comuni dell’Alto Vicentino insieme alla Fondazione Teatro Civico di Schio.

Perchè studiare Meneghello nel 2013?
Attraverso la sua Opera possiamo confrontarci con la nostra contemporaneità, con i problemi di un’Italia che si è trasformata e che forse non ha capito le strade possibili di sviluppo per il futuro.

In che senso?
Oggi l’Italia ha perso dei pezzi di se stessa, del proprio fare comunità e in qualche modo ha perso la memoria per costruire il futuro. Parlare di Meneghello significa raccontare le Carte degli anni Sessanta per cercare di capire da dove veniamo e quali sono stati i passaggi che hanno portato a una crisi morale profonda.

Perché hai scelto le Carte degli anni Sessanta?
Le Carte rappresentano una Ufficina, come lui le chiamava. Sono una sorta di magazzino, di luogo sulla carta, di laboratorio nel quale metteva bozze di romanzi, inizi di ritratti di personaggi, frammenti, idee della sua ricerca letteraria. Non sono un romanzo completo ma una sorta di retrobottega dove sperimentava, metteva aforismi, pensieri e appunti. Mi sono sembrate emblematiche diverse di queste carte, anche quelle degli anni Settanta e Ottanta, ma quelle del Sessanta credo siano le più interessanti per raccontare la fine della società contadina che nasceva nel Veneto, in quel Veneto che stava mutando attraverso un paesaggio umano e urbanistico naturalistico e profondamente in cambiamento. Queste carte nella loro complessità e sinteticità sono una straordinaria cartina di tornasole per leggere il pensiero di Meneghello.

Il progetto apre a una partecipazione ampia e si sta sviluppando insieme ai cittadini e ai ragazzi delle scuole…
Ci siamo uniti. Abbiamo messo insieme i Comuni dell’Alto Vicentino immaginando un’area vasta, un territorio che non sia fatto solamente di singoli Comuni ma piuttosto un insieme di enti locali che si trovano a costituire un’idea di territorio comune. Un’idea progettuale in cui Meneghello diventa il padre spirituale. Abbiamo immaginato con la Fondazione Teatro di Schio un laboratorio itinerante che attraversasse tutti gli ambienti. La mattina con i ragazzi delle scuole e la sera con i cittadini. Sperimentiamo i principi della comunicazione teatrale e allo stesso tempo il fare comunità, come se le Carte fossero un patrimonio condiviso.

Parlate di Meneghello per arrivare altrove…
Esatto, parliamo anche della qualità della vita, della funzione del sapere, della conoscenza dei concetti di libertà. I partecipanti sono spiazzati e allo stesso tempo scoprono l’ironia e la capacità di questa scrittura, la forza pervasiva e persuasiva.

Qual è la reazione dei più anziani?
Quegli scritti hanno a che fare con i loro pensieri, con la capacità preveggente dello scrittore di vedere in anticipo anche i deterioramenti del tessuto sociale. Il sentimento di rabbia nasce quando si confrontano con questo perché non lo hanno ascoltato e perché non è stato ascoltato. E di fatto aveva ragione lui.

Cosa rimane di tutto questo?
Il tema dell’urbanizzazione, del cambio così veloce e non controllato del territorio veneto, la sensazione di un territorio ora ingestibile. Un’accelerazione non più controllabile.

Come proseguirà il percorso?
Stiamo vivendo le esperienze delle diverse tappe fino all’ultima che faremo a Malo, nel paese dello scrittore. Lì tutti i cittadini che hanno partecipato al laboratorio si troveranno insieme a leggere le Carte e a popolare ad alta voce il paese. Una lunga festa di due giorni dove si andranno a recuperare le parole e tutto finirà con una grande comunicazione pubblica fra le varie generazioni che hanno partecipato al progetto. Il 14 e il 15 dicembre saranno due giorni di restituzione e comunicazione comune. Il modo migliore per far entrare le Carte nell’uso comune, nella condivisione di tutti.

Il videoritratto di Luigi Meneghello a cura di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini:

Politicamente scorretti? Anche sul teatro gay

BrugoleVINCENZO SARDELLI | Compartimenti stagni. E ti viene quella faccia un po’ così se vai alla rassegna di teatro “omosessuale” Illecite visioni al Filodrammatici di Milano. Che per me esiste solo “il” teatro. Con la t maiuscola o con la t minuscola. L’arte è una categoria dello spirito. Un universale, alla maniera kantiana. Non a caso Corrado Alvaro si imbestialiva quando gli davano del “meridionalista”.
Le etichette sono limitanti: a un autore “indipendente” provate a pagare bene un lavoro su commissione, e vediamo che cosa resta della sua indipendenza.

E però, riguardo al teatro omosessuale, fai meno il tranchant se pensi a quel 21enne gay che si è tolto la vita giorni fa. La tematica è forte, ha il suo perché. L’opinione pubblica va sensibilizzata.

E però la faccia diventa un po’ così se t’accorgi che il pubblico della rassegna del Filodrammatici è quasi tutto omosessuale. E chissà, gli etero non hanno trovato posto. Magari se ne impipano. E allora, chi sensibilizza chi?

Il timore è che queste rassegne servano soprattutto a fare rito. E anche un poco cassa. L’etichetta gay tira. Adesso si dice LGBT, e sembra il nome di un allucinogeno. Volti sorridenti, voci chiassose: un evento. La Milano tollerante di Pisapia sta sdoganando un’identità gay armonica. Niente derive vintagefolk. Tutto è sobrio in questa serata di sabato 9 novembre, anniversario della Caduta del Muro e della Notte dei Cristalli. La discriminazione ha gli anni contati, i muri pure.

Iniziano gli spettacoli. Oggi sono due. Protagonista del primo è un’attrice lesbica, del secondo un attore gay. E la faccia ritorna un po’ così. Perché al primo spettacolo ci sono quasi solo donne. Solidarietà, appartenenza, curiosità, impegno: belle parole. Della serie “vado, mi diverto e torno. Forse divento più consapevole della mia identità. Mi faccio una risata. E stop. Ma cerco me stessa. Solo me stessa”. In barba a universali e categorie dello spirito.

La simpaticissima Dodi Conti ripropone il divertente cabaret cult Bevabbé: una Saffo stanca di effusioni lesbiche studia da pretty woman e parte all’assalto dell’universo maschile. Ma al cuor non si comanda, agli ormoni neppure. Largo agli stereotipi sui maschi: il “bello e impossibile”, il Peter Pan, l’edipico cronico, il depresso, il “vorrei ma non posso”. Non c’è pace per la povera aspirante etero. E allora riflusso autoreverse all’omosessualità. Però vissuta tra le mura di un convento. Con tanto di facciata vocazionale. Ah, se le pareti delle celle potessero parlare.

Evviva il luogo comune. E ci voleva proprio una rassegna omosessuale. Non bastasse Checco Zalone. Bevabbé: Dodi Conti sa recitare. Fa ridere. S’ispira a Dario Fo e al suo grammelot. E che rassicurante certezza trasmette alle lesbiche in sala: chi lascia la strada vecchia per la nuova… Ah, i proverbi. E la faccia torna un po’ così.

Intervallo con le Brugole, Annagaia Marchioro e Roberta De Stefano. Una personalità artistica sempre più consapevole, quella delle due attrici di scuola Paolo Grassi. Che qui rendono il loro botta e risposta sapido e avvincente. E però ne viene fuori un ritratto dell’universo lesbo proprio da macchietta, se tutte le lesbiche dopo una notte d’amore corrono all’Ikea a far capanna. E si riconoscono dal conto Bancoposta, dalla fregola per il calcio, dall’acconciatura dei capelli impazzita. Lo dicesse un omofobo, apriti cielo. E ancora pubblico tutto femminile.

Lo spettacolo artisticamente più riuscito è Una divina di Palermo, con Massimo Verdastro, che attinge dal tessuto drammaturgico del poeta Nino Gennaro. Maschera da commedia dell’arte, testo intriso di neologismi e giochi di parole, figure retoriche, costruzioni nominali, Verdastro impasta nella sua performance superba motti laidi e parole sublimi, toni disperati e rapide risalite. Sono innumerevoli gli excursus musicali: da Vivaldi, Verdi e Puccini, fino al rock potente di Joplin e Bowie. E che la vera arte è universale, senza confini né etichette, lo confermano i cenni alla pittura di El Greco e di Watteau, i riferimenti colti a Pasolini, Garcia Lorca, Prévert e Baudelaire.

Bel testo sulla solitudine, di fuoco e di sacro. E la nostra faccia rimane definitivamente così. Perché il pubblico, davanti a un attore maschio, è diventato di nuovo quasi tutto maschile. Ma la sala è semivuota, molti gay hanno disertato. Perché i riti del sabato, verso mezzanotte, raramente contemplano il teatro.

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Lo Stretto oltre la scena: formare alla crisi – Scimone Sframeli in videoreport

nunzioVINCENZA DI VITA | “Il teatro non appartiene alla morte. Il teatro è ciò che è vita” dichiara Francesco Sframeli. Una festa a teatro che intenda celebrare la vita deve essere per vocazione un evento corale e condiviso. In questa prospettiva si colloca la presenza inaugurale di Nunzio di Scimone e Sframeli all’interno di “Prima Volta”, rassegna teatrale, a cura dell’Associazione Culturale Querelle, da un progetto di Gigi Spedale, Dario Tomasello e Vincenzo Tripodo, appena sbocciata, ma che già al primo evento ha dichiarato il sold out lo scorso 8 novembre. L’esperienza che proseguirà fino al 27 dicembre, coinvolge una squadra di giovanissimi alle prese con la loro insolita esperienza a teatro: studenti universitari, coinvolti in allestimenti e recensioni, e giovani allievi della “palestra per attori” ActorGym.
Una lingua del corpo che trova la sua collocazione nella consapevolezza civile e intenda vivere deve radicarsi a un territorio inseguendo la necessità di un dialogo forte, anche con gli spettatori da formare. Il laboratorio di critica teatrale, voluto dal Dipartimento di Scienze Cognitive, degli Studi Culturali e della Formazione dell’Università degli Studi di Messina, nasce in contiguità con due recenti incontri: l’assegnazione del Premio Rete Critica, che coinvolge blogger e riviste di critica on line e i Premi della Critica, assegnati dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro. I critici teatrali di queste due realtà, offrono dei momenti seminariali in aula e ospitano recensioni, contributi video, foto e illustrazioni degli studenti mediante un link al sito di Querelle.
PAC, magazine di arte e culture, tra gli aderenti a Rete Critica, offre uno spazio privilegiato perché i giovani critici si mettano in gioco da professionisti, confrontandosi attraverso un dialogo con gli artisti e finalmente aprendosi a un pubblico di lettori. Il video realizzato da Ersilia Calabrò e Lydia Guglielmo raccoglie le immagini e le dichiarazioni degli artisti nel corso della prima giornata dei lavori svoltisi alla Sala Laudamo di Messina.

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Swan Lake: cigni danzanti tra Europa e Africa

DBRUNA MONACO | Cigni starnazzanti e vitali. Questo sembrano i danzatori dello Swan Lake della sudafricana Dada Masilo, che a meno di trent’anni è prima ballerina e coreografa di una versione del classico di Čajkowskij. La Masilo non è un volto nuovo per il Romaeuropa Festival: lo scorso anno danzava in Refuse the hour di William Kentridge, ha  lavorato con coreografi come Gregory Maqoma, si è formata con Teresa De Keersmaeker. Insomma un curriculum d’eccellenza in cui Swan Lake si inserisce come il fiore all’occhiello: non è il suo primo spettacolo da coreografa, ma il più famoso e apprezzato, ancora in tournée dal debutto nel 2010.

Un ricco tutù fa da piumaggio al sedere, e una cresta morbida e bianca completa il disegno di questi cigni, donne e uomini di colore che entrano in scena a passo cadenzato, sulle punte, in rigoroso stile classico. I movimenti sono affettatamente aggraziati, si avverte del disagio in quell’incedere, non c’è naturalezza né verità. Il motivo è presto svelato: arriva una banditrice e ci racconta il balletto classico dal punto di vista di chi “ignora tutto della danza”: le storie sono tutte uguali e di una piattezza sconfortante: nel mucchio di 32 ballerine fanno la loro apparizione 4 o 8 ballerini maschi che si esibiscono in virili grands jetés, ma solo il “top boy” ne farà di così virili da conquistare la “top girl”, chiaramente invidiata e odiata dalle altre 31. Sarà questa l’idea che anche Dada Masilo ha del balletto classico? La parodia è simpatica, diverte il pubblico, anche se è un po’ troppo facile. Per fortuna Swan Lake di Dada Masilo non vuole limitarsi a essere irridente, inizia la parte costruens dello spettacolo, in cui si affrontano, anche se spesso solo en passant, temi sociali, importanti. Temi in parte estranei al pubblico occidentale, come i matrimoni combinati e le stragi dell’AIDS che tormentano il Sudafrica. Altri più universali come l’omofobia: la famiglia dei nostri protagonisti, un maschio e una femmina, si sono accordati sul matrimonio dei figli. Ma il presunto sposo è gay, rifiuta la donna e viene additato da tutti.

Lo Swan Lake di Dada Masilo è quasi un luogo fisico, quello prescelto dalla coreografa per far incontrare due civiltà, sudafricana e occidentale. Civiltà distanti per moltissimi versi e per qualche tratto simili. Per raccontare all’Europa di sé e del suo Paese, la giovane Masilo ha voluto un terreno che fosse il meno neutro possibile, che da subito facesse risaltare le differenze. L’impressione di disagio dell’inizio, l’affettazione dei movimenti non erano solo in funzione del gioco parodico, ma anche gli indizi di un conflitto che stava per scoppiare. Dada Masilo e i suoi danzatori “non stanno nella pelle”, in tutti i sensi, da quello letterale a quelli allegorici. Perché, come sempre nel teatro, sono esseri umani nei panni di altri, di cigni. Perché quei corpi neri stridono in quei tutù “da bianchi”. Perché il ritmo e la vitalità africani esplodono infrangendo i movimenti armonici e flessuosi della danza classica. I palmi dei piedi schiacciano le punte a terra, attratti insieme ai bacini più dalla forza di gravità che dall’elevazione verso l’etereo. Tutto ciò forse non è messo bene a tema in questo Swan Lake in cui spesso predomina una gioiosa confusione che pare non portare a nulla, ma Dada Masilo è un’artista molto giovane, e ha ancora tanti spettacoli davanti a sé.

Cliccando qui potete vedere la versione integrale dello spettacolo.