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mercoledì, Ottobre 9, 2024
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La strampalata lezione di liberismo di Renato Sarti

chicagoboys_SartiVINCENZO SARDELLI | “Chicago Boys”, strampalata conferenza-spettacolo teatrale di e con Renato Sarti, racconta il degrado socio-economico del nostro tempo.
Esalazioni caliginose; un rifugio antiatomico con un brodo di coltura in cui sguazza come un coccodrillo un uomo volgare in palandrana rosso porpora, simbolo del potere; una donna-pantera seminuda (Elena Novoselova) degradata a trastullo sessuale: sono questi gli ingredienti scenici.
Luci rossastre soffuse creano un’atmosfera underground. La colonna sonora è centrata sul sottofondo rock and roll e rhythm and blues di Lou Reed, con qualche escursione nella musica classica e nel jazz.
Sullo sfondo scorrono, proiettate su una coppia di pannelli, dieci lezioni sulla falsa epopea del liberismo. Le immagini mostrate sono filmati di disastri ambientali, sorrisi irriverenti di uomini-caimani, storie passate e recenti di cinismo e violenza. Si parte dalla Prima Guerra Mondiale, si arriva ai giorni nostri. Cent’anni di dissoluzione.
Lo sfruttamento della ricchezza planetaria ad opera di pochi uomini avveduti e senza scrupoli a danno di una moltitudine di sprovveduti: ecco il mondo prefigurato dai Chicago Boys, giovani economisti cileni formatisi all’Università di Chicago nel 1970 circa sotto l’egida di Milton Friedman. Le loro politiche si caratterizzarono per un processo di privatizzazione e di liberalizzazione dell’economia mondiale che avrebbe condotto sì allo sviluppo economico dei paesi occidentali, ma anche ad acuire – denuncia Sarti – i già forti squilibri tra ricchi e poveri.
È un’economia degenerata quella dei “Chicago boys”. Pochi leader della politica e della finanza mirano al profitto sfruttando ogni mezzo, dalla guerra alla catastrofe naturale, dall’asservimento di altri uomini alla menzogna mediatica, fino al ricatto che fa leva sul bisogno di sicurezza.
Come una litania il protagonista, immobile nel proprio delirio di potere, cita gli slogan di questo liberismo selvaggio: “pubblicizzare le perdite e privatizzare i guadagni”, “libera volpe in libero pollaio”. Osserva come le grandi multinazionali abbiano puntato l’attenzione sullo sfruttamento delle materie prime. Intanto ogni giorno muoiono 5000 bambini nel mondo per mancanza di acqua potabile.
Crisi economica e crisi di valori. Ma questo testo è un dramma sulla cattiveria del genere umano, di cui i potenti sono solo un riflesso. Sarti, realista e aggressivo, spalleggiato da una caustica Elena Novoselova, porta in scena sentimenti oscuri e morbosi. Ci indigna.
Lo stile epico e grottesco del testo ribadisce che il teatro può confrontarsi con ogni aspetto della commedia umana. Il racconto-denuncia diventa psicodramma. Sprofonda nel delirante canto finale del protagonista, trasformatosi ormai in assassino.
Le note di Lou Reed sfumano nel punk. È il commento alla sottocultura demoniaca e scioccante esibita in scena. È una sorta di outing, che giudica e condanna i vizi del potere.

CHICAGO BOYS
testo e regia Renato Sarti
con la collaborazione di Bebo Storti
con Renato Sarti e Elena Novoselova
scene e costumi Carlo Sala
video realizzati in collaborazione con Fabio Bettonica e N.A.B.A. – Nuova Accademia di Belle Arti Milano
Il trailer di “Chicago boys”
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=ZhJMJsuLb_s]

La regina degli Elfi

urlELENA SCOLARI | Nella costellazione dei piccoli teatri milanesi segnaliamo una crescita interessante nella programmazione del Teatro Oscar: abbiamo già parlato de La bestia nella giungla dall’omonimo romanzo di Henry James, oggi ci soffermiamo invece su La regina degli elfi, dal testo del premio Nobel Elfriede Jelinek, recentemente messo in scena a cura di Angela Malfitano, che con questo lavoro vuole rendere omaggio il suo maestro Leo de Berardinis.

I due lavori di cui abbiamo fatto menzione hanno in comune l’essere ispirati a due testi difficili e complessi, Henry James per la profondità di pensiero sul mistero dei rapporti tra uomo e donna, espressa però con una sottigliezza cristallina; La regina degli Elfi è invece una riflessione sul teatro e sulla Storia, altrettanto profonda ma a nostro parere, meno intelligibile allo spettatore.
L’autrice Elfriede Jelinek è austriaca, ottiene il premio Nobel per la letteratura nel 2004, vive tra Austria e Germania e in questo lavoro si concentra sulla realtà del periodo nazista.
La protagonista è Paula Wessely, attrice di teatro viennese realmente esistita e che si è lasciata irretire dal regime hitleriano. Lo spettacolo comincia con la proiezione (troppo lunga) di un collage di scene di film con la Wessely e di spezzoni di video delle parate naziste, con particolare attenzione alle tanto promosse attività sportive, strumento di forte propaganda per la sana vita nazista.
L’attrice (interpretata da Angela Malfitano) è morta e viene portata in scena (cioè in platea) a spalla, da sei giovani, seduta nella sua bara e truccata di tutto punto. Il suo è un monologo, recitato interamente da questa posizione di decesso sospeso. Ascoltiamo un’orazione funebre che l’attrice dedica a se stessa, restia a lasciare il suo pubblico e la fama raggiunta, la donna rende la bara il suo ultimo palcoscenico. Ci parla, proprio in qualità di spettatori, del Potere, in un parallelo ardito e inquietante tra il potere del capo sulle masse (ovvero del fuhrer sul popolo) e dell’attore sul pubblico.
Fino a circa metà spettacolo ci piace seguire il fluire di un ragionamento che punta a spiegarci come lo spettatore sia continuamente ingannato (bella la sintesi della battuta: “Questo teatro non è così piccolo, vi abbiamo convinto che il palco lo fosse per far sentire voi più grandi), a un certo punto però il discorso si fa faticoso, si avvoltola troppo su se stesso e si perde il filo del paragone tra carisma dell’attore e carisma del dittatore (non diciamo dittATTORE, per carità).
Angela Malfitano è brava, indubbiamente il difetto di fluidità non sta nella sua recitazione, raffinata, convincente e misurata, forse ci sono invece alcune scelte di regia che confondono un po’ e non aiutano lo spettatore nella lettura del significato: i sei giovani, parte del corteo funebre, anch’essi truccati come la protagonista, rimangono in scena per tutta la durata, immobili, a reggere la cassa, salvo una salita sul palcoscenico (anche questa troppo lunga) durante la quale si cambiano a vista indossando abiti tirolesi e poi cantano una canzoncina in tedesco mentre mimano esercizi di ginnastica. Tornano poi al loro posto, accompagnando le ultime parole del monologo con alcuni gesti di cui confessiamo candidamente di non aver capito il senso scenico: spillare birra, cucire…
L’attrice esce, per sempre, di scena, accettando la fine e permettendo la fine dello spettacolo, lo spettacolo della sua vita e della sua morte.
Il testo ha, a nostro avviso, una scrittura che lo avvicina ad un saggio, letterariamente parlando, pertanto richiederebbe che lo spettatore fosse più accompagnato per comprenderlo appieno. La tesi dell’attore ingannatore ai danni del pubblico connivente, perché in fondo il pubblico vuole subire l’incantesimo del teatro, potrebbe essere più sfumata, per lasciarci una maggior quota di libero incanto.

Qui alcune sequenze di un video sullo spettacolo
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=1RbyZb9_vZc]

Alvarez Bravo. L’occhio della libertà

ManuellvarezBravo_LaCeleberrimaaddormentataMARIA CRISTINA SERRA | L’esistenza è composta di dettagli: piccole cose che assumono grandi significati. Desideri e sogni si mischiano alla realtà e cercano ali per volare in alto. Manuel Alvarez Bravo (1902-2002) aveva imparato a non avere fretta, ad assaporare la cantilena lenta del tempo, in cui nulla è statico, tutto è un continuo fluire di forme, fra le quali scorgere schegge di sentimenti e fascinazioni del quotidiano. “Don Manuel” (così lo chiamava lo scrittore Carlos Fuentes) “è un genio, capace di regalare un istante di riposo alle turbolenze del mondo, affidando a chi guarda il compito di restituire movimento all’immagine”. La vita rurale e le tradizioni, la vita di strada e la gente che l’anima, la luce del giorno che taglia angoli e facciate con “magico realismo”, le ombre misteriose che insinuano solitarie inquietudini, diventano presto lo scenario dove realizzare il suo “sogno ad occhi aperti”, dove non c’è posto per eroi, celebrazioni, monumenti.
Il Jeu de Paume ha celebrato il maestro della fotografia messicana, che camminava al passo col Tempo. Come spiegano i curatori dell’expo ”Manuel Alvarez Bravo, un photographe aux aguets” (dal 13 febbraio al 19 maggio anche alla Fondaciòn Mapfre di Madrid), Laura Gonzales Flores e Gerardo Mosquero: “le sue sono immagini fragili, delicate, impalpabili. Così la fotografia diventa poesia in grado di catturare il passaggio transitorio degli esseri umani sulla terra”. Alvarez Bravo non rimase estraneo ai profondi fermenti sociali e politici che attraversarono il suo paese dalla rivoluzione del 1910 in poi, né restò indifferente a quella passione civile e culturale a tinte forti, nella definizione d’una identità nazionale, che tanto appassionò l’intellighenzia del tempo. Il suo impegno si concretizzò nella sperimentazione di un nuovo linguaggio fotografico, nel quale unire i motivi più arcaici, legati alla sua terra, con le inquietudini della modernità: ”l’importante per un fotografo è la sua opera, la sincerità la capacità di trascendere il piano documentale e cogliere la pienezza umana”
Il forte legame ideale con Diego Rivera, Frida Khalo, Rufino Tamaya, Tina Modotti, Edward Weston, Cartier-Bresson ed Eisenstein non lo distolse dall’individuare, fin dagli anni Venti, una sua autonomia intellettuale che ben presto superò i confini geografici, per farsi modello etico e artistico, centrato sulla dignità e l’equilibrio insito nella realtà, pronto per essere catturato e sublimato.
C’è in Bravo il senso perenne di un lungo respiro, denso di quiete, dove all’attimo fuggente si sostituisce la pazienza della lentezza, resa con tratti raffinati, senza artifici. La concretezza vitale del reale e l’immaginazione lieve dell’astrazione si armonizzano fra di loro, plasmate da sapienti e discreti effetti di luce che strutturano la composizione. Ogni cosa per lui nasconde un segreto da rivelare; una visione del mondo, dove anche la linea sottile fra il visibile e l’invisibile si carica di atmosfere oniriche: ”la luce e l’ombra hanno esattamente la stessa dualità che esiste tra la vita e la morte”.
Ritagli di carta, avvolta in spirali o piegata in origami, si trasformano con il suo obiettivo in onde minimaliste per la serie “Vogues de papier”: macchie di umidità sui muri e gocce di vernice sparse sulle pareti in tracce di esistenze da decifrare. La freddezza del calcestruzzo gli ispira il senso costruttivista del presente, in cui piani e linee si incontrano nello spazio in sintesi estrema, come in “Triptyque beton”. Modernità e passato vanno di pari passo nella sua arte. L’immobilità delle croci piantate in terra fra le rovine in spettrali geometrie hanno la struggente malinconia dei ricordi d’infanzia, segnati dai lutti della guerra civile e nello stesso tempo mostrano un profondo senso di spiritualità, fissato pure da figure di angeli, di Cristi, di scale che si innalzano.
Il linguaggio di Alvarez Bravo sembra cifrato: una campana sospesa fra le travi in un orizzonte indefinito e una casupola affiancata da tre scheletri di alberi (“Trois arbres et une maison”) possono trasmettere quel senso di infinito che può nascondersi fra le pieghe della banalità apparente. Con eleganza espositiva, la mostra si sviluppa in otto capitoli, per facilitare l’orientamento nella vasta produzione di questo maestro, ancora troppo poco conosciuto. “Formare”, “Costruire”, “Apparire”, “Vedere”, “Esporsi”, “Camminare”, “Sognare”, “Giacere”: sono le voci verbali sotto cui i curatori hanno raccolto la sua multiforme opera, iniziata da autodidatta. “Fu la fotografia di Atget a mettere sottosopra il mio modo di pensare, a indicarmi le strade da percorrere”, confidava.
Giacciono in un tempo e in uno spazio sospeso le sue immagini-icone: ”Ouvrier en grève assasiné” e “La bonne renommée endormie”. Il giovane operaio assassinato durante uno sciopero giace in una pozza di sangue che disegna una macabra maschera sul volto, disteso e rivolto al cielo; il contrasto fra il bianco della camicia aperta sul petto e lo scuro del fondo è addolcito dalla stretta angolazione; la pietà prevale sulla violenza, la drammaticità trascende l’evento per conferirgli un valore eterno, che lo innalza a simbolo. La tensione estetica è palese nel ritratto della ballerina di “buona reputazione”, distesa nuda, con i fianchi e le caviglie fasciate, nella vulnerabilità del dormiveglia. Era nato come un manifesto surrealista, concordato con Andrè Breton, ma poi l’atmosfera fantastica messicana prevalse, grazie al sottile gioco di dissimulazione della composizione. “L’invisibile è sempre contenuto nell’opera d’arte che lo ricrea. Se l’invisibile non può essere percorso, l’opera d’arte non può esistere”.
“La fille des danceurs” è un’alchimia di equilibri e di misteri. La ragazza, vestita di bianco, il sombrero e lo scialle sceso sulle spalle, ripresa mentre osserva nel tondo di una finestra una scena che possiamo solo immaginare, sovverte la semplicità dell’atto. C’è una storia oltre il muro piastrellato che rompe il silenzio iniziale, trasformando un’istantanea stilisticamente perfetta, in un racconto poetico nel quale il mistero e la magia si fondono in un palpabile senso di serenità. La seduzione delle parole entra nell’inquadratura, la completa. La contrapposizione di elementi in “Pàrabole optique” crea un effetto multiplo: occhi e occhiali nel negozio d’ottica si riflettono nelle vetrine e intercettano il nostro sguardo in un gioco di dissonanze. Sono i titoli spesso a fornirci la chiave di lettura delle sue foto, una specie di ponte per attraversare la realtà e rivederla allo specchio, come “Les amoreux de la fausse luna”, che per sognare non devono attendere la notte.

Qui il link all’archivio di Bravo con tutte le foto, divise anno per anno.
Qui un filmato sulla mostra realizzato dalla galleria
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=uKyd090z-8k]

Sylvie Guillem: un'étoile per la contemporary dance

Guillem-6000milesBRUNA MONACO | Enfant prodige della balletto classico francese, a soli sedici anni Sylvie Guillem faceva già parte del corpo di ballo dell’Opéra di Parigi, e a diciannove era l’étoile, la più giovane mai vista, della compagnia. Ora Sylvie Guillem è una delle più significative rappresentanti del danza classica dei nostri tempi. Ballerina acclamatissima e amata che allo scoccare dei quarant’anni, con un’audacia e una curiosità invidiabili, decide di abbandonare il mondo noto e scandagliato del classico, per sperimentarsi nella danza moderna e contemporanea. Dal 2005 a oggi ha lavorato con coreografi come Akram Khan e Russell Maliphant a spettacoli che hanno incontrato un gran favore di pubblico e critica, come dimostra il fatto che sono ancora in tour per l’Europa.

Oggi, a quarantasette anni, è con 6000 Miles Away che Sylvie Guillem si presenta al pubblico del Parco della Musica di Roma. Il titolo è un omaggio alle vittime del sisma che nel marzo del 2011 colpì il Giappone. Nell’ora del disastro Sylvie Guillem era a 6000 miglia da Fukushima, a Londra, e creava Rearray con William Forsythe. Rearray è una delle tre parti che compongono questo 6000 Miles Away. Un duetto che vede in scena, accanto alla bravissima Guillem, Massimo Murru, anche lui danzatore di formazione classica.

Rearray è un brevissima pièce altamente intellettuale: mentre gli interpreti lavorano sull’equilibrio, il coreografo compone i corpi in modo che sia sempre avvertibile un conflitto, anche sottile. Si imitano ma si allontanano, sembrano infastiditi e attratti dalla presenza dell’altro. I costumi neutri e scuri per entrambi tendono ad annientare le differenze tra i corpi, a confonderli. Così fanno le luci, basse. La musica originale di David Morrow, apparentemente ignorata dai danzatori che eseguono movimenti precisi e raffinati senza seguirne gli accenti e le dinamiche, è in realtà determinante nell’evocare un contesto freddo e grigio, cerebrale. I suoi suoni brevi e irregolari, metallici. Sull’Arietta della ¬Sonata op. 111 di Beethoven si muove invece Sylvie Guillem nella pièce intitolata Bye diretta dal coreografo svedese di fama mondiale Mats Ek. Una Sylvie sbarazzina, quella proposta in questo spettacolo, in gonna corta e calzettoni.

Gioca con sé e con la propria immagine di sé (dentro e fuori di metafora) attraverso un ingegnoso monitor-finestra che la proietta ora sola, ora in mezzo alla folla. Fin dal titolo, Bye, si presenta come un piccolo estratto di diario, una pièce autobiografica che ritrae il futuro imminente di Sylvie Guillem, che a quarantasette anni, nonostante la tenacia e un corpo ancora flessuoso, vede avvicinarsi il momento del saluto alle scene e l’inizio di una nuova vita, da “persona comune”, fra le tante, fra la folla. Anche se il pubblico e gli applausi erano tutti per lei, 6000 Miles Away ha visto in scena anche due interpreti forse più giovani e meno famosi, ma sicuramente all’altezza della grande Guillem: Nataša Novotná e Václav Kuneš hanno eseguito la coreografia di Jiří Kylián danzando sulle note di Dirk P Haubrich. In 27’52’’ la musica è coinvolgente e segue il trasporto emotivo dei due danzatori: due amanti che si cercano, si trovano, si perdono. E forse proprio 27’52’’ il pezzo più riuscito, almeno sul versante della capacità comunicativa, ovvero della forza di attrarre e produrre senso anche in chi della danza non sia un fine conoscitore. In effetti Sylvie Guillem ha a volte il difetto di sfiorare il pubblico senza toccarlo, muovendosi al riparo di una raffinatezza carica sì di richiami in controcanto alla danza classica e alla sua biografia, ma che rischia a tratti di sfociare nell’algore della calligrafia.

Un estratto di 6000 miles away
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=wDjc6jy7YSQ]

Sylvie Guillem qualche anno fa… nel Grand pas classique
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=lRWcCRgW8MY&w=420&h=315]

I veri segreti di Assassin’s Creed III e Aliens Colonial Marines sono…

ALESSANDRO GUALANDRIS | “Pillola rossa o pillola blu? Pillola azzurra: fine della storia, domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai; pillola rossa: resti nel paese delle meraviglie e vedrai quant’è profonda la tana del bianconiglio.” (Matrix, 1999)

Se il temine Playstation è diventato sinonimo di un bene di consumo, ovvero la console, il regno dei videogames non è più un “gioco da bambini”: miliardi investiti nella produzione ludica virtuale, soldi che tornano nelle casse della case produttrici e l’uscita di una nuova versione di un game considerata al pari delle prime cinematografiche più importanti, con team di sviluppo che non hanno nulla da invidiare alle megaproduzioni hollywoodiane.
Ma il vero segreto di questo inarrestabile processo di migliorie tecniche, sempre più richieste per rendere il virtuale un universo dotato di una grammatica coerente, è la sceneggiatura, ovvero l’insieme di creazione della “costruzione psicologica” dei personaggi, con story line accattivanti. La fortuna di un videogioco la decreta la sua longevità, il livello di coinvolgimento che riesce a mantenere, visto che i neo-videogiocatori sono onnivori ragazzini che vivono a velocità diverse da quelli degli anni 90, ma anche adulti che han vissuto tutta l’evoluzione della storia ludica. La novità, quindi, è essenziale.

assassins-creed-3-il-season-pass-la-tirannia--L-mFY7XAPer rispondere a queste richieste, le majors produttrici si sono affidate a sceneggiatori capaci di creare una nuova filosofia nella stesura delle loro idee, prendendo spunto dal cinema, dalla storia, dalla letteratura. Il vero segreto è dunque in un luogo immaginario situato nel cuore dell’intersezioni fra le arti. E come il cinema attinge alle culture digitali, così la digitalità dialoga con il cinema, il plot, la storia e la Storia, in modo inesorabile.

Un primo esempio lampante di queste scelte è certamente la saga di Assassin’s Creed, presto in uscita con l’ennesimo spin off/capitolo aggiuntivo, Assassin’s Creed III – La Tirannia di Re Washington. Iniziata nel 2007, la storia di questo videogames è stata un susseguirsi di successi. Il gameplay ci permette di muoverci in diverse ere storiche, interpretando un assassino che si muoverà a cavallo di eventi realmente accaduti e diventando parte della storia. Questo titolo è un chiaro esempio di come la scelta dell’ambientazione e dell’eroe siano una novità a livello tematico, ma anche scenografico: gli ambienti sono ricostruiti con un dettaglio tale da far impallidire molte lezioni di storia dell’arte, gli usi e i costumi dell’epoca vengono studiati ed inseriti con cura per immedesimare il giocatore totalmente.
Nell’ultimo capitolo, scaricabile dal 19/20 febbraio, la storia viene addirittura stravolta e, come al cinema, si ricrea una linea temporale virale, dove George Washington decide d’incoronarsi Re d’America (qui il trailer). Leggendo i vari banner commerciali sul sito ufficiale Ubisoft si capisce quale sia l’intento della casa francese: “C’è la rivoluzione americana dei libri, e la rivoluzione vissuta in prima persona, ambientata in un mondo molto più realistico,crudele e vivo di quanto si possa imparare a scuola.”
Xavier Thomas, membro storico del team creativo, analizza così il nuovo personaggio : “Connor è probabilmente più vicino ai giocatori di quanto non lo fossero Altair o Ezio (personaggi dei precedenti capitoli NDA). Questo volevamo comunicare, portando la saga verso un eroe più “realistico”, ancora più dinamico. È un personaggio complesso, diviso fra due culture, due civiltà, e più di ogni altra cosa è un predatore”. E’ chiaro che la ricerca di una realtà più violenta e dominata da figure anomale, attragga più utenti di quanto ormai possa fare un idraulico dal berretto rosso (nonostante il caro vecchio Mario abbia ancora la sua fascia di pubblico assicurata, amante dell’amarcord). Il personaggio dall’animo in bilico tra il bene e il male, questo anti-eroe rivoluzionario, crea un appeal irresistibile, unito alle evoluzioni fisiche e dinamiche che migliorano capitolo con capitolo. La scelta di vivere la campagna da vero assassino, muovendosi nell’ombra, avendo la possibilità di colpire a tradimento le vittime calandosi mortalmente dall’alto di un cornicione o sbucando da tetri vicoli, permette un’immedesimazione istantanea ed un guilty pleasure non trascurabile.
Il tutto supportato da un motore grafico superlativo, l’AnvilNext. Figlio del precedente Anvil, utilizzato nel secondo capitolo della saga e che permetteva l’introduzione del ciclo del giorno e della notte, la messa a fuoco a distanze maggiori e una vegetazione più realistica comprensiva dell’effetto riflesso, AnvilNext, presentato in concomitanza con l’annuncio del terzo capito dell’assassino, introduce supporto al ciclo delle stagioni e a quello meteorologico ed è stata raggiunta la soglia di rendering di 1000 persone in una folla. Ciò permette un livello di realtà elevato e un ambiente di gioco dinamico, capace quindi di modificarsi con il tempo (virtuale) della nostra avventura.

aliens-colonial-marines_500x526Altro nome imponente nella lista delle prossime uscite è Aliens Colonial Marines. Titolo attesissimo da tutti i fans dell’alieno più mostruoso mai visto su schermo, ma dal fascino immortale. Il rapporto con il mondo cinematografico in questo videogioco, a breve sugli scaffali di tutti i negozi, va al di là dell’ennesimo capitolo con protagonista il mostro extraterrestre figlio di Ridley Scott: l’ambientazione della storia è da inserire proprio dopo il secondo e il terzo capitolo della saga cinematografica quando, prima di ibernarsi, Ripley e i due superstiti mandano un SOS, per poi precipitare sul pianeta prigione.
Il plot della versione digitale è collocato in particolare diciassette settimane dopo la notizia della distruzione della nave Sulaco sul pianeta-prigione di Fury 161. Se avete amato la saga di celluloide e fate un giro su questo sito a vedere il trailer, non potrete fare a meno di comprare subito una console e il gioco. Il co-fondatore di GearBox, Brian Martel, sapendo di scegliere un terreno arduo da percorrere, ha deciso di contattare proprio Ridley Scott. Oltre a fornire dettagli importanti, sembra che il regista abbia tirato fuori gli storyboard originali descrivendoli agli sviluppatori per permettere loro di dare uno sguardo molto più approfondito a quello che era inizialmente il mondo di Aliens.
Questa scelta, crea un interessante punto di partenza per un’analisi legata alle sempre più sottili differenze tra videogioco e cinema. Se i limiti di tale connubio sono solo logistici (da un parte fruire senza intervenire, dall’altra essere l’artefice degli esiti della storia cui si assiste) presto queste esili barriere potranno essere abbattute in favore di un nuovo mass medium che fonda le due realtà (se pensiamo che con “Ralph Spaccatutto” avviene una sorta di ideologica inversione di quanto appena detto, sembra che i due mondi stiano cercando a tutti i costi di convivere e trovare un terreno di dialogo).
Inoltre, insieme alla modalità di gioco che segue la sua story line, esiste la possibilità di creare scontri tra utenti impersonando sia i marines che gli alieni, quest’ultimi dotati di tutte le capacità per le quali li si teme. Insomma, l’immedesimazione qui, oltre a fornirla la tipologia di gioco, deriva dalla dinamica in soggettiva, che va oltre “l’umano”.
Anche qui il motore grafico utilizzato, il Red Ring Engine, evoluzione dell’Unreal Engine 3, viene sfruttato al massimo per poter gestire tutti i giochi di luce e ombra che un titolo dall’ambientazione così particolare richiede. La profondità e l’effetto tridimensionale risulteranno potenziati rispetto ai precedenti giochi proprio grazie alle evoluzioni raggiunte nelle tecniche di HDRR (High Dynamc range rendering) e per-pixel lighting che offrono maggiori profondità all’ambiente e gestiscono in autonomia la luminosità in base all’ambiente in cui si trova la visuale.
Due titoli imponenti e importanti, ma due piccole gocce in un mare di uscite che presto scopriremo insieme, attraverso le vicende produttive che han portato alla loro creazione. Per vedere il gameplay in un bel filmato che mostri tutte le capacità del nuovo motore di ricerca di Assassin’s Creed 3 (il nuovo spin off non ha ancora filmati del gameplay), ecco un video promozionale, dal quale si evince chiaramente la fluidità e la profondità raggiunta e le situazioni con diverse comparse

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=EiVJG_mrtFo]

Qui la pagina tumblr di Xavier Thomas, citato nella produzione di Assassin’s Creed, alcuni progetti cui ha collaborato e il suo lavoro in generale

Qui invece un filmato del making of di Aliens Colonial Marines, sottotitolato in italiano
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=5zS09IL-Srk]

Stay Tuned.

Claudio Santamaria e Filippo Nigro video/ospiti: "l'occidente solitario a modo nostro"

occidente

RENZO FRANCABANDERA & VINCENZO SARDELLI | In un concerto de l’Armeria dei Briganti, una loro canzone veniva introdotta dalla considerazione che tutti abbiamo avuto un amico bugiardo e se non ce lo ricordiamo, vuol dire che l’amico bugiardo eravamo noi. Questo vale ovviamente per l’amico pollo a poker e per il fratello stronzo.

Ecco, la nostra video intervista a Claudio Santamaria, Filippo Nigro e alla compagnia di Occidente solitario, in scena in questi giorni al Teatro Menotti di Milano, in cui la drammaturgia propone il legame conflittuale e ambivalente tra due fratelli intorno ai quarant’anni, sullo sfondo di un villaggio irlandese.

Il racconto noir del pluripremiato drammaturgo Martin McDonagh (la regia è del colombiano Juan Diego Puerta Lopez) è uno spaccato di vita reale cinico e bizzarro. Al centro due fratelli, appunto, in contesa dopo la morte del padre. Valene (Filippo Nigro) è un ebete calcolatore e geloso, affetto da cattolicesimo ossessivo-compulsivo; Coleman (Claudio Santamaria) è un ragazzone sprezzante, menefreghista, invidioso e volgare. Valene, che ha lavoro e quattrini, pensa solo a marcare con la sua iniziale tutto quello che c’è in casa; Coleman vive una vita futile e parassitaria: il suo unico divertimento consiste nell’arzigogolare trovate sempre nuove e paradossali per vendicarsi di Valene.

Frequentatore assiduo della casa è Welsh, il giovane prete locale (Massimo De Santis). Welsh beve come una spugna. Affoga nell’alcool i suoi mortificanti dubbi sulla religione e l’incapacità di mettere pace tra i parrocchiani. C’è una presenza femminile in questo sfacelo: è una ragazzina (Azzurra Antonacci) che percorre il villaggio “spacciando” whisky a domicilio. Segretamente innamorata del prete, Mary tenta di confortarlo con un mix d’ingenuità e malizia. Ma Welsh, ormai, riconosce il proprio fallimento: in ritirata dalla propria missione, imita la shakespeariana Ofelia, con la speranza che il suo gesto serva almeno a scuotere le coscienze dei fedeli.

Che l’ambientazione non sia propriamente universale ma tipicamente irlandese, lo rivelano alcuni dettagli: la casa dei due fratelli che richiama le atmosfere calde di un pub; i simboli inquietanti di un cattolicesimo di battaglia (una croce enorme appesa sul camino che sovrasta un fucile, decine di statue della madonna disseminate per la sala); il continuo ricorso all’alcol; le pesanti camicie scozzesi indossate dai due protagonisti.

Lo stile beckettiano della pièce trasmette la sensazione perenne che qualcosa possa accendersi a spostare gli equilibri: una violenza risolutiva, oppure una pace in grado di trasformare i tipi in persone.

Violenza verbale e violenza fisica sono le modalità comunicative dei due fratelli. Valene e Coleman sono attaccati al conflitto come all’unica possibilità di dare significato alla propria esistenza. Per loro è più importante litigare per un pacchetto di patatine che la morte di un amico d’infanzia o del proprio padre. Sono due bamboccioni incapaci di vivere l’uno senza l’altro. Consumano un rapporto simbiotico disfunzionale. Bisticciano come dei ragazzacci discoli.

E questo avviene anche durante questa divertente videointervista, in cui Santamaria e Nigro in grandissima forma e in modalità informale ci raccontano di loro, dei loro personaggi e di come l’attore gioca con lo spettatore.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=1Jifltmh6Cw&w=560&h=315]

Quel teatro giovane dalla forza esplosiva

lola polioVINCENZO SARDELLI | Zona K. Kappa come Key, chiave. Chiave come accesso consapevole al presente e alla nostra identità.
Zona K è uno spazio di Milano nato nel cuore del quartiere Isola. Con i suoi rilassanti interni verde pisello, al pianoterra di via Spalato 11, Zona K, è quasi un’aiuola tra i nuovi grattacieli. Un angolo per rigenerarsi attraverso l’arte e la creatività, per dialogare con le differenti culture che attraversano la Milano del XXI secolo.
È nato qui Play-K(ei) 2013, un progetto realizzato da quattro donne: Valentina Kastlunger, Valentina Picariello, Sabrina Sinatti e Silvia Orlando. Si tratta di una trentina di appuntamenti da febbraio a giugno, di teatro, danza, arte visiva e performance, video, musica, incontri, presentazioni.
L’esordio della rassegna, in questo primo week-end di febbraio, chiarisce l’approccio stilistico di Play-K: due spettacoli teatrali leggeri e frizzanti, artisti giovani semisconosciuti, ma dall’energia creativa esplosiva.

“Lola Polio, Poemetto borderline” di e con Gianluca De Col (contributo alla drammaturgia di Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani, suoni di Luca Pagliano e Davide Dellino) tratta il tema della transessualità.
Un uomo prende coscienza del vero sé. Cambiando pelle come un serpente durate la muta, realizza quella metamorfosi che lo porta a diventare una “lei”.
Una stanza, una luce così intensa da illuminare a tratti il pubblico, una tenda che si apre con eleganza sopra una finestra che è la vita naturale di Lola Polio. Lola cammina sui pezzi della sua identità lacerata, sospesa tra realtà e fantasia, tra volgare e sublime. Sopravvive cercando se stessa di fronte all’indifferenza dei tempi e delle persone. Vive di miseria, di sogni e di versi, come la poetessa Alda Merini, altro esempio di umanità borderline citato nel copione.
Lola prova a esorcizzare la follia della millantata normalità. Tenta di squarciare il velo dell’ipocrisia. Lola sogna l’amore che dia consistenza al suo essere donna, ma si accontenterebbe di un ascensore per risolvere problemi più dozzinali. L’oscillazione tra favola e concretezza è resa sonoramente da note di pianoforte intervallate da rumori di strada, di trapani, di martelli pneumatici e centrifughe di lavatrice. Anche la testa della protagonista è in centrifuga: così persa da cercarsi a “Chi l’ha visto”, tenta di evadere dal corpo-prigione, da una vita monotona e refrattaria.
Una sedia a sdraio, due borse dell’Ikea piene di bouquet di fiori finti, un appendiabiti con poche grucce spoglie, due “Stira e ammira” spray, costituiscono gli elementi spiccioli della scenografia. Lo spray diventa lacca per capelli, colorante per decorare i fiori. Ma i fiori rimangono finti, non bastano amore e poesia a trasformarli. Neppure le borse dell’Ikea servono a coronare il sogno di costruirsi un futuro a basso costo. Diventano trappola, velo che nasconde l’identità.
Da Col tratta con essenzialità e armonia un tema delicato, con toni soffusi, lontano da ogni provocazione. Con ironia assorta, l’istrionico attore e autore ci guida nel suo personale percorso interiore, accompagnandoci simultaneamente a esplorare le molteplici sfumature del nostro io.

La leggerezza è anche la cifra dello spettacolo “AD 2012”.
I fiorentini di In Quanto Teatro esprimono con eleganza e intelligenza la trama di intrecci che caratterizza il loro percorso artistico. “AD 2012” è uno spettacolo sul tempo, sulla vita, insondabile mistero di caducità, dimensione in cui passato, presente e futuro si sovrappongono fino a coincidere.
I quattro attori (Floor Robert, Giacomo Bogani, Andrea Falcone, Francesco Michele Laterza) riportano le entità fisiche, oniriche e di realtà, a una sola consistenza: al propagarsi nello spazio-tempo delle pulsioni affettive. La suggestione della scenografia e dei costumi in bianco e nero, le luci curate da Giulia Broggi, le musiche tardo rinascimentali eseguite al violino dal vivo da Giacomo Bogani, svolgono un ruolo essenziale nella narrazione.
La messinscena, la cui regia va ascritta ad uno sguardo di gruppo, è tutta giocata sulle intrusioni e sulle interferenze. Andrea Falcone, che in scena si mostra come regista della pièce, interagisce direttamente con gli attori. Personaggi di tutte le letterature e di tutti i tempi s’incontrano in quello spazio grigio che è la scena. Ecco confondersi dettagli di costumi da teatro elisabettiano ed elettrodomestici dal design anni Sessanta. Bandiere di cellophane svolazzano davanti a ventilatori azionati da uomini vestiti come cavalieri medioevali. Danze barocche sfumano in sacre rappresentazioni. In mezzo volteggiano gli attori.
La contrapposizione fra partitura coreografica e partitura narrativa crea effetti di poetica e sottile comicità. A spasso per il tempo, la fiaba senza trama ha le movenze di una danza leggera. La luce si frantuma riflettendosi in una lamina di metallo; crea mille giochi diversi. Pavimento e parete sono tutt’uno nel riverbero della luce, sono assi cartesiani dove spazio e tempo diventano variabili che s’intersecano sino alla fusione.
I protagonisti corrono in circolo come lancette di un orologio impazzito. Lo spettatore si lascia lambire dal vortice, percepisce gli spostamenti d’aria. L’impatto visivo e sonoro dello spettacolo assume robustezza tattile. Non c’è più separazione tra il “qui e adesso” e l’altrove passato e futuro. La vita dell’uomo è una parentesi nell’eterno. Il tempo è convenzione.
Gli elettrodomestici in scena, tra i quali fa capolino un buffo robot aspirapolvere, creano effetti tra il grottesco e il surreale. Stridono con le musiche cinquecentesche.
Il succo della pièce è che noi umani siamo semplici meccanismi nel fluire incessante del tempo. Incessante come gli applausi del pubblico, al termine di questa originale performance.

Trailer di “Lola Polio”:
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=aCgCuDrZfuQ]
Trailer di “AD 2012”:
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=G3AHNNl2uX0]

Il teatro impossibile di Elsa Morante

serata a colonoBRUNA MONACO | La serata a Colono, unico testo teatrale di Elsa Morante uscito nel ’68 e “acquattato”, secondo la definizione di Ferdinando Taviani, fra le pagine letterarie de Il mondo salvato dai ragazzini, sbarca per la prima volta sul palcoscenico. È Mario Martone a farsi carico di questo impervio compito: costringere le poesia della Morante a farsi corpo e voce d’attori. Martone insieme al vecchio amico di Elsa Morante Carlo Cecchi, che da vent’anni progetta questa messa in scena e oggi finalmente interpreta questo Edipo contemporaneo.
La serata a Colono è un testo difficile e affascinante, con la fama d’essere irrappresentabile. Un testo dalle didascalie che per nulla tengono in conto le esigenze sceniche, che ignorano (o rifiutano) il vocabolario teatrale e si servono di ogni mezzo letterario per raggiungere l’immaginazione del lettore, trasformando in parole immagini in-visibili, irrappresentabili. E infatti lo spettacolo inizia proprio con delle parole scritte, proiettate sul fondo scena. Sono quelle della didascalia che apre il testo della Morante, “verso sera, in un dolce tiepido novembre, intorno all’anno 1960”. Difficile attingere al vocabolario teatrale e comunicare allo spettatore questa sensazione di tepore, così tangibile, invece, nelle parole della Morante. Ancor più difficile, forse, trasformare l’ampio palco del Teatro Argentina nel corridoio “imbiancato a calce” di “undici metri per tre”. Un corridoio, un luogo di transizione, un luogo non-luogo, quasi impossibile da materializzare. Già appare, in tutta la sua complessità, la sfida raccolta da Martone. Quella che la Morante lancia al teatro.
Lo spazio scenico scavalca il palco dell’Argentina: il coro frantumato dei ricoverati del reparto neuro-deliri si muove lungo i corridoi che separano le poltrone degli spettatori. Monologano, ognuno chiuso in se stesso, e di tanto in tanto intervengono ad amplificare una parola, un gemito del moribondo Edipo. A un angolo del palco due musicisti “fanno suonare” la scena, come da indicazione della Morante. Eseguono la partitura originale di Nicola Piovani che vuole “illuminare il senso ritmico” della metrica del coro.
Ma di luce ce n’è poca in questa messa in scena di Martone: le musiche sono cupe e solenni, cupi e solenni sono il coro e lo stesso Carlo Cecchi, il cui tono costante e declamato appesantisce un Edipo che Pasolini aveva acutamente definito un “gigione”. E un gigione doveva apparire, uno da mettere anche in burla. Da non prendere sul serio, pena l’incapacità di far emergere ciò che rende magico questo testo. Ovvero, come scriveva sempre Pasolini: l’umorismo come carità. D’altronde La serata a Colono dichiara di non essere una tragedia: parodia recita il sottotitolo scelto da Elsa Morante. E neppure di questo v’è traccia nello spettacolo visto all’Argentina. Anche la prosodia lenta e impacciata con cui Antonia Truppo dà voce ad Antigone, se da una parte rende l’immagine di una creatura “di mente un poco tardiva”, dall’altra affatica l’ascolto di un testo che forse guadagnerebbe nello scorrere veloce, senza indugi, con una dizione fresca e spensierata, ironica, che si avvicini alla scrittura.
C’è il sospetto che tutto, in questo testo della Morante, andrebbe preso non con la serietà di Martone e Cecchi ma come una provocazione, una festosa rivolta. E non solo perché, per quei misteriosi accordi tra i poeti e lo spirito del tempo, Il mondo salvato dai ragazzini uscì nel ’68. Ma perché la Morante lo ha inteso come un antidoto contro l’“infezione dell’irrealtà”. Il fantastico e l’invenzione si contrappongono alla pretesa realtà di tutti i giorni, ovvero alla sua manipolazione retorica che per realtà si spaccia. E per questo il filo rosso che lega le parti di questo libro è un ritornello sovversivo: “pure se ci fa tremare per gli spasmi e la paura, tutto questo, in sostanza e verità, non è nient’altro che un gioco”. Il gioco del teatro, anche.
Forse davvero La serata a Colono è un testo inadatto alle scene, un invito al lettore a farsi sognatore di parole, come diceva Baudrillard. Elsa Morante chiede al lettore di vedere il teatro tra le pagine, così come Bulgakov in Romanzo teatrale invitava a vedere tra le pagine un pianoforte. O forse, semplicemente, a essere inadatta è una riproposizione troppo fedele di un testo pensato per essere letto. Sotto l’influsso di volere rendere omaggio alla memoria della Morante, è mancato forse il coraggio di un tradimento necessario: la forza di rielaborare, riadattare. Perché La serata a colono, più che letteratura drammatica, è letteratura tout court. Così alta da farci sentire dentro un teatro. Il teatro dei sogni di Elsa. Quello dove è possibile anche, come recita una didascalia, sentire tutte le voci del mondo che parlano insieme. Quello che doveva restare acquattato, sorprendere il lettore. Un gioco segreto. Ecco cosa aveva predisposto per noi la Morante: trascinarci, nella solitudine della lettura, sulle tavole del teatro dei sogni proprio mentre credevamo di leggere un libricino di poesie destinate ai ragazzini.

il link a un saggio di particolare interesse su La serata a Colono
Alcune sequenze dello spettacolo in un video realizzato da Teatro di Roma
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La dieta del Giovin Signore

ANDY VIOLET | 8 chili in 4 legislature: I maligni mormorano che l’entourage del Cavaliere avesse intuito l’imminente ritorno del capo sulla scena politica semplicemente osservando il drastico cambiamento delle sue abitudini alimentari.

Fedele infatti al suo proverbiale senso estetico, per la sua riesumazione politica Silvio ha ingaggiato una strenua lotta con quegli otto chili di troppo che hanno imbolsito la sua già tozza figura, facendo sporgere il suo ventre ben oltre la linea d’occultamento fornita dal suo immancabile doppiopetto. Niente più stravizi alimentari, dunque, perché all’apertura del sarcofago la sua carcassa bionica e protesica si presenti in forma smagliante, e chissà a quale folta schiera di professionisti della nutrizione si sarà rivolto per demolire l’adipe superfluo: dietologi, personal trainer,  lunch designer, food engineer, addetti al controllo del colore e della consistenza delle sacre feci e della limpidezza delle urine.

Sarebbe tuttavia ingiusto etichettare lo sforzo salutista dell’ex-premier solo come un civettuolo cedimento alla vanità: egli,  nel ricandidarsi per l’ennesima volta alla guida del Paese, ha voluto sperimentare su di sé il disagio alimentare del suo popolo, stretto nelle angustie di una crisi che per la prima volta dal dopoguerra sta intaccando i consumi dei beni di prima necessità. Nel vasto movimento di involuzione del capitalismo, infatti, anche la storia sembra attorcigliarsi su se stessa, ricomponendo scenari ottocenteschi di classismo alimentare, forse mai realmente cancellati: la carne, nei tagli più pregiati, torna esclusivo beneficio delle tavole dei ricchi,  mentre i poveri tornano mangiatori di patate di vangoghiana memoria,  sebbene nella forma globalizzata del fritto da fast-food, e c’è chi,  tra l’ottuso e il malevolo, magnifica le nuove tendenze di consumo come il trionfo finale della dieta mediterranea.

La realtà, più semplicemente, è che lo spettro della fame, arginato da anni di neocolonialismo nei serbatoi afroasiatici e sudamericani,  torna a danzare in Europa con un vigore prerivoluzionario, tendendo una molla di insoddisfazione forse preludio di radicali stravolgimenti. Lui, Mr.B, si farà trovare pronto: quando lo informeranno che il popolo in rivolta davanti Palazzo Grazioli vuole il pane, potrà rispondere, dall’alto della sua sana dieta: “Mangino brioches,  purché integrali”.

La Sanremia di Plauto

ANDY VIOLET | Le caratteristiche di quello che talora con spregio viene chiamato gusto popolare sono note da secoli, e rappresentano, nell’ambito dell’estetica, una struttura culturale ed antropologica di lungo corso. Pur nelle diversità delle varie epoche, l’approccio popolare al riso e al pianto, al bello e al brutto presenta alcuni elementi di continuità ricollegabili alla natura materiale della sua ispirazione, scandita dalle grandi, ineludibili tappe dell’esistenza (nascita, morte, gioventù, vecchiaia, ecc.) in cui i personaggi di queste letterature semispontanee si muovono secondo un meccanicismo archetipale che ne fa modelli di immediata fruizione, semplice e comprensibile sommario della realtà.

Non deve stupire, pertanto, la ripetitività quasi ossessiva di tali modelli culturali, canovacci esistenziali che, mutando nomi, restano incarnazioni tipizzate e tipizzanti della varietà umana e delle loro azioni: pensiamo alle lampanti somiglianze strutturali delle favole che tutti conosciamo, o all’invarianza narrativa delle situazioni comiche del teatro popolare. Delle 21 commedie conosciute del commediografo latino Plauto, per esempio, almeno 17 presentano con minime variazioni lo stesso schema narrativo e gli stessi personaggi-simbolo, comuni tipologie umane rese ancora più efficaci dall’uso di maschere fisse, che ne annullano l’individualità in favore di una più marcata iconicità senza tempo: il vecchio rimbecillito (vittima di sberleffi senza che nemmeno se ne accorga), lo spiritoso servetto magnogreco (che deve movimentare la trama coi suoi lazzi e le sue trovate di dubbio gusto), l’artista vanaglorioso (che si atteggia a saggio conoscitore del mondo ed elargisce perle di filosofia spicciola in lunghi e sconclusionati sermoni), la bella cortigiana, desiderata da tutti (che si scopre poi essere rampolla perduta di un’importante famiglia grazie ad un elemento di riconoscimento come un disegno sulla pelle).

Anche le scenette cui essi danno vita obbediscono alla stessa fissità: qualche innocua battuta ad effetto sul potente di turno, qualche messinscena omoerotica sul modello delle “nozze maschie”, la contaminatio di situazioni e personaggi incoerenti presi qua e là da vecchi repertori e fatti convivere forzosamente su un unico palco.

Ne è un tipico esempio anche una delle commedie tarde del grande scrittore latino, la Sanremia, recentemente andata in onda in cinque serate su Rai Uno: in essa, come tutti abbiamo potuto ammirare, tali elementi si fondono nel mirabile e ridicolo pastiche della pochezza umana, della rappresentazione icastica e feroce del compiacimento della mediocrità.