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domenica, Maggio 11, 2025
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Petitoblok

PetitoblokRENZO FRANCABANDERA | L’impegno dei giovani di Punta Corsara alla ricerca di una loro cifra originale prosegue senza inciampi, e dopo il Monsignor de Pourcegnac presentato ormai tre anni fa al Napoli Teatro Festival, il Petitoblok, che aveva debuttato a Castiglioncello l’estate scorsa e andato in scena in questi giorni all’Elfo di Milano, rappresenta un ulteriore tassello che chiarisce due questioni sulla strada presa dal gruppo.
La prima riguarda il tema drammaturgico: l’intersezione di riferimenti che fanno da ispirazione-pretesto e da cui il lavoro prende il nome, si colloca entro un’indagine più ampia sul senso della commedia nel teatro oggi. Se l’impianto narrativo rimane fedele ai canoni della struttura tradizionale il tentativo nuovo e di natura più “semiotica” è quello di non abbandonare mai una riflessione sul teatro e sui suoi elementi fondanti: la maschera, il personaggio, gli elementi artigianali tipici del territorio in cui Punta Corsara nasce, riletti con intelligenza e capacità di innovazione.
Non ci troviamo di fronte dunque a sgradevoli riletture in salsa fusion di ricette tradizionali, con spezie esotiche e impiattamenti scenicamente roboanti. Anzi. La vicenda narrata è quella di due maschere/personaggi della tradizione, Pulcinella e Felice Sciosciammocca, protagonisti il primo della commedia dell’arte e il secondo di quella rilettura tardo Ottocentesca e di inizio Novecento della commedia che fece poi la fortuna di interpreti del grande schermo del calibro di Totò, Peppino de Filippo ecc. La loro presenza risulta talmente ingombrante ad un presunto innovatore del teatro, teorico del medesimo come luogo della finzione, che costui, come novello Faust, stringe un accordo con La Morte per eliminare le due figurine.
Attorno a questa serie di tentativi che saranno senza esito, si costruisce la vicenda comica e nel complesso ben interpretata di Petitoblok, con la vittoria delle due maschere della tradizione in un’escalation di vicende grottesche in cui ci sarà spazio per un’automa che, come in Blade Runner ma senza tutto quel corredo fantascientifico, sedurrà uno dei protagonisti, sfuggendo alle grinfie del suo Mangiafuoco.
C’è una povertà di cui Peter Brook sarebbe andato fiero, pochi bastoni a delimitare, dal punto di vista scenografico, la vita e la morte, il dentro e il fuori, e che diventano nel finale impalcatura per ricreare uno spazio di teatro nel teatro.
Il corredo musicale è una chicca di raffinatezza melange, con riletture per mandolino di celebri brani di musica classica.
Della fruizione di questo spettacolo, visto alcuni giorni fa, resta una sensazione di vitalità. E’ una messa in scena vivace, non rivoluzionaria ma neanche ascrivibile all’esercizio di stile tout court. E’ un impegno concreto a realizzare un atto creativo necessario quello a cui lo spettatore viene chiamato ad assistere, in cui gli attori lavorano come personaggi e come persone a dichiarare l’immortalità del carattere archetipico della forma culturale tradizionale di un territorio.
E se è vero che, ancor prima di Plauto e di Aristofane e certamente anche prima, il genere della Satura consentiva quella generale riflessione sulle corde dell’allegria dell’accadimento sociale e di quanto della società si riflette sulla scena, questa drammaturgia, che è antinaturalistica di per se stessa per argomento e interpretazione, ci lascia due tre questioni interessanti in tasca. Innanzitutto una chiara memoria di quello cui si è assistito. Fosse un vino diremmo persistenza. Ricordarsi uno spettacolo, un programma tv, un atto creativo dopo alcuni giorni non è scontato. Dopo alcune settimane per la gran parte delle persone è spesso un esercizio quasi impossibile. Petitoblok invece si lascia ricordare.
In secondo luogo un sapore delicato ma non insipido, fiabesco, ma per pretesto. Il recitato ha un’attinenza con il popolare, con quello che potrebbe vedersi perfino in una recita amatoriale, ma ha la capacità di avere quel sapore pur essendo un gesto “professionale”. Perché? Perché il tema che evidentemente interessa il gruppo di lavoro di Punta Corsara è, a prescindere da ogni valutazione di merito artistico, quello di riuscire ad affermare il proprio messaggio in maniera agevole dal punto di vista comunicativo, limitando allo stretto necessario le sovrastrutture della formazione. Insomma si capisce che c’è Brook, ma senza saccenti ed estenuanti atti di pauperismo artistico fine a se stesso, risulta chiara la ricerca sul movimento biomeccanico e sul contributo della scuola russa del secolo scorso, ma senza che l’atto scenico si completi in un’estenuante dimostrazione laboratorial-sperimentale.
Di questo spettacolo potrebbe godere l’intellettuale che cerca i segni delle “presenze” e il ragazzo dal portato popolare e non addomesticato a nessuna somministrazione continuata di kriptonite teatrale. E quindi, tornando a casa, ci si chiede quante, fra le tante creazioni cui si assiste, hanno questa che a nostro avviso resta una caratteristica importante, che consente al teatro di esistere ancora e di essere meccanismo di dialogo e comunicazione nella società. Poche.
Sostenitori come siamo della semplicità come atto rivoluzionario, diamo a Petitoblok un attestato di merito. Non c’è nessuna vera novità che non porti dentro di sè il codice comunicativo con cui l’umanità si è fino ad oggi espressa: perfino la comunicazione a mezzo dispositivi mobili, contro ogni previsione di alcuni anni fa, avviene ancora con l’antico meccanismo della scrittura. Petitoblok è un piacevole lavoro di antichissima modernità.

Un servizio video di trmh24 che sintetizza l drammaturgia e propone alcune immagini dello spettacolo 

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Le tante sfaccettature di Franco Battiato

battiato-bigMARIA PIA MONTEDURO | Un concerto di Franco Battiato può essere letto da diverse angolazioni: i testi, le musiche, il suo interloquire con il pubblico. E ancora: la chiave mistica, quella filosofica, le canzoni di denuncia impegnate socialmente e politicamente, i brani di ricerca sperimentale. Nella tournée che il maestro catanese sta svolgendo in tutta Italia per presentare, anche, il suo ultimo lavoro “Apriti Sesamo” c’è tutto questo. All’Auditorium della Conciliazione di Roma quattro serate di “tutto esaurito” (come si diceva un tempo…) per un pubblico che va dagli 0 ai 99 anni, di appassionati, di fan, di estimatori di un autore che non finisce di aver voglia di ricercare nuove strade e nel contempo di parlare di temi, forse, obsoleti: la spiritualità, una fede aperta e non dogmatica, la ricerca dell’io interiore, la reincarnazione. E per parlare di tutto ciò l’orizzonte culturale di Battiato spazia dalla tradizione araba a Dante Alighieri, dall’autore seicentesco Stefano Landi e Santa Teresa d’Avila, da Gluck e Rimsky-Korsakov… Ma rivisitando tutto a proprio modo, con il contributo sempre presente del filosofo corregionale Manlio Sgalambro.
La prima parte del concerto (dopo quattro canzoni – tra cui la traduzione in siciliano di “Bocca di Rosa” – eseguite dal cantautore e attore siciliano Mario Incudine, molto valido) è affidata all’esecuzione dei brani dall’ultimo CD, che il pubblico ormai conosce a memoria (nonostante sia uscito pochi mesi fa) a ribadire l’affetto e quasi la “devozione” con cui il pubblico segue Battiato. Dopo un delicatissimo brano commentato da ologrammi proiettati sullo sfondo (come nella prima opera ad ologrammi tridimensionale “Telesio” composta dall’artista siciliano nel 2011), seguono molti brani classici del suo repertorio, evidenziando le canzoni che più di altre trattano del trascendente: tra le tante “Lode all’inviolato”, “Mesopotamia”. Sono quei brani che fecero sì che Battiato, nel lontano 1989, fosse il primo cantante rock a essere invitato ad esibirsi in Vaticano davanti al papa polacco! E poi l’attesissima e vivace carrellata dei grandi successi noti a tutti: tra le tante “La stagione dell’amore”, “Prospettiva Nevsky”, “Cuccuruccu Paloma”, “La cura” “Bandiera bianca”, “E ti vengo a cercare”, sempre punteggiati da dialoghi con il pubblico che canta, balla e partecipa a una grande gioia collettiva.
Invece dei tradizionali bis, Battiato regala al pubblico uno spaccato di alcuni suoi brani dell’inizio degli anni ’70, quando la sua ricerca sperimentale lo portava alla musica elettronica pura, partecipando anche a festival di ricerca in tutta Europa. E poi ancora le canzoni più note “Voglio vederti danzare” su tutte, dove ancora pubblico e artista ballano assieme, in un atteggiamento che unisce contentezza e intensa voglia di stare assieme.
Questo concerto ha indubbiamente una marcia in più, ed è data dalla forza mistica e coinvolgente dell’ultimo lavoro di Battiato. Egli non teme di parlare all’intimo del pubblico, di accostarsi a temi non comuni per le canzoni e riesce a farlo mantenendo il suo stile personalissimo, ma riconoscibilissimo. Pur se utilizza, come detto, anche motivi e richiami alla musica classica e “colta”, il risultato è comunque musica pop, quindi godibile e raggiungibile da un pubblico anche non necessariamente abituato alla musica classica. Battiato convince una volta di più perché non segue mode effimere e perché riesce a far passare il suo mondo, o una parte di esso, senza artifici e menzogne. Nei suoi dialoghi con il pubblico (meglio monologhi rivolti al pubblico), infarcisce i tanti aneddoti della sua lunghissima carriera con riflessioni sull’attualità sociale, politica, addirittura partitica. Mantenendo sempre presente la sua ironia e anche auto-ironia, che lo porta a trattare le piccolezze umane con un certo qual distacco, molto tipico nell’intellighenzia siciliana. Interessante anche la scelta di proiettare sullo sfondo immagini tratte dai video delle canzoni e antiche immagini di Battiato stesso a commento dei brani più noti. Sicuramente da sottolineare il silenzio rispettoso con cui il pubblico segue la prima parte del concerto, quella dedicata alle numerose tracce di “Apriti Sesamo”: dagli applausi spesso ritmati con cui sono sottolineati i ritornelli delle canzoni si evince come il pubblico abbia già fatto sue queste tracce, ma la canzone nel suo insieme è ascoltata, si passi il termine, con religioso silenzio. E lo stesso artista in numerose interviste sottolinea questo “miracolo” che si compie a ogni tappa del lungo tour. Insomma, un concerto che lascia un segno.

Una video intervista al cantautore sulla tournèe e il servizio della RAI sull’evento
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Notre Dame de Paris di Petit alla Scala

Notre Dame de Paris -Natalia Osipova e   Roberto Bolle - foto Rudy Amisano Teatro alla ScalaANTONELLA POLI | Parigi festeggia gli 850 anni di uno dei suoi simboli più amati, la cattedrale di Notre Dame, e la Scala rende omaggio ancora una volta a Roland Petit mettendo in scena uno dei suoi balletti più «letterari», Notre Dame de Paris, tratto dall’omonimo romanzo di Victor Hugo.
Coreografo eclettico, ma con un’attenzione sempre preponderante a rappresentare teatralmente i soggetti delle sue opere, Petit, sceglie la celebre opera di Hugo casualmente.
Siamo all’epoca degli anni sessanta quando Georges Auric, amministratore generale dell’Opéra di Parigi, commissiona al coreografo un balletto per tutta la troupe del celebre tempio della danza parigina. Si tratta allora per Petit di una missione importante visto il potenziale della compagnia e dato che lavorare per l’Opéra gli avrebbe dato l’occasione di ritornare nel luogo ove era cresciuto come artista e che aveva lasciato vent’anni prima.
All’inizio Roland Petit aveva scelto come fonte d’ispirazione il romanzo di Matthew Lewis, The Monk, pubblicato nel 1796 che racconta la storia di un monaco spagnolo che evita l’Inquisizione grazie ad un patto col diavolo, che in realtà lo tradisce e lo condanna alla morte.
Roland Petit esita, aveva già trattato soggetti in cui il diavolo era presente, Mephisto Valse (1945), la Fiancé du Diable (1945) e Les belles Damnées (1955) ma la figura di un monaco mai. Come spesso avviene, il caso viene in aiuto e durante una passeggiata lungo la Senna lo sguardo del coreografo cade su Notre Dame de Paris, esposto su una bancarella lungo le rive della Senna. Le esitazioni scompaiono, la trama di questo romanzo dalle tinte oscure e tenebrose del tardo medioevo, epoca in cui la Chiesa é tiranna, ispira a meraviglia Roland Petit.
Quattro sono i principali protagonisti: Quasimodo, divenuto celebre come il « gobbo di Notre Dame » per il suo aspetto fisico deformato e pauroso; la bella e seducente Esmeralda, preda dei desideri repressi dell’arcivescovo Frollo e il capitano Phoebus, vittima della presunzione e delle ambizioni del prelato che voleva possedere la giovane fanciulla.
Nei rispettivi ruoli di questa messa in scena che ritorna alla Scala dopo undici anni, Roberto Bolle (Quasimodo), Natalia Osipova (Esmeralda), Eris Nezha (Phoebus) e Mich Zeni (Frollo).
I protagonisti sono tutti all’altezza per trasmettere le atmosfere originali del romanzo e rappresentare con un grande senso teatrale la tragedia in esso racchiusa.
Nonostante il suo corpo perfetto ed elegante, Roberto Bolle si trasforma nella figura deformata del «gobbo», tutte le sue doti sentimentali e umane fanno sí che sia un ottimo partner per la bella Natalia Osipova. L’étoile milanese, cosi come vuole il romanzo, lotta e mostra tutti i suoi sentimenti per la bella Esmeralda. La protegge, le evita la morte una prima volta; é una lotta disumana tra la sua bruttezza fisica e le sue qualità interiori indirizzate tutte verso la protezione della giovane. Il pas des deux, in cui Quasimodo osa sfiorare con la sua mano la bella giovane é estremamente sentito e passionale. Il gesto é semplice ma pregnante. Roberto Bolle irriconoscibile in questa veste ha perduto tutte le sue linee longilinee ma é capace con tutte le sue doti artistiche di far percepire al pubblico questo momento significativo. Esmeralda si emoziona, appare anche in tutta la sua fragilità nonostante possa vantare dal canto suo la forza di essere una donna attirante. Non c’é forza che possa accecare i sentimenti e il riconoscimento delle qualità morali. Lei, ricercata dall’avido Frollo, che l’aveva fatta rapire dallo stesso Quasimodo, cede alla bellezza interiore del gobbo. E questa stessa passione, libera e sincera, la condurrà fino al momento della sua esecuzione quando sarà raccolta nelle braccia del suo fedele compagno che la accompagnerà nella morte.
Mick Zeni nel ruolo di Frollo appare spietato, le sue apparizioni in scena sono forti e lasciano il segno. Tralaltro il primo ballerino scaligero ha dato già dimostrazione più volte della sua forte presenza scenica. Da non dimenticare il Corpo di Ballo che anima il palcoscenico ed é capace di valorizzare ancor più la teatralità voluta dal coreografo e il dramma di questa storia. La scenografia, che ritrae una Notre Dame estremamente stilizzata, é di René Allio, scelta dettata dalla collaborazione con Yves Saint Laurent con il quale aveva collaborato già in passato.

Foto Rudy Amisano

Di seguito alcune immagini in un video del Teatro alla Scala e di seguito un’intervista allo stesso Bolle

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Le “Incisioni” globali di Danio Manfredini

ManfrediniVINCENZO SARDELLI | Un viaggio attraverso cinquant’anni di musica italiana, per raccontare l’animo umano e il suo bisogno d’amore. “Incisioni”, di e con Danio Manfredini, unica tappa lombarda del 2013 sabato 16 febbraio a Corsico, è un percorso fatto di versi, danze solitarie, immagini e schizzi monocromi proiettati su un velo. Ma “Incisioni è soprattutto musica, canzoni eseguite dal vivo, dalle tonalità livide e graffianti, roche e biascicanti.
C’è un mondo creativo dentro i linguaggi di questo teatro globale. Lo spettacolo è nato dall’input di Cristina Pavarotti e Massimo Neri (che poi l’hanno prodotto, con gli arrangiamenti di Andrea Bellentani) colpiti dalle tonalità canore di Manfredini. Il lavoro di gruppo ha selezionato brani tutti a metà strada tra l’esserci e il non esserci più, tra il riprendersi e il lasciarsi. Con il riferimento autobiografico a un amore durato sette anni e poi perduto, e la conseguente faticosa ricerca di nuovi equilibri.
“Incisioni” è una carrellata tra brani noti e meno noti della canzone d’autore italiana: “I giardini di Marzo”, “Povero me”, “Le tue mani su di me”, “Labbra blu”, “Ancora, ancora, ancora”, “Resta con me”, “Se è vero che ci sei”, “Ci sono molti modi”, “Insieme a te non ci sto più”, “Stupido Hotel”, “Nuotando nell’aria”, “Vento nel Vento”. Sono dodici cover che attraversano la storia della musica pop.
Per Manfredini la canzone è una porta di entrata in certe parti della vita, fa riaffiorare zone dell’immaginario e ricadere dentro mondi attraversati. E lui, in ogni brano, ci mette risonanze personali diverse da quelle originali. È proprio questo il senso di fare una cover.
La versione live intreccia l’aspetto musicale a una concezione più teatrale, che amplifica le suggestioni delle canzoni. Si esplorano le relazioni di coppia, le sfumature dei sentimenti amorosi. C’è l’amicizia, il rapporto padre-figlio, la ricerca del tempo perduto. Emergono, da questo rito canoro animalesco, la fatica dello stare insieme e del costruire, le ambiguità e le complicazioni di ogni rapporto umano. Ogni canzone è un frammento emozionale, un graffio. Tutti i pezzi rivelano una lacerazione. Il titolo “Incisioni” allude proprio alla ferita che lascia tracce indelebili.
Il viaggio parte con l’attore seduto dietro il velo-schermo trasparente. La luce scolpisce forme ed emozioni. Affiora una prigione di solitudini. L’amore cantato è patologia. Danio Manfredini è un fantasma incappucciato, mentre le note della sua chitarra attaccano “I giardini di marzo”. I “nuovi colori” della canzone di Battisti, però, non li vediamo subito, nonostante il girotondo-arcobaleno proiettato sul velo. Poi l’attore si materializza dall’ombra, viene alla luce, trova il contatto col pubblico. Le note allora si fanno intense e arrivano sul palco solide con Marco Bedetti al pianoforte, Marco Maccari al basso, Max Marmiroli all’armonica, Cesare Vincenti e Wilco Zanni alle chitarre.
Il percorso prosegue deciso: pezzi come specchi, sguardi come preghiere. L’attore è assorto, posseduto. Duetta in un ballo virtuale che non è danza né pantomima. Al pubblico sono offerte esperienze: gioiose o malinconiche, gentili, conflittuali, buffe e stravaganti.
Da questo percorso onirico affiorano quei mondi immaginari che nelle versioni originali dei brani erano più materiali. La voce roca di Manfredini è quella di un aruspice che sputa dalle viscere le canzoni ma anche i versi di Mariangela Gualtieri, impastati di cuore e saliva.
Questo spettacolo è tante voci insieme, tanti gesti custoditi in quel tesoro che è il corpo, capace di ogni sorta di escursioni poetiche. Sono immagini di paesaggi interiori che esplorano la condizione umana, che accomunano in uno sguardo empatico attore e spettatore, senza abbandonare la speranza che il bisogno d’amore trovi soddisfazione.

In questo video di qualche tempo fa Manfredini legge una poesia della Gualtieri accompagnato dal violoncello di Giovanni Ricciardi
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Arcuri, Civica e Cruciani e la giovane drammaturgia

Pieraldo Girotto 2-1LAURA NOVELLI | Provo sempre un certo entusiasmo quando mi trovo a dover scrivere di nuova drammaturgia. In questo caso, poi, l’entusiasmo si lega a una nota di personali affetto e ammirazione visto che i tre giovani autori in oggetto, Maria Teresa Berardelli, Niccolò Matcovich e Carlotta Corradi, sono stati tutti e tre allievi dell’Officina teatrale/Cantiere di scrittura e collaudo diretto da Rodolfo di Giammarco al Belli: palestra di allenamento alla parola teatrale e alle scritture per la scena alla quale per molti anni ho collaborato con lezioni (ma preferisco dire incontri) sulla storia e la teoria della drammaturgia.
E mi è difficile dimenticare quanta passione, quanta intelligenza, quanta originalità abbiano caratterizzato l’apporto di ogni singolo frequentatore del corso e, tanto più, abbiano nutrito le fasi di scrittura via via proposte. Adesso, questi tre promettenti drammaturghi (che hanno rispettivamente 26, 23 e 32 anni) approdano al Palladium di Roma con tre opere molto diverse tra loro, tradotte in scena da altrettanti registi scelti tra personalità emblematiche della nuova scena, che rispondono ai nomi di Fabrizio Arcuri, Massimiliano Civica e Veronica Cruciani. Il progetto, intitolato “Nuove Drammaturgie in scena” e inserito nel più vasto contenitore de “La provincia in scena”, è a cura dello stesso Di Giammarco e monopolizzerà il cartellone della sala di Garbatella dal 26 febbraio al 3 marzo.
Dichiara a tal proposito il curatore: “Investiamo su tre autori, su tre testi inediti, su tre modi diversi d’essere giovani drammaturghi, su tre scritture differentissime, su tre contenuti eterogenei, su tre partiture che chiedono attori/attrici non fungibili tra loro, e, last but not least, facciamo leva su tre registi “adottatori” che mettono il loro riconosciuto professionismo (senza tracce di dna in comune) a disposizione di questo triplice cantiere di messe a punto, di messe in scena. Una formula di rodaggio che usa meccanismi linguistici nuovi con l’avallo e il confronto di teatranti non spesso impegnati a lavorare con opere prime. E si scommette anche su un pubblico interessato e interessabile, perciò interessante. I tre testi in programma mostrano un’ininfluente ma laconica e innegabile condivisione: un titolo composto da una sola parola. Sterili, Radici, Peli. Segno di tempi che sintetizzano la comunicazione, il senso, la portata di una storia o di una non-storia. Sterili di Maria Teresa Berardelli, copione che ha ottenuto il Premio Riccione Tondelli 2009, è stato scritto dall’autrice (nata come attrice) all’età di 23 anni. Cinque personaggi, un luogo d’azione che è un’inerte stazione sotterranea della metropolitana, un disamore in atto tra un lui e una lei (confortata inutilmente da un altro), un parallelo rapporto morboso e “mancato” tra due sorelle, e un concertato di frasi quasi nord-europee, è parso un materiale molto compatibile con certe strutturazioni registiche atonali e seriali di Fabrizio Arcuri, alle prese con le dinamiche dell’Accademia degli Artefatti. Radici di Niccolò Matcovich è stato ideato quando l’autore (con alcune esperienze recitative) aveva 21 anni.
Due personaggi uno di fronte all’altra, un’identità maschile e una fisionomia femminile, senza alcun appiglio didascalico o di battuta che faccia decifrare la vera natura del loro rapporto, e quella che sostengono sembra un’agnizione con permanenti segreti, misteri, allusioni irrisolte, e il loro parlare è frugale sino all’inverosimile, è impenetrabile, e si spiega l’abbinamento con un regista come Massimiliano Civica che dell’austerità e della parsimonia ha fatto le sue cifre. Peli di Carlotta Corradi è stato concepito quando l’autrice (anche regista) aveva 31 anni. Qui è in gioco un’introspettiva, anatomica questione di gender trasfigurabile e rovesciabile che detta le regole di frasi, di complicità, di stimoli, di provocazioni, di denudamenti, di slanci, di ardori, di abbandoni e di (ef)fusioni che segnano le apparenze di due amiche alle prese con una partita a carte la cui posta è intimissima, e virulenta, e altra, e in questo caso una regista come Veronica Cruciani aveva a sua volta le carte per plasmare sillaba per sillaba ed epidermide per epidermide una disputa di desideri umani senza costumi. Poi vedremo se le alchimie di autori-testi-registi creeranno esperimenti o fatti compiuti. Ma il teatro, la nuova drammaturgia, non deve mai dare certezze”.
francesca_mazza-3Anzi, il teatro, tanto più se nuovo e giovane, deve avere necessariamente la forza di disarcionare pensieri ed emozioni. Deve coglierci impreparati. Deve saperci regalare una visione sempre “altra” rispetto alla realtà, sempre in fuga da ciò che appare scontato o normale. E sono quanto mai convinta che questi tre testi abbiano la capacità di farlo. Le note psicologiche della scrittura di Maria Teresa, minuziosa scandagliatrice delle relazioni interpersonali e dell’oscurità dell’animo umano diplomatasi come attrice all’Accademia Silvio D’Amico e già autrice di “Studio per un teatro clinico”, “Il paese delle ombre”, “Il signor P”, sembrano una danza dei non detti e dei sospesi atta a rivelare (forse) la verità di certi incontri (la trovate qui). Gli scarti surreali e le virate improvvise della scrittura di Niccolò, cauto artefice di linee sghembe e argute frustrate al senso comune attualmente allievo del secondo anno del corso di Drammaturgia della Paolo Grassi e già approdato sulla scena capitolina con “Grumi (memorie del cazzo)” e “L’Intruso”, somigliano a sassi silenziosi gettati nell’acqua dell’improbabile da cui si dipartono onde inattese e shoccanti (guardate questo video o quest’altro). La drammaturgia ironica, corale, ritmata, grottesca di Carlotta, sofisticata detective del mondo femminile con in repertorio titoli come “Lipstick” e “The Women” (da lei stessa adattato e tradotto dall’omonima opera di Clare Booth Luce) e con ampia esperienza come documentarista diplomata alla New York Film Academy,  sembra una mappatura felicemente ariosa delle fragilità umane più comuni, passate al vaglio di una narrazione che non ha mai nulla di scontato ma che, piuttosto, capovolge l’ovvio prendendolo a suo punto di partenza (per conoscerla meglio: 12 donne / the women / carlotta corradi e www.liquida.it/carlotta-corradi/).
In definitiva, ciò che si prospetta al Palladium, complice il sostegno nevralgico e illuminato di un’istituzione pubblica come la Provincia, è un monitoraggio di sentimenti, paure, incognite, pulsioni e rivelazioni che adotta lingue e linguaggi assolutamente odierni per confermare ancora una volta – e se mai ce ne fosse ancora bisogno – che il nostro teatro pulsa di giovani talenti e di energie nuove pronte a scommettere sul valore della scrittura contemporanea per la scena. Che poi, si sa, diventa anche la scrittura del regista e degli attori. Motivo per cui viene da pensare che siano proprio questi, prima e insieme al pubblico, ad avere un urgente bisogno di nuovi autori, nuove idee, nuove sensibilità.

Per informazioni sulla rassegna: www.atcllazio.it, www.romaeuropa.net, www.pav-it.eu

PlayStation 4: i confini del videogioco non saranno più gli stessi

PlayStation4ControllerALESSANDRO GUALANDRIS | Come ogni presentazione Sony, anche quella riguardante la Playstation 4, avvenuta a New York mercoledì 20 febbraio, è stata un evento che ha bloccato il mondo video ludico per tutta la sua durata. Seguito in diretta streaming da oltre due milioni di persone, Andrew House, presidente Sony Computer Entertainment, ha dichiarato “Crediamo che Playstation 4 rappresenti il passaggio per ripensare la console”. Giustamente il mondo delle console è cambiato, rispetto al lontano 1994, anno d’uscita della prima gloriosa Playstation. Allora, Sony, riscrisse il concetto d’intrattenimento in pixel, cambiando per sempre la vita dei video-giocatori da divano.
Ora il target cui punta è cambiato. La rete ha preso il sopravvento e il salotto di casa non è più il fulcro del gioco. Sony lo sa e con la nuova versione della sua console punta ad invadere prepotentemente quel mercato. “Ps4 – ha ricordato Andrew House – è prima di tutto una piattaforma costruita (…) per sperimentare nuovi modelli di business come free play e i giochi ad episodi”.
Ma andiamo con ordine. Prima di tutto, Sony, non mostra ancora la console, che uscirà intorno a Natale 2013, quindi presumibilmente farà il suo ufficiale debutto all’E3 di Los Angeles a luglio. Si limita a svelare il nuovo Pad controller, molto simile a quel DualShock che già conosciamo, ma implementato di un tasto di sharing rapido, così da permettere di condividere immediatamente sui social network i propri progressi o mostrare un video della sessione appena giocata. Inoltre presenta un touchpad frontale, inedito fino ad ora, che probabilmente sarà legato alle modalità di gioco. Mark Cerny, sviluppatore di lungo corso ora  lead architect della PS4, non entra nello specifico delle caratteristiche tecniche della console, ma dai primi filmati si ha subito l’idea che la casa Giapponese stia puntando molto sull’impatto grafico. Tuttavia ancora serpeggia nell’aria la delusione post E3 del 2006, quando furono mostrate immagini di giochi che poi non rappresentavano la reale grafica di quello che si sarebbe visto sulla Playstation 3, quindi è sempre meglio evitare facili entusiasmi. In seguito, tali specifiche sono state rese note online tramite un pdf.
La PlayStation 4 sarà dotata di una memoria ram da 8 GB, con processore AMD serie Radeon. Come la precedente sorella monterà un  lettore Blue-ray e sarà possibile collegarsi si via wi-fi che ethernet, ma avrà in dotazione porte USB 3.0. Sarà inoltre integrato un sistema di telecamere, chiamato Eye Toy,  molto simile al Kynect di casa Microsoft, in grado di mappare fisicamente il giocatore e riconoscerne i movimenti. Cerny ha definito la console “a platform by game creators, for game creators”, uno strumento, quindi, concepito dagli sviluppatori, per gli sviluppatori. “Abbiam voluto – prosegue – sapere cosa fosse importante per loro. Volevamo farli felici. Il nostro successo è stato creare un’architettura che potesse facilitare la manifestazione delle loro idee”. Ovviamente, se le premesse saranno rispettate, quest’upgrade che si avvicina alle potenzialità di un pc, offrirà alle case produttrici di creare giochi sempre più dettagliati e dalle ambientazioni vicine alla realtà. David Cage, di Quantic Dream, è salito sul palco della convention mostrando una tech demo in cui era riprodotto il volto in 3d di un uomo anziano, puntando l’attenzione sullo sguardo, vivo, trasmesso dagli occhi (da lui stesso definiti come “capaci di dare emozioni”). Sempre Cage, si è lasciato sfuggire che la potenza della PlayStation 4, permetterà di muovere in tempo reale oltre 30 mila poligoni (se pensiamo che Heavy Rain ne utilizzava 15 mila, comprendiamo la sua eccitazione). Altre case stanno sviluppando diversi motori grafici capaci di sfruttare al massimo le qualità offerte dalla console. Capcom con il suo Pantha Rei, sta lavorando in gran segreto al progetto Deep Down mentre il nuovo Final Fantasy by Square Enix, lavorerà con il Luminous Engine. Per ora solo rumors che cercheremo di approfondire in futuro.
Eppure, la convention non sembrava puntare l’attenzione solo sulle capacità grafiche della nuova creazione Sony, bensì sulla concezione innovativa che si vuol dare al videogaming. Uno dei maggiori investimenti di Sony, voluto fortemente dal presidente/CEO Kazuo Hirai, è stato nel cloud gaming. Questa tecnologia chiamata Gaikai (costata 380 milioni di dollari), permetterà di giocare in streaming su PS Vita, ma soprattutto su smartphone e tablet. L’obiettivo sarà di portare tutti i giochi di PS4 sui vari device e consentirà di recuperare i titoli usciti per la precedente console senza costi legati alla retro compatibilità. Inoltre depositando il software sui server Gaikai si potranno evitare continui aggiornamenti di hardware, creando una sorta di compatibilità totale tra le parti.
Sarà un futuro diverso quello che aspetta i video giocatori sparsi nel globo. Le nuove console-piattaforma offriranno svariate possibilità integrate alla rete e al gaming online, permetteranno di scaricare direttamente i propri giochi preferiti senza doverli acquistare fisicamente e consentiranno una continuità di gioco mai avuta grazie ai device mobili. Aspettando le contromosse di Microsoft e Nintendo che non si faranno certo attendere troppo (per ora per la prima solo voci concernenti la 720 “Durango”, mentre la Wii U uscita a dicembre attende di stupirci con i nuovi attesi titoli) vi consigliamo di guardarvi il video della presentazione avvenuta a New York :
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=EbvQydPhCh8]
Continuate a seguirci!

Riccardo Mannelli in esclusiva per PAC – il videoreport

MANNELLIRENZO FRANCABANDERA | Appassionati di disegno in Italia penso non ne esistano che non abbiano amato la grottesca capacità di Riccardo Mannelli di raccontare, con ininterrottamente crudele realismo, il tempo in cui viviamo.
Tratto distintivo del lavoro del grande artista toscano, che ha fatto la storia della satira a mezzo stampa degli ultimi trent’anni in Italia con le celebri collaborazioni per Tango, Cuore e più di recente Repubblica e il Fatto quotidiano, è la capacità sintetica di parlare attraverso l’ostensione della corporeità umana.
I grovigli di bocche, mani, seni, pance con cui Mannelli ha raccontato l’Italia della grandeur socialista, o quei sordidi strabismi del sottobosco burocratico democristiano che riportano a certe tele di Sughi, per finire all’inguinalità berlusconiana, con la nazione intera precipitata intorno alle vicende pelviche del suo duxetto barzellettaro, e all’attesa dei nostri giorni di un dopo che ancora non si capisce che strada potrà prendere, tutto questo, dicevamo, Mannelli l’ha saputo raccontare come pochi altri, restando fedele ad un codice creativo essenziale e a suo modo talmente forte da non aver bisogno di mutare nel tempo, se non nei soggetti.
E’ come se l’artista avesse lasciato fuori dalla sua finestra per tutto questo tempo una webcam per raccontare l’umanità dei vizi privati, ma con una capacità di sospendere il giudizio, o meglio agevolarlo allo spettatore delle sue opere con l’uso quasi di uno specchio. E se la capacità sintetica del suo disegno è più nota, i corpi resi con una pittura così carnalmente e cromaticamente prossima alla complessità di segni e alle dinamiche compositive di Bacon e Lucian Freud, non può che avvincere.
E avvinti siamo restati a Carloforte, Sardegna, in occasione della personale che Botti du Schoggiu, nel suo Festival di fine estate ospitato sull’isola dell’isola, ha dedicato all’artista. Perché questa pittura avvicina ed allontana insieme, spinge quasi a toccare l’incarnato reso con tecniche così sapienti e ne fa contemporaneamente provare distanza e necessità di distacco.
Riccardo Mannelli ha raccontato a PAC, in questa intervista video, il suo rapporto con il sentimento creativo, i suoi soggetti e l’arte.

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Di chi è figlia la video arte? Nam June Paik a Modena

Sacro-e-Profano-lowMARCELLA MANNI | In mostra fino al 2 giugno a Modena una selezione di lavori di Nam June Paik.
Nato a Seul nel 1932 e con studi al conservatorio di Tokyo, Paik si trasferisce in seguito in Germania dove alla fine degli anni 50 lavora con Karl-Heinz Stokhausen e ha occasione di conoscere John Cage. Il profondo legame con la musica ha segnato tutta la sua produzione artistica, all’insegna dell’improvvisazione e della sperimentazione mediatica. Viene quindi naturale il coinvolgimento fino dalle prime esperienze con George Maciunas e con i suoi incontri internazionali
a Wiesbaden, in Germania, che preludono alla costituzione del movimento Fluxus. E del fluire, della liquidità, verrebbe da dire oggi, Paik ha fatto una cifra stilistica, mescolando i confini tra le arti e rompendo gli schemi tecnici a favore dell’interscambio culturale.
La collaborazione con la violoncellista Charlotte Moorman si concretizza in numerose performance, oggetto il violoncello suonato, mimato, distrutto come in One for Violin in cui la Moorman, nel 1985, interpreta la oramai classica performance di Paik, di cui sono in mostra le tracce, la parti del violino in una scatola di plexiglass.

E giocare principalmente sul filo della musica viene facile quando ci si relaziona con i numerosi interventi che Paik ha compiuto in Italia, che lui ha sempre inteso, prima ancora di visitarla e di stabilirvi anche durature collaborazioni professionali, come la patria dell’Opera. Proprio l’opera rappresenta la summa di quello a cui un evento artistico può aspirare per Paik, un complesso e delicato equilibrio di musica, movimento e spazio, i capisaldi della “sua” arte elettronica. In pieno situazionismo l’arte per Fluxus diventa “arte divertimento” che deve essere “semplice, divertente e senza pretese” e “ desiderio di partecipare alla competizione dell’essere sempre un passo davanti agli altri, con l’avanguardia.” Negli anni fedele a questa linea, come testimoniano in mostra la Maria Callas (1993) ironica e affascinante, così come un simulacro di Giuseppe Verdi (1995) affidato a pianola, violino e l’immancabile monitor o un Luciano Pavarotti in forma di radio, lo humor autoironico di Fluxus è evidente nei robot, così come nelle video installazioni Sacro e profano, (1993) o una trasfigurata Venere di Botticelli con il volto di Hilary Clinton (1997).
A guadarli ora i suoi robot, le sue macchine video-sonore, si leggono tracce di una tecnologia senz’altro superata nei mezzi, ma assolutamente contemporanea nella poetica e nell’esplosione creativa. La tecnologia è per Paik prima di tutto uno strumento per diffondere l’arte, un’indagine che si compie sia in termini spaziali che temporali.
Ma sono la televisione, il video prima e la videocamera poi che permettono a Paik di sperimentare con l’immagine in movimento, che si trasforma in un caleidoscopio di potenzialità. Le prime performance di Paik sono legate al video e lavorano con un ready-made, cioè con materiale già girato, mettendo in scena la distorsione, il disturbo, ottenuti semplicemente attraverso l’uso di una calamita vicino al tubo catodico. Con la diffusione delle videocamere portatili il lavoro di Paio conosce evoluzioni e sperimentazioni che può affidare in prima istanza al girato, per poi aprirsi a successive modifiche.
La sua performance del 1984, il primo dell’anno, in cui ha messo in scena Good Morning Mr Orwell, una trasmissione live tra New York, e Parigi, collegata alla Germania e alla Corea del Sud, è quello che può essere definito un villaggio globale dell’arte.
E proprio Marshall McLuhan nel 1964 in Gli strumenti del comunicare scrive “La TV è un medium che respinge le personalità marcate e preferisce presentare procedimenti di lavorazione piuttosto che prodotti perfettamente finiti”. A quasi cinquant’anni di distanza il dibattito filosofico e estetico sull’immagine in movimento è tutt’altro che chiuso.

Un interessante video sulla mostra, disponibile sul canale youtube di ArtistaViaggiatore www.ilogo.it
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=r7IYkLoyEXo]

Nam June Paik in Italia
A cura di Silvia Ferrari, Serena Goldoni e Marco Pierini
Fino a 2 giugno 2013
Galleria Civica di Modena
Palazzo Santa Margherita
www.gallericavicadimodena.it

Quando i linguaggi si mescolano e sovrappongono

alynCLAUDIO FACCHINELLI | Non è facile definire il genere (musicale, teatrale, coreutico?) di ciò che si è visto l’11 febbraio scorso nella sala grande del teatro Franco Parenti di Milano. Ma è proprio questa polivalenza che qualifica l’evento.
Si trattava di una serata di beneficenza, a favore di Alyn Hospital di Gerusalemme, un centro di eccellenza per la riabilitazione di bambini e ragazzi disabili, punto di riferimento di tutto il Medio Oriente, e non soltanto. In questi casi, spesso ci si accontenta di qualche nome famoso, meglio se televisivo, che richiami persone di buona volontà, disponibili a passare una serata a teatro per sostenere un’istituzione meritoria, mentre è secondaria la qualità intrinseca di ciò che succede in scena. Ma qui non è stato così.
Illusion Corners – questo il titolo dato all’evento – era, principalmente, un concerto jazz, nel nome di uno dei più estrosi, folli protagonisti della musica nera americana, Thelonious Monk. L’improvvisazione, l’imprevedibilità, la diversità, fornivano quindi la cifra che, con precaria ma lucida consapevolezza governava l’intero progetto, punteggiato da melodie a volte aspre e dissonanti, da ritmi spezzati, che si cercavano e rincorrevano, fra il pianoforte di Enrico Intra e la tromba, il sax, la batteria e il contrabbasso del Meridith4et, integrato dal clarinetto basso di Achille Succi. Ma, fra un pezzo e l’altro, due attori, Sara Donzelli e Alessandro Ferrara, provvedevano, dall’alto di una balconata, a gettare qualche sprazzo di luce sulla personalità di Monk, leggendo brani riferiti alla sua vita – ad uso di un pubblico costituito, per lo più, da non specialisti. Nelle loro parole si ricorrevano i nomi di Charles Mingus, Gregory Corso, Norman Mailer, Allen Ginsberg, compagni di avventure in quella strabiliante e trasgressiva stagione americana che è quella del secondo dopoguerra, della Beat Generation.
Alla creatività artistica di quel periodo faceva riferimento anche Philippe Daverio, testimonial d’eccezione, dichiarandosi non critico d’arte ma studioso di antropologia, sollecitato da una maliziosa Chiara Zerlini, in funzione di presentatrice. Ma proprio l’arte visuale, fin dal risuonare delle prime note, trovava un suo spazio: Renzo Francabandera, qui nel ruolo non di critico teatrale ma di pittore e illustratore, tracciava un contrappunto pittorico, con pennellesse, pastelli, rulli, ma anche a mani nude, su un pannello di due metri per quattro, creando un’opera che si ipotizza di mettere all’asta in una prossima occasione, sempre a beneficio di Alyn Hospital.
piera principeIn questo incrocio di linguaggi espressivi, in un orchestrato disordine, punteggiato dalle incursioni sul palcoscenico di una masnada di folletti (le giovanissime allieve della scuola di danza Arté), si inseriva il gesto asciutto e rigoroso di Piera Principe, danzatrice già distrutta da un incidente e risorta alla danza, in improvvisazioni col contrabbasso di Michele Anelli e col pianoforte – percosso, più che suonato – di Enrico Intra, mentre la voce sensuale di Sara Donzelli restituiva, per immagini e sensazioni, la storia di Piera.
Non so se ho reso l’impasto di emozioni, suggestioni, dipanate secondo un’ardita concordia discors, e l’empatia che dagli artisti sul palcoscenico si propagava nel pubblico. Certo, un evento, ideato da Ivan Bert (coordinatore e tromba del Meridith4et) e messo in scena dal giovane regista Alberto Oliva, che varrebbe la pena di replicare.

Foto di Marco Bignozzi

PACcottiglia #2 – ANAGRAMMI – IL CASO GIANNINO

ULTRAVIOLET | Oscar Giannino Fare per fermare il declino = Errar in corsa è facile: non fingere diploma!

Oscar Giannino - Illustrazione di Renzo Francabandera 02/2013
Oscar Giannino – Illustrazione di Renzo Francabandera 02/2013