fbpx
sabato, Luglio 27, 2024
Home Blog Page 445

La struggente melodia di Modigliani e Soutine

Jeanne-di-ModiglianiMARIA CRISTINA SERRA | Come un racconto itinerante che attraversa le colline di Montmartre e Monparnasse, la mostra “La collectione Jonas Netter – Modigliani, Soutine” alla Pinacothèque ha ripercorso le storie artistiche e private dei pittori che hanno ridisegnato il ‘900, coniugandole all’avventura dei collezionisti che determinarono le tendenze della modernità. Accanto ai famosi mercanti d’arte, come Vollard, Durand-Ruel, Rosemberg, Guillaume, Alexander e i fratelli Stein, vengono alla luce figure decisive rimaste a lungo in ombra. La lunga estate parigina, ormai entrata nell’autunno, ci ha fatto rivivere così l’atmosfera della vita bohèmienne, sospesa fra la “Butte” e la “Ruche”, fra la “Rive gauche” e la “Rive droite”, ci ha invogliato a vagare per la città sulle tracce dei luoghi rievocati dall’expo alla ricerca di piccoli scorci e immagini ancora preservate dal tempo. Lo spirito dell’epoca e lo straordinario mondo di Leopold Zborowski e Jonas Netter, raffinati conoscitori d’arte, più mecenati che galleristi, sono stati ricreati nella suggestiva messa in scena al Musée dela Madeleine, attraverso un originale percorso tracciato dalle pennellate di Soutine, Suzanne Valadon, Utrillo, Derain, de Vlaminck, Antcher, Krémègne, Ebiche, Hayden, Modigliani.

Spicca, singolare, la personalità di Netter, nato nel1866 inuna famiglia dell’alta borghesia ebraica di Strasburgo, brillante pianista e collezionista per vocazione. Uomo discreto, di grande sensibilità e rigore morale, in perenne conflitto con un mercato in piena espansione e mutazione, interessato più all’amicizia con i suoi pittori che al denaro. Nel 1915 acquista il primo quadro di Modigliani: ed è subito colpo di fulmine! Più difficile sarà il rapporto con il solitario, ribelle, Chaim Soutine, ebreo orientale di Minsk, giunto ventenne a Parigi nell’11 per sfuggire ad un destino di miseria e violenza, tra pogrom e ghetti, crudeltà familiari e soprusi della sua comunità. Protettivo fu invece il legame verso Maurice Utrillo, eterno fanciullo disincantato, smarritosi fin dall’adolescenza nei fumi dell’alcol, simbolo dell’artista bohèmien di Montmartre, in cui creatività e dissolutezza si fondevano in modo sublime.

Léopold Zborowski, di origine polacca, poeta mancato e uomo brillante, volubile, amante della mondanità, “marchand en chambre” squattrinato, stringe con Netter un vero e proprio sodalizio professionale all’insegna del comune ideale per “una cultura rivolta a tutti”. Se gli Stein e i loro salotti si dividevano tra Matisse e Picasso, Netter e Zborowski scommettevano sui talenti dei “Maudits” e sui destini più incerti. “Ho incontrato un pittore che vale due volte Picasso”, confidò il polacco nel ‘16 alla moglie, parlando di Modì.

Spaziando attraverso una modulazione di piani incrociati fra Arte e Vita, l’allestimento si snoda con linearità. Sono i luminosi e pastosi cieli chiari di Utrillo, il grigiore luccicante delle strade dal pavè sconnesso, gli edifici disposti in geometrie perfette ed armoniose, ad introdurci negli scenari urbani della quotidianità popolare parigina del tempo. Può essere un lampione, un filare d’alberi, una cancellata o la scalinata di Rue Muller a Montmartre, a definire la profondità della prospettiva. I toni spenti di una freschezza sorprendente si accendono dopo il 1907 di tocchi turchesi, verdi, dorati, vermigli, le linee si fanno più nette e gradualmente negli anni le regolarità si accentuano. Una leggerezza e un equilibrio stilistico sotto cui covava un’anima instabile, tormentata (tentò tre volte il suicidio, subì l’orrore del manicomio e la derisione del nomignolo “Le fou dela Butte”). Alle sue tele si contrappongono quelle di Suzanne Valandon, madre adorata e sua prima maestra. Paesaggi fauves dai colori brillanti, nudi dalle forme solide e sensuali, che si staccano nettamente dai fondi scuri o dai drappeggi arabescati. Una pittura piena di vitalità ed energia, a tinte forti, che la rispecchiano. Figlia poco amata di una lavandaia e di padre ignoto, modella a quindici anni negli atelier degli Impressionisti, spinta dal desiderio di riscatto sociale, apprese velocemente da Renoir, Toulouse-Lautrec e Degas i primi insegnamenti sull’arte e sulla vita. Per Derain, invece, i colori erano “cartucce di dinamite”, pronti ad esplodere in schegge incandescenti dai toni scuri, ben bilanciati, come nelle “Grandes Baigneuses”: sintesi perfetta della lezione di Cézanne e dei paradisi esotici di Gauguin. Gli fa da contrappunto la sanguigna pittura infarcita di note “popolari”, anarcoidi, di De Vlaminck, evocanti nordiche atmosfere e orizzonti sconfinati, estranei “alla disciplina da caserma del cubismo che mi ricorda tanto mio padre”, scriveva.

La raffinatezza estetica e le verità nascoste dell’animo, le brucianti passioni e gli squilibri interiori, sublimati in forme melodiose e nitide da Modigliani sono come sempre folgoranti. Il ritratto malinconico della “Fillette en bleu”, la bambina dagli occhi turchini che come un angelo offeso sembra racchiudere nello sguardo innocente e nelle braccia serrate i segreti delle cose, s’illumina nel chiarore circostante, interrotto solo per la lieve ombra e la concretezza del nero sui capelli e le scarpe. L’enigma dell’esistenza frantumata di Modigliani è speculare al ritmo della sua pittura di intima spiritualità e languida carnalità. Meravigliosi i suoi ritratti affusolati di donne, sembrano fluttuare in un’altalena infinita di sentimenti, tra la pienezza dei volumi e il gioco elegante dei contorni. Quelli di Jeanne Hébuterne parlano di lui e di un amore esclusivo, silenzioso, dannato, imbevuto di lacerazioni sparse nella ragnatela di sogni e delusioni, consumati senza corruzione.

Jeanne “Jeune fille rousse”, i capelli sciolti ad incorniciare il pallore del viso, ha i colori caldi della sensualità, ”Jeanne au hennè”, animata da soffici riflessi di luce, posa le mani sul ventre a difesa dell’evidente maternità. L’apparente malinconia suggerisce la possibilità di una felicità, che da lì a poco però svanirà in una doppia tragedia.

Soutine è un’esplosione di emozioni, ossessioni, disfacimenti, passioni devastanti. Fino al 21 Gennaio, all’Orangerie (Chaim Soutine – L’ordre du chaos), si potranno ammirare in una retrospettiva 70 delle sue opere, suddivise fra paesaggi, nature morte e ritratti. E’ il rosso febbrile a dominare i suoi quadri espressionisti, insieme al bianco accecante e ad un’orchestrazione di verdi, blu e gialli assordanti. Sono le carcasse oscene degli animali scannati, simboli emblematici di barbarie infinite a farci sussultare. Le interpretazioni deformanti di strade, case, alberi, attraverso il prisma emozionale del suo furore, ci rivelano il suo stile e il carattere complesso e travagliato, scisso fra remote barbarie e lancinanti tenerezze. Spezza la notte “la Fillette”, stretta nell’arancio della veste e nella fragile innocenza. La “Folle” (una semplice contadina) con lo sguardo stralunato e le grandi mani nodose posate sulle ginocchia, quasi possedessero vita autonoma, sostituisce ogni parola possibile per farci capire la doppiezza della realtà e i tanti equivoci dell’anima.

Un video sulla mostra e un reportage in due video su Modigliani a Parigi
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=haHryhHsjdo]
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=RyxQ6cwe9zw]
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=J9oRRSctJ24]

Il paradiso c'è

ELENA SCOLARI |  Prima mondiale del Paradiso di Dante messo in scena di Eimuntas Nekrosius al Teatro Olimpico di Vicenza, conclusione del viaggio teatrale nella Divina Commedia.

Paneacqua ha avuto la fortuna di trovare un biglietto all’ultimissimo minuto per la messinscena del Paradiso di Dante diretta dal grande regista lituano Eimuntas Nekrosius, rappresentata al Teatro Olimpico di Vicenza nei giorni scorsi. Siamo riusciti ad entrare in Paradiso! E abbiamo goduto di una perfezione “olimpica” di luce e anima.

Il teatro Olimpico è il più antico teatro coperto del mondo (1585), è stato di recente restaurato e restituito alla cittadinanza vicentina, è costituito da un’imponente scena fissa marmorea che ricostruisce una porta d’ingresso ad una città ideale, con statue, nicchie e fronti ricchi di bassorilievi, dietro di essa si scorgono le tre vie principali della città, ognuna è una via di fuga realizzata con sapiente uso della prospettiva. Questa cornice poteva essere vincolante per la realizzazione dello spettacolo, un teatro con un carattere così forte avrebbe potuto sovrastare l’azione scenica e indebolirla, Nekrosius ha invece saputo sfruttarla facendo risaltare la semplicità del suo allestimento.

Lo spettacolo si apre con un canto lituano tradizionale, intonato a cappella da due attrici, sole in scena ed entriamo subito in un clima di soavità, per il tono e per la pulizia delle due voci, subito dopo entra San Pietro, in pastrano nero, insieme alle anime che si apprestano alla loro entrata celeste (i giovani ma esperti attori della compagnia Meno Fortas di Vilnius), qui vediamo una delle più belle idee dello spettacolo: ogni anima si deve liberare di tutto ciò che di terreno ancora l’appesantisce e tutti gli oggetti presenti sul palco vengono consegnati al guardiano  San Pietro che li incarta uno per uno in fogli bianchi, come per un trasloco divino. Il tutto avviene con una leggerezza di movimento da parte di tutti gli interpreti che dona un tono ironico al fatto: c’è chi non si vuole separare dallo specchietto, chi cerca di nascondere un libro… Compare poi Dante, un bravissimo Rolandas Kazlas, in camicia rossa e pantaloni neri, invitato da Pietro ad indossare delle speciali pattine di carta bianca per non rovinare il pavimento  del paradiso… Dante è il primo a recitare alcune terzine (in lituano, per il pubblico proiettate nell’originale italiano), declama i suoi versi a testa in giù, giusto punto di vista della sfera celeste.

Il regista ha scelto, ad arte, solo 99 terzine della cantica, tagliando e montando per concentrarsi soprattutto sul rapporto tra Dante e Beatrice, nello spettacolo la parte testuale risulta ridotta a vantaggio dello spirito delle parole dantesche, tutto presente nell’atmosfera davvero gioiosa, aperta e luminosa che attraversa il lavoro.

Crediamo che l’intento di Nekrosius sia stato quello di rendere la sensazione che la lettura del Paradiso lascia in chi lo affronta: una grande armonia, una levità che avvicina al processo di separazione dal corpo. La regia ha scelto di usare un piano luci molto elementare, basato sul bianco e sulla diffusione costante della luce, che diventa elemento caratterizzante dello spazio e del sentimento scenico. Un grande proiettore da cinema è la luce suprema, governata da Dante con il movimento delle mani, come a scoprire il potere delle proprie capacità, quando ci si alleggerisce di tutti gli orpelli umani, troppo umani.

Struggente è la spontaneità con cui Kazlas esprime la sua devozione amorosa per Beatrice, vera luce, unico sole.

Abbiamo avuto conferma del punto forte di questo regista: lavorare in levare per puntare dritto all’essenza semplice e quindi invincibile dell’emozione centrale di ogni testo. Bene gli era riuscito con Shakespeare, meno con Dostoevskij in cui la sottigliezza delle riflessioni aveva un po’ ingessato la trasposizione teatrale de L’idiota. Il metodo è perfetto la terza cantica della Commedia.

Questo teatro così speciale ha ospitato con garbo uno spettacolo che ha reso con grazia celestiale la serenità allegra e rotonda del paradiso del poeta, Nekrosius ha voluto trasmetterci il sentimento, l’emozione fresca ma molto profonda che Dante ha descritto parlando di un luogo immaginario.

Ci piace sorridere all’illusione che almeno in teatro Beatrice abbia ragione, l’ultima battuta dello spettacolo è sua: “Il paradiso c’è”.

Il corpo multiculturale di Akram Khan

BRUNA MONACO | Cosa sono identità e appartenenza? Dove iniziano le origini di un essere umano? Se iniziano con la sua nascita, allora la risposta è semplice e Akram Khan è senza dubbio inglese. Ma qualcosa nell’aspetto dell’autore di Desh, acclamatissimo spettacolo che ha aperto il Romaeuropa Festival, tradisce un dubbio. Non il colore della pelle, non i tratti somatici o l’accento: Akram Khan ha il ritmo del kathak, l’antica danza del nord dell’India, nel sangue. Sangue bangladese, quello del padre e della madre emigrati a Londra anni fa. O meglio: nelle mani e nei polsi, nei movimenti circolari del busto e del collo, così come nelle improvvise pose statuarie che punteggiano l’andamento morbido e armonioso delle circonvoluzioni, in tutto ciò vediamo il retroterra dell’artista. Lì c’è il kathak. Ma nella parte inferiore del corpo di Khan il kathak si frantuma, si fonde in mosse da break-dance e arti marziali. Nel 2000, quando per la prima volta il danzatore anglo-bangladese fu ospite del Romaeuropa Festival aveva ventisei anni, era all’inizio della sua carriera e di una ricerca. Quella ricerca lo ha condotto allo stile ibrido di oggi, che è originale e gli corrisponde come il kathak da solo non potrebbe.

Desh, che in sanscrito significa terra natia, racconta a parole, a quadri, quello che lo stile di danza di Akram Khan, senza bisogno di supporti, già sintetizza e simboleggia: la convivenza degli opposti, e la necessaria, conseguente, rivoluzione contro quello che si potrebbe definire l’“ordine precostituito”. Cioè contro un’idea di ordine del tutto inadeguata ai tempi: quella che vive e ci racconta Khan è la condizione di una grossa fetta di popolazione mondiale, fatta di migranti, e di figlie e figli di migranti. La questione esistenziale riassumibile nell’antica dicotomia Oriente/Occidente, in Desh si concretizza attraverso un’altra ancestrale antitesi, quella generazionale, fra padre e figlio.
In questo assolo di ottanta minuti Akram Khan ripercorre i tratti salienti della propria vita inscenando dialoghi, imbattendosi in storie e aneddoti d’infanzia, creando personaggi: il padre dalla voce perentoria e l’accento incerto, curvo sulle spalle, il collo prominente, il suo volto è la testa glabra di Khan che con un pennarello disegna due cerchi, gli occhi, e una riga orizzontale, dritta, una bocca che non accenna a un sorriso ma porta un racconto truce e litiga col figlio troppo inglese che non vuole saperne della terra di famiglia in Bangladesh; la nipotina inglese 100% di cui sentiamo solo la voce, la sua presenza è evocata dai gesti da mimo di Khan che le prende la mano immaginaria, le allaccia le altrettanto immaginarie scarpe e a forza di immaginazione si ritrova catapultato nella fiaba che le stava raccontando, nella foresta monsonica, fra alberi, fiumi zattere ed elefanti, animazioni video proiettate su un telo trasparente.
Desh è marcato in ogni sua parte dall’idea della commistione. La commistione è dei linguaggi quando al corpo vivo di Akram Khan si sovrappongono animazioni video e voci registrate. Frammenti di teatro d’ombre e mimo e arti circensi (come quando, prendendosi fra le mani la testa glabra conciata a mo’ di viso paterno, la muove come fosse la sfera di vetro di un giocoliere). La commistione è degli artisti durante il processo di creazione: di Akram Khan sono direzione artistica, coreografia e interpretazione, ma l’équipe è numerosa e composta da personalità di rilievo. Fra gli altri Karthika Nair e Polar Bear all’ideazione e alla scrittura insieme a Khan, di Ruth Little è la drammaturgia, le musiche di Jocelyn Pook, le luci di Micheal Hulls e Tim Yip è il visual design.
Eppure, benché ogni componente dello spettacolo sia complessa, l’insieme risulta privo di ambiguità, quasi biunivoco il rapporto tra immagini e messaggi, didascalico. Come quando la nipotina dice di voler imparare il bengali e Khan le insegna un passo di kathak, per marcare il contrasto Oriente/Occidente, corpo/mente. O ancor più in uno dei quadri finali in cui Akram Khan si barcamena fra due sedie bianche, dal design minimal, una è enorme, alta due metri, inservibile. Piccolissima l’altra, scomoda, stretta. È il modo per ripetere, a gran caratteri (e imponenti come in generale tutta la scenografia dello spettacolo – di Sander Loonen) che è difficile trovare il posto giusto per sé, in certi contesti ci sentiamo troppo piccoli, inadeguati, altri ci stanno troppo stretti. L’unico modo per stare bene in un luogo è trasformarlo, adattarlo a noi, ed è quello che Khan fa con la sua sedia gigante, la sua Inghilterra.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=vWwli41zw1U]

4:48 Psychosis

RENZO FRANCABANDERA | 4:48 Psychosis è la cronaca di una caustica, a tratti persino ironica, e disperante via crucis verso il suicidio. La protagonista di questo testo di Sarah Kane è forse la stessa Sarah Kane, alle prove generali di quello che sarà poi il suo destino, il presupposto concettuale della scelta finale della giovane drammaturga britannica, snocciolato come un rosario dell’intimità incomunicabile, dove lucidamente lo scarto fra l’individuo e il mondo esterno diventa indagine precisa sulle ragioni di un abbandono cosmico, leopardiano; stessa incisiva indagine, ma lucidità e linguaggio tutti contemporanei.
Come si fa a descrivere un testo così? Si immagini il flusso di coscienza di quelle notti in cui ci si sveglia nel cuore degli incubi senza riuscire più a dormire e si inizia a mettere insieme quelle che definire paranoie sarebbe troppo semplice. In realtà è rassegnata evidenza di essere una vita fuori tempo massimo, il cui senso è nella lenta e progressiva constatazione di non poter più sovvertire l’inerzia della fatale partita a carte con l’esistenza, quando fra i tarocchi viene fuori il segno della fine.
Cosa serve per portare in scena un testo del genere? Apparentemente pochissimo. Sicuramente nulla dal punto di vista scenico. Per l’interprete, invece, c’è bisogno di una compenetrata capacità di narrare l’assedio alle proprie sicurezze da parte del loro nemico più atroce: la propria spietata intelligenza armata dall’implacabile sventatezza dell’età giovane, più incline a gesti estremi.
Sarah Kane racconta meglio di tutto lo scacco matto del cervello sul corpo. Un’esistenza così, se non spenta per volontà, si sarebbe forse estinta per una di quelle malattie hameriane che solo la simbolica volontà autodistruttiva è capace di generare.
La buona traduzione di Barbara Nativi porge all’interprete genovese Elena Arvigo, attrice poco più che trentenne con qualche esperienza televisiva nelle fiction e una formazione ibrida fra danza e teatro, un testo di spilli e vetri taglienti da indossare con la gelida eleganza di una modella, abitante di una contemporaneità metropolitana e distratta.
Fondatrice nel 2011 della compagnia “SantaRita Teatro” insieme a Valentina Calvani, la Arvigo si affida alla Calvani che la dirige in un ambiente scenico forse inutilmente pretenzioso, dove la parete del fondo è di lettere mai lette, o mai scritte, una carta da parati di occasioni mancate. Alle estremità anteriori della scena due lampadari d’ottone che tiepidamente illuminano i movimenti nel proscenio. Il pavimento è terra e pavimento dissestato. Alla sinistra una serie di bussolotti sferici da estrazioni del lotto, adagiata sui quali la Arvigo inizia lo spettacolo cercando forse l’ultimo numero della sorte: ahimè, l’utilità scenica di questo oggetto, come di altri simboli di sapore didascalico (gli specchi rotti che pendono dal soffitto, per esempio) e lasciati un po’ qui e lì, è praticamente nulla.
Per il ritorno su questo allestimento che ha segnato la nascita della compagnia, l’interprete del monologo regala un’interpretazione particolarmente focalizzata sull’interpretazione vocale: questo aspetto della messa in scena è di particolare pregio, perché è la componente del travaso fra parola e teatro di maggior intensità. La Arvigo pone la sua eterea presenza al servizio di uno sforzo di concentrazione robusto, in cui la parola riesce ad essere donata al pubblico con una serie di variazioni che fanno si che non vi sia mai un adagiarsi sui toni della noia. Minore è l’esito sulla parte fisica, dove l’immersione emotiva nel personaggio non arriva a grandi profondità, un po’ come le tonalità vocali più basse, che restano le più interessanti ma le meno indagate.
E’ evidente che il timore tanto dell’attrice quanto della regista sia quello di evitare di tratteggiare un personaggio dal portato isterico e macchiettistico, e questo riesce.
Riesce invece meno il racconto fisico di un’esistenza che ha superato il bilico, che ha già deciso di tifare per l’ineluttabilità della sconfitta. Il motivo di ciò risiede nella ricerca del corpo e nei movimenti di scena di un’interlocuzione con il pubblico che è in realtà profondamente in antitesi con quel progressivo tagliare i ponti che la drammaturgia racconta.
E’ così troppo aggraziata, in quella elegante canotta rossa, la Arvigo, forse più nella parte di una morte borghese e matura à-la- Flaubert, mentre questa è una morte anche di gioventù intellettuale, algida e calcolatrice ma anche di incosciente acerbità. E’ proprio l’antitesi fra analisi matura e animalità giovane il cuore della drammaturgia. La prima è ben indagata, la seconda meno, se non in una parte recitativo-vocale che però alla fine suona un po’ virtuosistica, a discapito della ricerca delle tonalità sonore più gravi, le più interessanti della Arvigo, cui la regia (che peccato!) rinuncia. Non è l’unica pecca dell’occhio esterno, che forse manca di un’idea forte, lasciando tutto sulle spalle dell’interprete. A volte, è innegabile, l’aspetto un po’ aiuta. In questo caso no: la Arvigo ha il peccato originale di avere una dolcissima bellezza senza sfregi, un candore senza cicatrici, almeno apparenti.
E’ così che l’obiettivo di rendere il testo della Kane è centrato solo in parte, non riuscendo fino in profondità a rendere l’idea di una morte sì annunciata, ma non di un’esistenza rassegnata, ancorché segnata, profondamente segnata. Come anche quella della stessa Sarah Kane, la cui disperata passione per il non-essere non riusciamo a cogliere fino in fondo.
Di seguito il trailer video dello spettacolo

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=Y9TsVh8YazA]

Riapre il teatro Rossi di Pisa

VideoLogo_3

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=nXwJSn-qBUI&w=560&h=315]
Videopodcast a cura di Andrea Ciommiento

Collinarea: roccaforte del contemporaneo

ANDREA CIOMMIENTO | La misurata roccaforte di Lari si manifesta come luogo da preservare non soltanto per le sue pietre antiche. Nelle curve in salita i poeti troverebbero un tempo che non urge su di loro, poiché la fortezza del contemporaneo completa il borgo senza alcuna frenesia integrativa e urbana. La sua identità si colora di cultura grazie a Collinarea, un inventario di voci poetiche, filosofiche, musicali e teatrali curate da un ensemble artistico che depone i nomi di Loris Seghizzi, Massimo Paganelli, Marco Menini, Roberto Bacci e Luca Dini come garanti di qualità della proposta. Abbiamo seguito alcuni giorni del festival toscano in un susseguirsi di esperienze formative e performative programmate nel piccolo teatro, in piazza e nel castello dalle prime luci del mattino fino a sera inoltrata. Siamo stati gli spettatori della prova aperta di Teatro Forum e Tecniche di Teatro dell’Oppresso, il laboratorio curato da Barbara Aimone, Silvan Verdier e Leonardo Coppo in collaborazione con il Centro Studi Sagara e la Compagnie du Théâtre de l’Intention volti alla pratica di risoluzione dei conflitti umani attraverso lo strumento teatrale e il coinvolgimento attivo dello spettatore, un lavoro che ricerca nuove procedure di linguaggio scenico ma che rischia di ingolfare il motore poetico che sta alla radice dell’esperienza teatrale cedendo solamente al suo senso più politico; in concomitanza temporale un gruppo di apprendisti illustratori intuiva gli spazi di Lari guidati da Eva Montanari all’interno del laboratorio esperienziale d’illustrazione, tracciando immagini inclini alla narrazione e alla relazione con gli oggetti e i personaggi del mondo dell’infanzia.

Tra i formatori da laboratorio era presente anche Michele Santeramo (Teatro Minimo), da poco vincitore del Premio Riccione 2012 per la drammaturgia; il suo percorso ha modellato le ramificazioni della scrittura poetica, una dilatazione armonica per la costruzione di storie in dialogo fra loro. Ogni sera il programma comprendeva molteplici incontri e spettacoli (un peccato sovrapporli obbligando lo spettatore alla scelta di uno o dell’altro evento): abbiamo seguito Scene da un matrimonio di Roberto Castello, definita dal foglio stampa una performance per contesti urbanianche se quel che si palesa più chiaramente sono i quadri sciolti e sbavati di origine balcanica tra stereofonia e azioni abbozzate. Di tutt’altra pasta -“e Lari ne conosce di eccelse” direbbe la famiglia Martelli- è stato lo spettacolo Fìco. Fantasmi in carne e ossa di Loris Seghizzi per Scenica Frammenti: un gioco profano dedito al non-dialogo tra generazioni e alle considerazioni sacrileghe sulle morti di Pier Paolo Pasolini e Aldo Moro fino alj’accuse contro una generazione italiana, quella passata, impegnata a chiedersi ideologicamente tutto sulla verginità della Madonna mentre gli inglesi continuavano a chiedersi tutto su cosa fosse la democrazia, lasciando le nuove generazioni con una domanda e una chiara consapevolezza: chi ha buttato le chiavi del nostro futuro nel nostro Paese Italia? A seguire, Gengè da Uno, Nessuno e Centomila di Roberto Bacci (Compagnia Laboratorio di Pontedera), un lavoro che entra a gamba tesa nell’opera pirandelliana ponendo domande di senso sulla condizione dell’uomo e sulle sue possibili fughe per il cambiamento. Non sono mancati gli attori/autori con il loro sguardo teatrale sul mondo: Michele Santeramo (Teatro Minimo) con Storie d’amore e di calcio, un racconto da leggere a voce alta e occhi puri nel quale il calcio diviene linguaggio universale e metafora dell’incapacità di costruire integrazione nei confronti di quei clandestini che anche nel calcio sono condannati alla clandestinità; e Ascanio Celestini con Discorso alla nazione. Studio per uno spettacolo presidenziale, la nuova narrazione politica sulla tirannia e la sudditanza democratica; vi consigliamo la lettura delle nostre conversazioni sull’oralità insieme a Celestini pubblicate su queste pagine (http://www.paneacqua.info/2012/09/registrando-storie-da-portare-in-vita/).

Chiamiamo Collinarea ancora una volta “roccaforte del contemporaneo” per un’ulteriore evoluzione cognitiva: Loris Seghizzi ci svela il futuro di Lari. La creazione di un centro residenziale di produzione artistica che faccia diventare l’intero borgo un teatro a cielo aperto. Nei prossimi mesi si avvieranno le procedure di cablaggio supervisionate da Mirko Mencacci, montatore del suono discografico e cinematografico per Ferzan Ozpetek (Le fate ignoranti, La finestra di fronte), Marco Tullio Giordana (La Meglio Gioventù) e Fausto Brizzi (Notte prima degli esami). La Regione Toscana ha già approvato il cablaggio in fibra ottica di tutto il borgo medievale con l’idea di ricreare uno studio professionale per registrazioni di spettacoli musicali e teatrali.

All’interno della sezione video Arte&Culture Live abbiamo realizzato alcune microinterviste con Roberto Bacci (direttore artistico di Pontedera Teatro), Luca Dini (co-direttore Pontedera Teatro), Michele Santeramo (autore e attore del Teatro Minimo) e Loris Seghizzi (regista di Scenica Frammenti).

Michele Santeramo

http://www.youtube.com/watch?v=-GtSDugtLDQ&feature=plcp

Luca Dini

http://www.youtube.com/watch?v=BVyr00TSQYw&feature=plcp

Loris Seghizzi

http://www.youtube.com/watch?v=ztxu-O-U0Pg&feature=plcp

Roberto Bacci

http://www.youtube.com/watch?v=_jS0NhRibW8&feature=plcp

Il-richiamo-del-sangueFRANCESCO MEDICI | A partire dalla primavera del 1915, tutti gli armeni che risiedevano nelle province orientali della Turchia furono espropriati di ogni bene e costretti a trasferirsi in presunti campi speciali appositamente costruiti per loro. In realtà, una volta prelevati dalle loro abitazioni, gli uomini vennero separati con la forza dalle loro famiglie e trucidati, mentre le donne e i bambini dovettero affrontare lunghissime “marce della morte” attraverso le montagne e l’infuocato deserto siriano. Arresti, deportazioni e massacri furono eseguiti dai Giovani Turchi (sotto la supervisione di ufficiali provenienti dalla Germania, fedele alleata dell’Impero ottomano), principali colpevoli di quello che, secondo la storiografia odierna, è da ritenersi, con oltre un milione e mezzo di vittime, il primo genocidio del XX secolo.

Prima che vengano emessi gli ordini di deportazione contro gli armeni, i Boghosian vivono in una casa di proprietà ad Adapazari, città della Turchia nord-occidentale. Il capofamiglia, un bottegaio rimasto vedovo, si prende cura delle due figlie, Aghavni e Shakeh, rispettivamente di otto e sei anni, coadiuvato dalla nonna delle bambine, che abita con loro. La quiete della loro routine familiare viene bruscamente interrotta in un’«alba di sangue», quando, «dalla sera alla mattina, tutti gli abitanti del quartiere, grandi e piccoli, si prepararono alla partenza». È questo l’inizio della tragedia, per i Boghosian e per i loro compagni di sventura, che, ridotti a «mendicanti», scortati e vessati dagli spietati gendarmi turchi (molti dei quali erano ex galeotti, delinquenti comuni e stupratori), vengono radunati in convogli e obbligati a compiere a piedi un viaggio sfibrante verso Deir ez-Zor (attuale Siria nord-orientale), «la fossa comune degli armeni». Alla fatica si aggiungono gli assalti dei banditi lungo la strada, i lavori forzati, le reiterate violenze su donne e bambine, le esecuzioni sommarie. Ogni tentativo di fuga si rivela vano e in tanti, tra indicibili sofferenze, si lasciano morire durante il cammino.
Dopo aver seppellito con le proprie mani l’amatissima nonna e aver dovuto abbandonare il corpo esanime del padre in strada, le due sorelline sono ormai sole, ma non perdono il coraggio. Tuttavia, quando giungono nella città siriana di al-Bab, presso Aleppo, Shakeh scompare, rapita da alcune zingare. La stessa sorte tocca ad Aghavni che, dopo essere stata marchiata sul viso («portavo in fronte quel tatuaggio che incideva nel mio volto il segno dell’infelicità e della spoliazione di un intero popolo»), viene venduta a un ricco arabo di Aleppo, Hamid Bey, i cui familiari la tengono al sicuro nella loro casa fino al 1918. La giovane cristiana resterà sempre grata ai suoi ospiti musulmani: «È vero che parlavano una lingua diversa dalla mia, ma mi avevano trattato come una figlia. La differenza tra il popolo arabo e il popolo turco era notevole. La famiglia di Hamid Bey apparteneva ad un popolo nobile a cui il [nostro] popolo tributerà ogni onore negli anni venturi».
Aghavni, ormai dodicenne, viene iscritta alla Scuola Secondaria di Istanbul, dove nasce la sua passione per la medicina, ma le disgrazie per la sua gente non sono ancora finite. Sotto il governo di Kemal Atatürk, fondatore e primo presidente della Repubblica Turca (1923-1938), «a causa della guerra tra greci e turchi, noi armeni fummo immolati come nuovi martiri […] vittime di una nuova carneficina». Aghavni, che aveva studiato per tre anni presso il Dipartimento di Infermieristica dell’Istituto Americano di Arnavutköy, a seguito dei decreti governativi che ordinano la chiusura del Dipartimento, deve proseguire il corso di specializzazione in medicina nell’ex ospedale tedesco di Saraysilva, sempre a Istanbul, dove lavora fino al 1929. Viene poi chiamata a rivestire incarichi prestigiosi presso diversi ospedali della Siria e del Libano, fino alla nomina, nel 1944, di direttrice della Facoltà di Infermieristica dell’Università di Damasco (per due mesi è perfino designata come infermiera personale dell’allora presidente siriano Shukri al-Quwatli). Ed è proprio una sua studentessa, Layla, a riconoscerla, grazie a un istintivo «richiamo del sangue», come sua zia e a condurla ad Aleppo, dove Aghavni può riabbracciare la sorella Shakeh, ormai felicemente sposata con un arabo musulmano e madre di sette figli.
Quando, nel maggio 1945, a Damasco, scoppia l’insurrezione contro il mandato francese, ad Aghavni è affidato il compito di allestire l’ospedale per le emergenze e il suo operato viene elogiato dal presidente al-Quwatli, alla presenza di tutti i ministri: «Ecco una figlia del popolo armeno che ha rischiato la vita tra le esplosioni per venire a salvare la vita a quattrocento uomini» (i pazienti ricoverati erano rimasti infatti senza cibo né medicine). Ma per la donna si tratta di un debito di gratitudine: «In Siria […] abbiamo trovato una terra e una Patria, e abbiamo convissuto con il popolo arabo al quale siamo sempre riconoscenti per averci permesso il riscatto di una vita nuova».
Eppure, come noto, la Turchia si rifiuta tuttora di attribuire a quei massacri lo status di genocidio (la sua posizione negazionista resta una delle principali cause di tensione tra l’Unione Europea e il governo di Ankara). Quello degli Armeni è stato perciò definito da alcuni studiosi un “lutto incompleto”, non potendo i primi porre fine al proprio cordoglio finché la tragedia e le ferite subite non saranno riconosciute dai discendenti delle persone che ne sono state artefici. E ciò pare trovare conferma nelle parole della Boghosian: «Al popolo che ha perso l’onore conviene non vivere. Una simile sofferenza e tale offesa non potranno lasciare in pace il nostro animo se non dopo che si sarà compiuta giustizia piena».
“Il richiamo del sangue” – pubblicato per la prima volta nel 1998 dalla Casa Editrice Cilicia di Aleppo, nella versione originale araba dal titolo “Nida’ ad-Damm” – esce ora in Italia in un’edizione curata da Kegham Jamil Boloyan (Aleppo, 1960), arabista armeno naturalizzato siriano, attualmente docente di Lingua e Traduzione Araba presso l’Università degli Studi del Salento (Lecce). L’agile volumetto inaugura una nuova collana dell’editore barese F.A.L. Vision, “I volti e le tracce”, diretta dallo stesso Boloyan, che ospiterà opere utili a promuovere la conoscenza del Vicino Oriente nei suoi molteplici aspetti: storia, società, lingua, letteratura, arte, fede e tradizioni.
E c’è da augurarsi che una così encomiabile operazione culturale, intrapresa in tempi così bui, possa realmente servire a capovolgere i tanti luoghi comuni e le mistificazioni e a favorire un dialogo costruttivo tra Occidente e Oriente, se è vero che, come recita il passo biblico scelto come epigrafe a fronte del libro, «il giusto sarà sempre ricordato» (Sal 112,6).

Il richiamo del sangue. Ricordi… dal Genocidio armeno 1915, introduzione e cura di Kegham J. Boloyan, traduzione dall’arabo di Sabrina Coletta e Kegham J. Boloyan, revisione del testo italiano di Francesca Piccoli, F.A.L. Vision Editore, Bari 2012, pp. 96, € 10,00.

Teatrocanzone al piccolo festival di Carloforte

Il piccolo festival di Carloforte, che si è concluso la settimana scorsa è un po’ l’ultima folata d’estate, e il segno di una stagione che sta iniziando. E’ per questo che da un paio d’anni ci piace testimoniarlo, anche perché incorpora un sentimento di medietà, di dialogo pacifico e concreto fra le arti.
La scelta della direzione artistica di Susanna Mannelli è da sempre infatti quella di cercare una sorta di linguaggio cross over, “ammischiato”, di cui sono da anni incarnazione gli ospiti fissi, i Camillocromo, una compagnia di musicisti, divertenti e divertiti jazzisti, che ha deciso di vivere la sua passione in maniera non convenzionale, creando una serie di performances di strada, condite di sketches, sequenze ironiche, taglienti ragionamenti sull’illogicità del vivere che trovano poi risoluzione in alcune gag che sono i loro cavalli di battaglia, e in un repertorio che ogni anno si arricchisce di qualcosa.
Alla fine dopo un anno li rivedi, rivedi la sequenza dell’uovo che prima si palleggiano fra loro, poi buttano nel pubblico che miracolosamente lo salva, per ributtarlo sul palco dove uno di loro miserabilmente fallisce la presa, per poi giocare sul senso di colpa. O la fuga in la minore, quando al tocco di bacchetta del maestro i musicanti iniziano a correre di qua e di là. Ovviamente dietro c’è il jazz, flessibile ed estroverso veicolo di interazione, capace di ammorbidire un pezzo classico, di accompagnare serenate notturne e divertimenti al chiaro di luna. Ma è proprio la medietà, la capacità di farsi interpretazione che è quanto chiaramente interessa Botti du Schoggiu, la direzione artistica del festival. Interpretazione, decodificazione, veicolo.
Fra le performance che questa volta ci hanno più interessato, senz’altro segnaliamo quella di teatro-canzone dell’Armeria dei Briganti, di Renzo Cugis & Co.
Ci ha interessato perché dopo il sasso lanciato nello stagno da Dario De Luca a Castiglioncello, riteniamo utile riprendere a segnalare quell’incontro fra canzone, ottima musica e capacità di interpretare. Onestamente siamo sicuri che quella cui l’Armeria dà luogo non voglia in alcun modo definirsi teatralità. Eppure gli ottimi musicisti che compongono la band, che esegue jazz figlio di Reinhardt e Grappelli, è al servizio di un progetto che trova innegabilmente forza nella presenza scenica di Renzo Cugis. La band, (Renzo Cugis: Voce e Chitarra Samuele Dessì: Chitarra e Voce, Andrea Murru: Chitarra,Mandolino e Voce Stefano Piras: Chitarra, Ukulele e Voce, Andrea Lai: Contrabbasso e Voce, Diego Deiana: Violino e Fisarmonica, Mario Marino: Batteria) le cui sonorità si fanno rotonda e amalgamata capacità di auto centrarsi, è un po’ come l’auriga di Ben Hur, in quella storica sequenza in cui il condottiero visita di notte i suoi cavalli e ne sussurra le caratteristiche vincenti uno per uno.
Così la travolgente irruenza della sezione elettro-zigana, di cui si fanno interpretazione lo straordinario violino di Diego Deiana e la chitarra elettrica di Samuele Dessì, si contrappone una ritmica ed operaia solidità nella sezione ritmico-acustica. Fin qui un’ottima band.
Poi arrivano i testi di Cugis, che un po’ come quelli di Gaber, sanno raccontare in forma ironica e dissacrante di un’auto-infermità al limite dell’immaginario. Ma a differenza del malato, nel caso di Cugis, a quanto pare sono stati gli altri a “battezzarlo” gracile e a considerarlo destinato ad un futuro di mille precauzioni. Di qui l’inno al desiderio malsano, quel “Fumerò!” che dopo un po’ ti entra nella testa e ci rimane anche dopo qualche giorno, perché imprecazione a ritmo di jazz manouche.
E le mille altre disavventure, come il cane indipendente, le storie d’amore implausibili, il lavoro precario, la lettera all’avvocato per un’ingiunzione di pagamento. In questo concerto-spettacolo tutto gira.
Certo il pelo nell’uovo va trovato, proprio in onore alla malsana voglia di sentirsi malati e imperfetti, come l’acerbità del cantante sugli armonici più bassi, o una certa modularità compositiva che pure potrebbe essere infranta con più frequenza a tutto vantaggio di un terreno sperimentale cui i musicisti sono ciascuno per sua via inclini.
Ma l’esito spettacolare ha una ragguardevole capacità di attrazione, e non solo per il talento assolutamente involontario ma innegabile di Cugis, quanto per quel senso di fragilità che da sempre ha accompagnato questo genere.
In fondo da Gaber a Capossela, incrociando Sergio Caputo, tutti coloro che si sono fatti interpreti di questa modalità di comunicazione con il pubblico hanno raccontato non storie di supereroi, ma eroici atti di basica e tragicomica umanità. E quindi persino l’atto del pestare la merda, per l’Armeria dei Briganti diventa emblematica metafora di quanto si vuol dire: perché tutti hanno una loro camminata, ciascuno cammina a suo modo, ma dopo che hai pestato una merda camminano tutti uguale. E’ quel minimo comun denominatore dell’umanità che Cugis canta. I suoi testi partono dall’autobiografia per diventare aut’ognuno_biografia, scrittura della sfida titanica alla sfiga, al destino, al trovarsi proprio malgrado a cantarsela e a suonarsela. L’Armeria dei Briganti propone uno spettacolo da vedere. Che può essere ospitato in un locale jazz dalle frequentazioni sofisticate ma anche in un teatro metropolitano. In una stagione cross over, come quella che propone Botti a Carloforte da quasi vent’anni. Senza pentimenti.
Di seguito il video di un brano de L’Armeria dei Briganti

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=hN3BVGd56c0]

Roberto Bacci (Pontedera Teatro)

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=_jS0NhRibW8&w=560&h=315]
VideoLogoVideointervista a cura di Andrea Ciommiento

Loris Seghizzi (Scenica Frammenti)

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=ztxu-O-U0Pg&w=560&h=315]
Videointervista a cura di Andrea Ciommiento