fbpx
venerdì, Maggio 9, 2025
Home Blog Page 489

Il viaggio senza tempo di Mimmo Jodice

jodice-installazione_580x260MARIA CRISTINA SERRA | Un’esposizione singolare, “Les yeux du Louvre”, che con sensibilità ed eleganza accomuna i capolavori di un tempo con le immagini del presente. 60 foto in Bianco/Nero che rileggono i capolavori dei grandi pittori dal Rinascimento all’Ottocento, miscelandoli con i ritratti dei dipendenti del Louvre (fino al 15 agosto)

La rue de Bretagne, ideale luogo d’incontro fra la Parigi popolare, che dal Carreau du Temple, vicino Place de la Republique, si estende fino Les Halles, e quella più à la page, che vive nell’intreccio di stradine medievali punteggiate da esclusive boutique e gallerie d’arte del Marais, ha mantenuto nel tempo la sua identità storica. Se nella parte alta e “più nobile” del Marais si incontrano i rinascimentali Hotels Particuliers (sedi dei musei Carnavalet, Archives Nationales, Cognacq-Jay, Picasso, Maison Europèenne de la Photographie), a dettare gli itinerari in quest’angolo accogliente del 3° Arrondissement, come un enciclopedico museo all’aperto, sono le numerose fromageries, boulangeries, charcuteries, caves aux vins, boucheries.

L’immaginazione è così veicolata, al di là della consistenza reale delle cose, a scoprirne la “realtà parallela” e la dimensione mentale. Il fil rouge della memoria collettiva, attraverso un visionario e liberatorio gioco di corrispondenze e dissolvenze, ci conduce dalle strade brulicanti di normale quotidianità ai fasti del Museo del Louvre, per centellinarlo attraverso lo sguardo sottile di Mimmo Jodice, maestro nel ridefinire i rapporti spazio-temporali, passando attraverso il cancello del Marché des Enfants Rouges. Dal presente ai secoli lontani, il passo è breve. Il seicentesco “Petit marché”, il mercato coperto rionale più antico di Parigi, da subito associato dalla fantasia popolare ai bambini “dalle mantelle rosse”, colore della carità, del vicino orfanotrofio, è un punto di riferimento per gli abitanti del quartiere, articolato tra banchi di fiori, verdure, pesci, ristorantini etnici e regionali. Seguendo il richiamo dei profumi e dei sapori, per rue Vieille du Temple e rue des Rosiers, centro del vecchio quartiere ebraico, con i suoi bistrot Kosher e le botteghe che vendono dolci e speziati falafel, si arriva in rue de Rivoli e al Museo del Louvre.

Dal mosaico di aromi e colori ci si immerge nel prodigioso incanto del “Bianco/Nero” della affascinate mostra del fotografo Mimmo Jodice: “Les yeux du Louvre”. Nella Sala Sully, nei sotterranei del museo, in un’atmosfera misteriosa e in una scenografia austera, a cui fa da contrappunto l’ariosità dell’altissimo soffitto a volta, 60 ritratti in Bianco/Nero, rigorosamente allineati in un’installazione circolare, intrecciano relazioni tra di loro e indirizzano i loro sguardi intensi, inquieti, verso i visitatori, instaurando un ‘empatia sotterranea che predispone alla riflessione. Come in un sortilegio, qualsiasi riferimento a contesti storici o ambientali è cancellato, la scansione temporale resa fluida “in un presente assoluto” e contemporaneo. “Ho cercato di abolire il tempo e la differenza tra la pittura e la fotografia”, spiega Jodice, ” e di ridare vita, anima e carattere alle figure del passato e di conferire nuovo statuto ai modelli fotografici”.

Così gli “abitanti del Louvre”, grazie al superamento dei confini temporali, e al l’abbattimento delle barriere tecniche e linguistiche, tra pittura e fotografia, sono resi dall’artista napoletano (mago nel rendere sublime l’immaginifico della realtà urbana e concreto l’archetipo dei reperti archeologici) con uno stile asciutto e oggettivo, velato di delicatezza. Il dosaggio perfetto della luce che quasi scolpisce le immagini, dopo averle scomposte e riassettate, per amalgamare l’Antico con il Moderno, conferisce loro una naturale solennità. “Fotografare un viso dipinto”, dice Jodice, “significa renderlo al presente, annullare tempi e differenze”. Così 40 volti,scelti in base alla loro espressività, estrapolati da dipinti celebri, sono affiancati in un ritmico montaggio da 20 ritratti di contemporanei. In una successione di immagini dal forte impatto emotivo scorre davanti ai visitatori l ‘universalità dei sentimenti umani.
“Passione, ansietà, nobiltà, arroganza, stupore, ironia, timidezza, tenerezza” accomunano uomini e donne di ieri e di oggi, indipendentemente dalle differenze sociali.

E qui affiorano nella complessità della loro intimità e segretezza come solo l’immediatezza delle immagini, più che le parole, è in grado di svelare. La poetica di Jodice, lontana da qualsiasi tentazione documentaristica, reinterpreta così i capolavori d’epoca rinascimentale e romantica, alternandoli con i “suoi” dipendenti del Louvre. Occhi e visi, di fronte o di tre quarti, raccontano le loro storie di condottieri, dame, alchimisti, direttori di museo, compositori, banchieri, custodi, restauratrici, filosofi, esperti in comunicazione: ognuno è lì con la propria identità, svincolato dalle strettoie del ruolo che il caso, la scelta o la nascita hanno ritagliato per loro. Con straordinaria maestria e sensibilità, Jodice allinea sullo stesso orizzonte immaginario i suoi scatti di oggi con gli sguardi dei personaggi, ritratti da Antonello da Messina, Dosso Dossi, il Veronese, Delacroix, Elisabeth Vigée Le Brun, Leonardo, Raffaello, Goya, Ingrés, David, il Perugino.

Il risultato è una meravigliosa alchimia in equilibrio fra instabilità dell’esistenza ed eternità, luminosa e irradiante interiorità e inconfessabili tormenti, rivelazione dell’invisibile e sottrazione del superfluo. Ogni personaggio presente o passato, più o meno noto, a suo modo riflette quella scintilla di autenticità, che permette di gettare uno sguardo del tutto inusuale sulla vita del museo, per comprenderne i suoi tesori, senza la fretta né l’ingordigia a cui spesso il turismo “mordi e fuggi” ci ha abituato. “Gli occhi del Louvre” ci penetrano dentro e ci aiutano a vedere con uno spirito nuovo le opere d’arte, per gustarle con i tempi lunghi della storia.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=svJHmgxXq5I&w=560&h=315]

Dogon. Viaggio al centro dell'Africa, dentro l'armonia

MARIA CRISTINA SERRA |  Al Musée du Quai Branly, un’occasione rara per accedere ai “segreti” dell’arte africana, frutto di civiltà antiche e tradizioni complesse, che hanno prodotto opere di grande valore artistico, per comprendere appieno la profonda umanità, spiritualità e universalità di opere compiute da artisti “senza nome”, che incantano

La Senna, silenziosa e maestosa, circonda l’Ile Saint Loius e l’Ile de la Citè, sulla quale svettano le guglie sbiancate e i gargouilles di Notre Dame, come un faro d’orientamento, dividendo la città nelle due sponde opposte, la gauche e la droite. “Dall’alto di tutte le sue pietre, gelosa, severa e immobile, con lo sguardo di traverso”, scriveva J. Prèvert, osserva il fiume “con il suo bel vestito verde e le luci dorate che se ne va piano, piano, verso il mare, passando per Parigi senza preoccupazione”. Camminando dal ponte dell’Alma, lungo i Quais che portano al Musèe du Quai de Branly (dove fino al 24 luglio si può ammirare la mostra sui “Dogon”) viene naturale scendere fra le banchine a osservare le barche dagli accesi colori pastello ormeggiate. Sembra quasi che il mondo di Doisneau, Carnè, Clair, Prèvert e quello fantastico di Amelie Poulain ci venga incontro per svelarci i segreti e la magia delle “piccole grandi cose” Poi,come in un film di animazione ci troviamo quasi a sfiorare con le dita la punta della torre Eiffel percorrendo la passerella pedonale Debilly , prima di entrare nel museo, accolti dalla figura ermafrodita Djennenkè del X secolo, con le braccia elevate al cielo, che campeggia sui manifesti di oltre 2 metri.

La millenaria arte Dogon, nata a ridosso delle impervie Falesie di Bandiagara, che alte fino a 400 metri si estendono per 250 kilometri fra gli aridi altopiani del Mali e del Niger, luogo di incontro e scambio fra culture secolari, “ha dato luogo ad una produzione artistica ricca e multiforme”, spiega Hélène Leloup, commissario dell’esposizione, “che si è affermata soprattutto per le forme esteticamente moderne e armoniose delle sue sculture, maschere tribali ed oggetti di uso comune o sacrale, un’arte a tratti rude, che non si perde in inutili ornamenti, che va all’essenziale”.

Con rigore scientifico ed estrema raffinatezza espositiva, più di 330 opere sono suddivise in spazi che raccontano l’evoluzione dello stile, la cronologia e l’etnia di appartenenza, che come un mosaico, si sono amalgamate in questo tratto dell’Africa Occidentale. In un affascinante percorso emotivo ed estetico, spogliati dei pregiudizi della mente e della cultura occidentale, si entra in sintonia con le opere di artisti anonimi che, coniugando con maestria dinamicità e rigidità, affermano un’ideale di armonia che incanta.

Sono per lo più sculture in legni duri, resistenti ai secoli e rivestite spesso di una patina rituale dai toni caldi, la “crouteuse”. L’iconografia è per lo più umana: guerrieri, figure femminili dispensatrici di vita, ermafroditi e coppie gemellari, simboli di dualità, personaggi con le braccia alzate in gesti propiziatori, più raramente accovacciati o genuflessi: Il senso di quotidianità predomina ed è inscindibile dall’espressione artistica. Tutto è vita e la vita si confonde con l’arte. A partire poi dal XV secolo, la rappresentazione diventerà più funzionale, con figurine di portatrici d’acqua, macinatrici di farina, musicisti. La nascita, la morte, il lavoro, i riti religiosi, la politica, l’educazione, sancivano i momenti di coesione sociale e ne fissavano i codici estetici con linee pure e rigorose, a tratti ieratiche.

Il soffio vitale, l’energia, lo “Nyama”, che secondo la tradizione animista di quei popoli è insita in ogni cosa, sembra palpitare lungo il percorso della visita. La cornice storica e geografica, propedeutica alla comprensione delle opere, fa da filo conduttore per dieci secoli evidenziando similitudini e differenze. I Djennekè (X-XIX secolo), originari dell’impero del Ghana (attuali Mauritania e Mali) nell’XI secolo, a seguito dell’islamizzazione della zona, si spostarono verso il Nord-Ovest, mantenendo così integra la loro identità aristocratica con figure allungate, dai decori asimmetrici, le belle teste sormontate da chignon o treccine di influenza berbera, occhi sporgenti e nasi sottili, racchiudono in sé la sintesi dell’arte Dogon. Le suggestive figurine antropomorfe, inginocchiate, e i cavalieri nobili le ritroviamo anche nell’arte N’Duleri (XIV-XX secolo), con accentuate forme longilinee e caratteristici occhi obliqui, di particolare eleganza. I Tambo, i Niogom e i Tellem svilupparono la loro cultura al riparo delle falesie (X-XVIII secolo) e ciò conferì loro un’indipendenza stilistica particolare. Spesso le figure sono prive di gambe e braccia e la loro forma “naturale” si confonde con il ramo d’albero su cui sono state intagliate. Le silhouettes Tellem (etnia dall’origine misteriosa e dai ” poteri magici”, scomparsa dopo l’arrivo dei Dogon-Mandè nel XIV secolo) hanno sovente le braccia alzate, come in invocazioni rituali e sono una metafora all’equilibrio.

I Mandè, popolo del Sud-Ovest, a cui si deve l’elaborazione del “classico stile frontale delle falesie”, sono presenti con sculture di splendida fattura. Alcune rievocano archetipi e miti, altre avvenimenti legati ai clan di appartenenza. Proporzioni di perfetta armonia caratterizzano le maternità, dai visi di regale compostezza. Di consolidata fede animista, anche in piena colonizzazione musulmana, il popolo di Tintam (XIV-XX secolo) esprime nella sua arte i riti della vita sociale. La grazia delle portatrici di acqua e delle maternità, evocative anche di facoltà terapeutiche e propiziatrici, ricordano l’iconografia dell’antico Egitto e sono una sintesi perfetta di ragione e sentimento.

E’ impregnata, invece, di religiosità l’arte Bombou-Toro (XV-XX secolo) dai singolari visi geometrici e dagli occhi a bottoncino. La visita si conclude con le sezioni dedicate alle Maschere, che ci introducono alla ricchezza di credenze e miti di questi popoli; e all’oggettistica, che ci svela le consuetudini private, rammentandoci come l’arte, la vita e il sacro siano indissolubilmente legati tra loro.

Manhattan Trasfer – Milano ospita la storia del jazz

RENZO FRANCABANDERA | Dai Manhattan Trasfer a Burt Bacharach sul palco con Mario Biondi, in due giorni, fra il 5 e 6 luglio, a Milano sarà di scena la grande tradizione del pop jazz americano. Lo storico gruppo di voci che ha interpretato tutti i grandi classici del jazz sarà il 5 al Teatro degli Arcimboldi, mentre il pianista americano incontra il 6 all’Arena Civica la sensuale voce del crooner siciliano nell’ambito del Milano Jazzin’ Festival

Bird named it, Bird made it
Bird heard it, Then played it
Well stated
Birdland

Birdland, il paese degli uccelli. O anche il regno di Charlie Parker, la leggenda del sax jazz, chiamato Bird dai suoi fan.

Birdland si chiamò presto un jazz club a New York, in origine sulla cinquantaduesima strada ora a 315 W. 44th St. A quel posto dedicò un celeberrimo brano Joe Zawinul nel 1977 (l’album era Heavy Weather), che due anni dopo, con parole di Jon Hendricks diventò uno dei più grandi successi dei Manhattan Transfer (nell’album Extensions, 1979). Infatti la seconda strova di Birdland non lascia spazio ad equivoci: It happened down in Birdland / In the middle of that hub / I remember one jazz club / Where we went to pat feet / Down on 52nd Street.
Loro in realtà avevano iniziato quasi un decennio prima, con l’uscita di quell’album, Jukin’, e quel nome ispirato al romanzo di Dos Passos mai abbastanza rivalutato per quella che sarebbe diventata una tecnica tutta drammaturgico/cinematografica, con l’invenzione della frammentazione delle storie, l’intrecciarsi dei destini sullo sfondo urbano, la descrizione di una mondo e di una cultura attraverso piccole tessere di mosaico che compongono la Storia, quella grande, universale. John Dos Passos, non aveva neanche trent’anni.
Più attempati ma sempre vivi, incisivi, di luci bianche e blu i quattro interpreti dei classici standard americani che di quel nome hanno ripreso la caratteristica, con la voglia di racconto della Babele New York, quel concentrato di vite e di avidità, di amori e miserie, di sogni e lavoro.
Il loro caleidoscopio vocale racconta alla perfezione quell’universo di storie, di personaggi, di mondi che hanno popolato il nuovo mondo, un secolo di vita americana , dalla fondazione e i campi di cotone fino all’età del jazz.
In questi quarant’anni, il quartetto vocale ha continuato a proporre una musica che tra jazz e pop d’autore racconta le voci, la voce. La musica ma l’importanza della parola, le corde vocali come strumento che sa perfettamente incastrarsi nel cuore della struttura sonora dei pezzi che interpretano, con quel Vocalese che diventò anche titolo di un loro album del 1985 che ottenne 12 nominations ai Grammy, un record superato solo da Thriller di Michael Jackson. E di Grammy Awards e di riconoscimenti di ogni natura ne hanno avuti in ogni tempo e in gran numero.
Il gruppo manca da Milano da quasi tre anni e martedì 5 al Teatro degli Arcimboldi eseguiranno i loro brani più recenti e un’ampia selezione dei loro maggiori successi.
Non di minor fama il grande duetto che si esibirà la sera dopo, il 6 luglio, all’Arena Civica, composto da Burt Bacharach & Mario Biondi. Il duetto del famoso pianista-compositore statunitense e il soul man siciliano ha in programma un Tour Estivo 2011 che li porterà a calcare i più importanti palchi italiani (data successiva quella al Summer Festival di Lucca), con un spettacolo che vedrà nella prima parte Biondi interpretare i suoi successi nella modalità a tutti nota, mentre nella seconda viene accompagnato da Bacharach che ha anche scritto per lui la romantica Something that was beautiful, ballata inserita nell’album If. Di Bacharach che dire? Ottanta e passa anni e una voglia di raccontare la sua vita e la nostra in musica che non conosce sosta. Ha iniziato suonando in diverse jazz band per diventare poi compositore di canzoni: la prima hit è del 1957, “The story of my life”, fino al conosciutissimo “Magic Moments” e al sodalizio perfetto, quello con Dionne Warwick, per la quale firma i suoi brani più noti negli anni ’60 (“Anyone who had a heart”, “Walk on by”, “I Say a little prayer”). Bacharach è uno che si innamora delle voci.
Che il suo occhio lungo sia caduto su quella di Mario Biondi non può stupire. Il cantante siciliano è sicuramente una delle voci più incredibili apparse sulla scena internazionale in questi anni. I musicisti con cui si accompagna dei talenti cristallini, come Fabrizio Bosso alla tromba. Oltre non serve dire…

E il naufragar m'è dolce

RENZO FRANCABANDERA | Si chiude l’edizione numero quattordici del Festival ideato a fine anni Ottanta da Massimo Paganelli e ora affidato alle mani di Andrea Nanni, che è riuscito nel tentativo di coniugare continuità e innovazione, per una delle più prestigiose rassegne italiane sulla nuova scena
Il luogo-rituale è un po’ come un santuario, un posto dove avvengono alcuni eventi di particolare intensità emotiva e dove il sito ospitante è consustanziale all’evento stesso.
Per fare un esempio esemplificativo: è stato possibile spostare Arezzo wave (o meglio la manifestazione che ad Arezzo si svolgeva) in Puglia, assai più difficile sarebbe spostare un santuario di una qualche apparizione mariana, o la residenza sepolcrale di qualche santo dal paese dove l’epifania è occorsa o il santo ha vissuto.
Il motivo è chiaro: alcune funzioni antropologiche trovano ragione stessa del loro essere nel luogo che le ospita, con cui condividono non solo una storia passata, ma anche un’intima co-partorienza.
Certo anche spostare Arezzo wave non è stato indolore, ma un Festival Inequilibrio fuori dal microcosmo di Castello Pasquini e dalla residenza artistica Armunia sarebbe davvero una piccola bestemmia.
Perché le sensazioni di arrivare in questo luogo, vedere dall’interno del castello, dalle finestre ogivali, il mare che si fa spuma fra i pini che fanno di contorno al parco, mentre il vento di maestrale ricorda all’uomo quanto sia piccolo di fronte alla natura, tutte queste cose, dicevamo, sono un tutt’uno con la residenza artistica che in inverno ne abita le stanze infreddolite, e con la rassegna di arti sceniche che ogni anno a Luglio si svolge in questo luogo.
Dopo il passaggio di mano alla direzione del Festival l’anno scorso, alta era l’attesa per il lavoro di pianificazione e direzione artistica di Andrea Nanni.
Possiamo dire ora, a conclusione di tutto, che l’esito è stato alto, l’operazione riuscita, e persino, se possibile, innovata e rafforzata, con un ampliamento del dialogo e dell’interazione con il territorio e la sua gente.
Il Festival è davvero esploso all’esterno, utilizzando anche numerose strutture del territorio oltre al Castello, come il Palazzetto dello Sport di Rosignano Solvay, o il bellissimo Teatro Roma nella magica cornice di Castagneto Carducci, fino ai negozi di Castiglioncello, dove si sono svolte performance di varia natura, e spingendosi fino al coinvolgimento di attori non professionisti in spettacoli come quello degli Omini, o come nelle dolci performance di Virgilio Sieni, che hanno chiamato donne e bambini del luogo per un’operazione artistica che assume lo straordinario valore del tentativo di ampliare il gesto performativo, il movimento scenico, spingendolo verso il suo più intimo concettuale, ovvero il quotidiano.
Ci sono piaciuti, del secondo fine settimana, in particolare, alcuni lavori, come quello di MK, Quattro danze coloniali viste da vicino, ospitato a Castello Pasquini, nella Tensostruttura 1.
Nei 30′ di durata, il lavoro rivela un’idea creativa forte, appuntita, che attraverso la concettualizzazione dell’esotismo da viaggio, racconta l’umanità stanziale. In fondo cosa sono le foto scattate dai cacciatori nella savana con il piede sul capo della preda, se non iconografia classica della dominazione, da quella sacra (si veda la Madonna col serpente) fino a quella profana ed erotica dei rapporti di sottomissione.
Così pure il terzo movimento, dei quattro, racconta di come nessun dominatore domini solamente e nessun dominato sia davvero solo schiavo. L’interazione, il rapporto fra due esseri viventi, finisce per essere comunque contaminazione, fino al paradossale rovesciamento dei ruoli; un po’ come avviene ne Le mille e una notte, dove la schiava avvince il suo padrone, in un continuo sviare rispetto a una soluzione finale che riesce a procrastinare affinchè non arrivi mai, stesso tentativo che la compagnia compie rispetto al gesto scenico, per spingerlo all’estremo ma garantendone sempre una reversibilità, anche concettuale, all’ultimo secondo. Affascinante.
Il bilico, l’instabile, sono alla base anche del lavoro di Cie Disorienta, progetto Strata.2, dove lo spettatore assiste, in due frazioni, di quasi ugual durata ai due lati di un’unica medaglia.
La performer è in equilibrio instabile su tre pali che, congiunti fra loro da tiranti elastici, garantiscono all’elementare struttura, alcuni gradi di libertà all’interno dei quali, come dentro un castello logico escheriano, vengono esperite possibilità di comunicazione all’esterno di sentimenti.
Nella prima frazione il tutto avviene sotto un velo su cui vengono videoproiettate sequenze digitali di tipo frattale, a dare l’idea di un corpo crisalide che si intravede.
Nella seconda metà il mistero è svelato: tutto è nudo sotto i nostri occhi. Alcune immagini poetiche prendono corpo evocando marinai, o equilibristi, o eterne crocefissioni.
Forse, però, il lavoro si allunga troppo attorno a queste immagini potenti, e l’attenzione dello spettatore finisce un po’ per calare: come un baco che invece che lasciare alla sua crisalide, appunto, uno strato facile da rompere, continui a tesserci attorno un filo che finisce per soffocare le immagini. Servirebbe probabilmente un po’ meno, per avere molto più.
La messa in scena che Egumteatro fa del bellissimo testo postumo di Sergio Atzeni, Bellas mariposas, è una delle cose più interessanti del Festival. Ben interpretato da Monica Demuru diretta da Annalisa Bianco, il racconto è quello di una ragazzina di periferia, inchiodata ad un’impalcatura di vita con quei legami che solo la povertà riesce a rendere così saldi e spesso inscindibili.
Nella bella scena di Paolo Bruni che ci riporta in un’universo di tubi di cantiere, porte aperte sul nulla e finestre cieche, la piccola protagonista si muove come in un’altalena continua nel degrado della periferia di Cagliari, tra microcriminalità, droga e sessualità spiccia.
Lei cerca altro, in un’amicizia, in un’amore, in un sogno di vita.
Nulla di tutto questo pare realizzarsi nel volgere dello spicchio di vita raccontato, che vive momenti di poesia scenica nel racconto della piccola parentesi di felicità al mare.
L’adattamento di un testo così profondamente letterario a teatro non è cosa agevole. Lo spettacolo, bello e intenso, paradossalmente paga la straordinaria bellezza e violenza delle parole, a cui spesso aggiungere senza togliere risulta impresa difficile.
Perchè arricchire un testo narrativo, portato in palcoscenico quasi tal quale, anche solo con una messa in scena ben interpretata, vuol dire togliere spazio alla fantasia di chi legge o ascolta, come l’abbellimento in musica, esercizio di creatività istantanea su tema altrui che risulta sempre insidioso anche per i grandi. Il Bellas Mariposas di Atzeni non perde la sua qualità narrativa nella trasposizione scenica, ma finisce alla fine per essere testualità un po’ ingombrante, in modo tale che la regia, che non vuole usare violenza alla parola scritta, deve di tanto in tanto escogitare qualche idea per interromperla, per inserire pause di vocazione scenica, di alleggerimento del monologo. Entrate e uscite, sospensioni, che non sempre riescono ad evocare tutte profondamente un altrove teatrale che non sia solo figlio dell’universo che la parola crea, come dolcemente e poeticamente avviene, ad esempio, nella scena del bagno a mare, dove l’attrice finisce fradicia, bagnata da bottiglie d’acqua, in un’abluzione che sa di rito purificatore.

Insomma, aggiungere qualcosa ad un bellissimo testo è sempre cosa ardua. Il lavoro di Egum, ben interpretato e ben ambientato, ci racconta e trasmette esperienza della difficoltà di questo genere di sfide.

Le voyage imaginaire di Hugo Pratt

ELENA SCOLARI| Fino al 21 agosto la Pinacothèque di Parigi ospita l’opera di uno dei più grandi fumettisti internazionali, una mostra bella e sognante che finalmente tratta Pratt come un artista tout-court.

Hugo Pratt è nato a Rimini nel 1927 e ha passato la sua infanzia a Venezia, in seguito agli impegni del padre militare la famiglia si è trasferita in Etiopia per gli anni dell’adolescenza, da adulto Pratt è stato a lungo in Argentina, ha vissuto in Inghilterra, in America e in Francia e infine in Svizzera, sul lago di Losanna. Il viaggio della vita di Hugo Pratt ha toccato tanti luoghi reali quanti sono stati quelli immaginari creati per le sue avventure su carta. Il fumettista è sempre stato viaggiatore e soprattutto un uomo curioso di conoscere altri popoli e di mischiarsi con loro con grande naturalezza.

Negli anni passati in Abissinia la famiglia Pratt viveva nel Villaggio Littorio, un pezzetto di Italia nel cuore dell’Africa, prime compagne di giochi del piccolo Hugo erano alcune scimmiette che si divertivano a far cadere il cappello del  padre con l’aquila imperiale…

Crescendo, Pratt figlio ha stretto amicizie anche molto profonde con i ragazzi e le ragazze del luogo, imparando senza accorgersene la spontaneità di incontrare le persone da qualunque paese vengano.

La disinvoltura e la confidenza col mondo acquisite in Africa sono chiaramente riversate nelle storie dei personaggi prattiani: marinai d’ogni paese, bellissime donne esotiche, guerrieri indiani, celtici…

Un universo fatto di uomini e donne sempre maledettamente affascinanti, lo spirito dell’avventura e della scoperta è vivissimo nelle pagine di Pratt, anche prima dell’arrivo di Corto Maltese, personaggio diventato quasi più famoso del suo creatore, un po’ come Sherlock Holmes e Conan Doyle.

Pochi ricordano, forse, che Corto, il leggendario marinaio della marina mercantile (porta l’orecchino a sinistra, i marinai militari a destra, invece) fa la sua comparsa sulla carta solo nei primi anni ’70, quando la carriera di Pratt era già inoltrata ma non aveva ancora raggiunto il grande pubblico. Il  lancio di Corto Maltese avviene nel 1973 con “La ballata del mare salato”, nella mostra alla Pinacothèque c’è una sala che accoglie tutte le tavole originali di questa storia, non si può fare a meno di rileggerla.

E’ lo stesso Pratt a definire la sua opera “letteratura illustrata”, riteneva i suoi fumetti un nuovo modo di raccontare per immagini, risolve così quindi il vecchio dibattito su arti maggiori e arti minori. L’autore ha infatti hanno illustrato alcuni tra i più grandi romazi di viaggio come L’isola del tesoro di Stevenson, si è ispirato a Conrad, melville, Hemingway, London.

L’esposizione francese, collocata in un museo importante e “istituzionale”, intende anche riconoscere lo statuto d’artista a Hugo Pratt, ancora considerato “solo” un autore di fumetti, quindi di categoria artistica inferiore.

Passeggiando per le sale, piccole e molto intime, della Pinacothèque, tra i numerosi acquarelli esposti, si percepisce la profondità dei disegni e delle storie dell’autore veneziano, pieni di immaginazione, di irrealtà, di magia, di esotismo, di originalità narrativa.

L’acquarello era la tecnica prediletta da Pratt, perché è pittura fatta d’acqua. Aver vissuto a Venezia lega molto all’acqua, alla trasparenza, al fluire delle cose e del tempo. L’acquarello è una tecnica immediata perché non permette quasi correzione, ma è anche leggera. Le avventure di Corto Maltese hanno una complessità leggera, i personaggi una psicologia attenta ma sempre ironica, il mondo di Pratt è costantemente, magicamente in bilico tra elementi reali e porte stregate che si aprono su luoghi immaginari.

È un equilibrio bellissimo, ben visibile nel tratto moderno e sognante della mano di questo artista dall’anima romantica e cialtronesca insieme, una simpatica canaglia che, come Corto Maltese, se la sa cavare in ogni situazione, anche mentendo, quanto basta.

La mostra ha personalità, come le figure di cui ci parla, ed è divisa per temi, le tavole e gli acquarelli non sono in ordine cronologico ma raggruppati per argomenti: isole e oceani, gli indiani, i militari, le donne,  il deserto, le città.

Il visitatore si aggira tra le strade di un reportage illustrato, attraversa paesi e mari, locali equivoci con donne fatali dai nomi mitici (Pandora, Ipazia, Bocca Dorata..), città esoteriche come Venezia o Cordoba, il tango di Buenos Aires e gli scorpioni del deserto. Impossibile non desiderare d’entrare in queste storie.

Questa esposizione ci fa conoscere il Pratt acquarellista più del disegnatore di fumetti, ci racconta il fascino del viaggio e la poesia dell’avventura.

Bisogna sempre essere pronti a partire.

Gino Severini. L'ambivalenza della modernità

MARIA CRISTINA SERRA |  Un testimone sensibile della complessità del suo tempo e referente, per oltre 50 anni, degli scambi culturali fra Italia e Francia, cui l’Orangerie dedica fino al 29 luglio un’affascinante retrospettiva, dal 17 settembre al Mart di Rovereto. Fantasia creativa e rigore geometrico le sue caratteristiche fin dagli esordi

La Parigi classica, modellata sulle limpide prospettive che dal Museo del Louvre, con una idilliaca deviazione nell’oasi incantevole e appartata del giardino del Palais Royal, fra aiuole fiorite e zampilli di fontane, partendo dall’Arc de Triomphe du Carrousel, attraversa il parco delle Tuileries e arriva a Place de la Concorde. Una passeggiata che riposa gli occhi e arricchisce l’animo, parentesi di calma, che corre parallela alle arterie del lusso e della moda: Rue St. Honorè e Rue de Rivoli, per aprirsi sulla visione a pianta ottagonale della grandiosa Place de la Concorde, l’antica Place Louis XV, ribattezzata Place de la Revolution durante il “Terrore”, per arrivare poi a cogliere, alla fine del cammino, i frammenti e le illuminazioni degli spazi infiniti, rinchiusi nella “vertigine” di malinconiche trasparenze delle Ninfee di Claude Monet.

Raccolti su 8 pannelli decorativi di circa 4 metri l’uno, gli intrecci di piante acquatiche, simbolo duplice di carnalità e lievità dello spirito, emergono come ombre e colori riflessi nell’acqua , fra nebbie blu, verdi, rosa e giallo lucente o esangue, fasciando di magiche astrazioni le pareti delle grandi sale ovali al piano terra dell’Orangerie, come un monumento alla pittura senza tempo né confini spaziali.
La caducità umana, qui nell’intuizione dell’istante che trasfigura la materia, si sublima in eternità di essenza assoluta e immateriale. Lo spettatore, posto al centro di un accordo mirabile fra terra, acqua e cielo, avvolto dal flusso continuo di aria e luce, si può così abbandonare ai sogni e alle interpretazioni, cullarsi nelle proprie emozioni e diventare a sua volta parte della creazione.

Ci si avvicina, poi, in punta di piedi, alle spirali tracciate nell’aria dalle “Ballerine in blu”, metafora poetica di dinamismo universale, e all’acceso cromatismo e ai sussulti geometrici, infarciti di musicalità, del “Futurista-neoclassico Gino Severini”.
Il “più francese degli artisti italiani” del Novecento, cui l’Orangerie dedica un’affascinante retrospettiva, che ripercorre le tappe fondamentali della sua opera: dal Divisionismo al Cubismo, passando per il Futurismo (fino al 29 luglio, e poi dal 17 settembre al Mart di Rovereto).

“Sono nato a Cortona, lì si trovano le mie radici, ma intellettualmente e spiritualmente mi sento legato a Parigi”, confessava di sé Severini, artista eclettico dalla straordinaria disciplina formale, che l’accompagnò lungo tutte le sue stagioni, e dai virtuosismi cromatici. Divisionismo e Pointillisme aprono il percorso espositivo. Le prime immagini urbane, la dimensione sociale delle trasformazioni industriali sarà sempre una sua tematica, sono segnate da una pittura libera e ritmica, dal tratto “filamentoso”, che evidenzia i contrasti dei colori puri con effetti d’ombra. La “joie de vivre” e il senso di modernità, che gli ispira Parigi, lo condurranno progressivamente al Futurismo e poi al Cubismo. Il suo è un futurismo da “mediatore” fra l’avanguardia italiana e quella parigina; una “sintesi poetica” del mondo, che lo induce a mantenere la sua equidistanza e soggettività espressiva a metà strada con il Cubismo.

“Ricordi di viaggio” (1911) è un fantasmagorico fotomontaggio dove si compongono spezzoni di vita parigina e ricordi di paesaggi natii. L’ocra caldo della terra si mischia al giallo oro dei covoni di fieno, il verde degli alberi si intreccia con il blu delle architetture, gli ombrellini da sole coprono i visi delle signore, quelli degli amanti sfidano il frastuono urbano. Le carrozze s’incrociano con le locomotive, il movimento centrifugo comprime i sogni impossibili in una esplosione di colori. “Boulevard” è un mosaico di perfette armonie, di minuziose spezzettature geometriche con elementi figurativi dai toni caldi e freddi, scadenzati dal ritmo dei bianchi e dei neri, che si alternano come i tasti del pianoforte.

La “Danseuse”, rosa e gialla, è avvolta da un arcobaleno l’ “Espansione sferica della luce” dona pura energia cromatica. La “Dance de l’ours au Moulin Rouge” ha la gioiosa eleganza di un misurato sincretismo. Il” Treno blindato”, scompone il grigio metallico della guerra con tregue illusorie dai toni pastello. E per contrasto al dramma bellico, il ritorno alla pace è rappresentato dal ritratto della bellissima “Maternità”, che con la dolcezza delle forme segna il recupero della realtà visibile e figurativa. E’ l’idea di un classicismo, non come “ritorno all’ordine”, perché in lui non era mai avvenuta realmente una rottura con la natura, ma come riappropriazione della nostalgia, di un vissuto interiore, che lo condurrà poi a recuperare anche la tradizione della Commedia dell’Arte e la tecnica dei mosaici bizantini, nella parabola conclusiva di una eterogeneità, che rivendicherà con coerenza.

perAspera/Drammaturgie Possibili

RENZO FRANCABANDERA | Secondo week end per la quarta edizione del Festival curato dall’Associazione Culturale alberTStanley, fino al 25 giugno 2011 nel complesso storico di Villa Aldrovandi Mazzacorati a Bologna
Lo scenario è straordinario: una delle più belle ville storiche di Bologna, residenza sanitaria durante il giorno e magico luogo di incontro sia all’interno della villa (che meraviglia il teatrino del 700), sia nella bellissima vegetazione che abbondante lo circonda.
E’ questo il palcoscenico all’interno del quale si esibiscono gli artisti, chiamati dalla direzione artistica a raccontare, a provare, ad essere liberi perfino di sbagliare.
Il progetto, partito dal 2008, ha sempre raccolto adesioni importanti dell’arte e della cultura performativa emiliana e non solo: un focus su tutti gli aspetti della drammaturgia presenti in ogni forma espressiva, attraverso un impulso a relazioni inedite tra le diverse discipline. Il programma di ogni giornata è multidisciplinare, dal teatro, alla danza, dalla performance alla musica e al video, e offre agli spettatori la possibilità di fruire in una sola sera di più forme spettacolari, che si succedono dalle 20 alle 24.00.
E’ un’offerta culturale di primo livello, fatta per un numero di persone coerente con la necessità di favorire una comunicazione fra tutti, un momento d’incontro civile: nessun afflusso oceanico, ma un numero importante di persone che in queste sere hanno scelto comunque la cultura in una Bologna certo non priva di offerte e di occasioni di piazza, come l’evento Santoro ecc.
Nonostante questo il festival ha fatto registrare sempre un numero di presenze assai significativo, a testimonianza che il pubblico per questi eventi non è affatto di nicchia.
Prima di raccontare gli eventi passati, raccomandiamo innanzitutto quello che lo spettatore potrà fruire in questo ultimo week end con la performance del collettivo inglese Pixel Rosso (di Silvia Mercuriali e Simon Wilkinson sono i membri del sodalizio Rotozaza) che presentano “And the birds fell from the sky”, una performance interattiva in cui il pubblico prova emozioni non marginali. Due spettatori per volta fra cinema e teatro. Imperdibile.
Sempre stasera il debutto del nuovo lavoro di Macellerie Pasolini, compagnia legata alla direzione artistica del festival che torna sulla scena dopo “Love car”, forte lavoro sull’eutanasia, proposto, fra l’altro, al Kilowatt festival l’anno scorso.
Oltre all’installazione di Elisa Fontana, il festival chiude domani con un’ulteriore performance di danza di Stefano Questorio, danzatore atipico e totalmente sciolto dai circuiti ufficiali ma molto attivo e presente (ricordiamo le date che l’artista ha tenuto di recente a Milano al Pim Off e al Festival Danae). Altr velocità seguirà con una diretta radio tutti gli eventi dell’ultima sera, con la conduzione di Lorenzo Donati.
Cosa ci ha colpito del primo fine settimana.
Innanzitutto diciamo che la sede del festival è un posto fantastico, che tutti i bolognesi dovrebbero sentire proprio e riappropriarsene. Poi:
– la bella pazzia recitativa di Angela Amalfitano che da dentro una bara portata a spalle racconta la morte dell’arte e dell’attore con il testo “La regina degli Elfi”, tratto da un monologo di Elfriede Jelinek;
– Hana-ni, giovane collettivo di danza urbana bolognese: questi ragazzi, tra i finalisti al Gd’A in Romagna, hanno proposto una performance con musica dal vivo di interesse, ispirata al mondo del manga e dei cartoni animati, ma che arriva senza difficoltà e con intelligenza, complice un delizioso gioco di ombre e un’animalità gestuale, a parlare del genere umano. Non hanno uno spazio per provare. Peccato. Servirebbe un Jeeg Robot d’Acciaio che gli lanci i componenti per proseguire l’interessante ricerca;
– Fratelli Broche: l’estetica sia video che scenica di questo gruppo (soprattutto quella video, invero) ricorda le foto barocche e crude di David LaChapelle e alcune pose da Tamara de Lempicka. Il tema è crudo, per uno spettacolo che si compone di una parte video (ben girata) e una teatrale, che dopo un inizio promettente di pasoliniana memoria (le 120 giornate sono dietro l’ancolo, con i borghesi ad ammirare la sevizie che essi stessi perpetrano sul genere umano) esauriscono il discorso con una cacciata dal paradiso terrestre che lascia la sensazione dell’irrisolto. Dopo aver creato una bella aspettativa di volo, l’atterraggio è su una pista troppo piccola. Un invito a cercare di definire meglio il contenuto;
– Stesso invito, forse ancor più vivo va rivolto a Leggere Strutture, che nonostante la bella location fra gli alberi, non riesce a convincere, con un lavoro site specific, “Object”, che gioca su rimandi fra classico e contemporaneo senza arrivare a una vera fusione fra i linguaggi (o le loro distonie), perdendosi in un autocompiacimento di cui occorre liberarsi sempre. Anche perche a loro lo spazio per provare non manca.
Non possiamo, infine, non menzionare il primo studio di Cosmesi su “un luogo abbandonato”. Il luogo abbandonato è il teatro e loro riescono a tenere il pubblico incatenato per quasi mezz’ora con un solo altoparlante in scena a trasmettere suoni industriali e una voce off che dice come il teatro è solo l’ennesima istituzione che non ci vuole. Sempre nel meraviglioso teatrino di cui sopra. In quella meravigliosa villa, nel centro di Bologna.

Terra di teatri sull'acqua

ELENA SCOLARI| Dal 9 all’11 Giugno 2011, teatri di Mestre, Venezia, Marghera – Una tre giorni di teatro in laguna, l’edizione numero uno del festival veneto Sguardi ci fa sbirciare tra le più interessanti compagnie del nord-est.

Ci siamo imbarcati subito di buonumore per questo festival/vetrina del teatro veneto: tre giorni a Venezia aprono il cuore, sempre.

“Sguardi”, quest’anno alla sua prima edizione dopo il felice numero zero del 2010 tenutosi a Padova, è stato organizzato dalla compagnia Pantakin sotto la direzione generale di Labros Mangheras del Tib Teatro di Belluno e una commissione artistica coordinata dal critico Andrea Porcheddu ha selezionato gli spettacoli da presentare. Nel complesso abbiamo visto un panorama interessante della scena teatrale veneta, a nostro avviso rimane ancora da affinare la stesura del cartellone a seconda che si scelga di selezionare davvero solo la qualità oppure mostrare lo stato dell’arte reale, con pregi e difetti.

Rispetto all’anno scorso, in questo Sguardi 2011 è stata più rilevante la presenza di spettacoli per ragazzi, settore che, ostinatamente, è costretto a rimanere sui palchi di retroguardia, nonostante sia il primo e importantissimo approccio che si ha con la disciplina, dovrebbe quindi essere addirittura più curato e seguito della prosa tradizionale, arte comunque non considerata di primo piano ma non proprio reietta. All’interno di questa categoria segnaliamo con convinzione ed entusiasmo la nuova produzione di Tam Teatro Musica “Picablo”, modernissimo esempio di teatro “multimediale”, come si usa dire, e perfetto esempio di coincidenza tra forma e contenuto. Un’avventura estetica dentro l’arte di Pablo Picasso: come i suoi quadri sono destrutturazioni di immagini, assemblaggi inaspettati di elementi conosciuti, così nello spettacolo i due performer – Falvia Bussolotto e Alessandro Martinello –  si muovono in maniera continuamente nuova tra videoproiezioni di opere celebri (l’Arlecchino, il bambino con la palla, la colomba, fino a Guernica), su piani diversi per dimensione e profondità le immagini sono ritagliate e rimpicciolite o allargate fino a coprire l’intero sfondo. Pannelli di varie dimensioni accolgono le proiezioni con le quali i due interpreti interagiscono fino a sovrapporsi. Tutto ciò con un computer e una stazione Wii elaborata che permette di trascinare i personaggi e gli elementi dei quadri sul grande schermo con un solo gesto nell’aria. Finalmente un modo non accademico di mostrare l’arte e di entrarci dentro.

Dall’arte in senso stretto, di cui Venezia è casa per eccellenza, ancor più in questi mesi di Biennale, passiamo all’arte del raccontare e dell’inventare: Gigio Brunello ha portato al festival “Vite senza fine. Storie operaie di fine Novecento”, un eccezionale gioiello di teatro di figura in cui l’autore muove a vista le sue belle statuine, personaggi che diventano veri come persone, grazie all’abilità sincera del racconto. Una lunga tavola da sagra di paese rappresenta un quartiere operaio di Mestre. Ci sono la chiesa, le case, il filare di pioppi, il cinema all’aperto fatto muovendo le dita davanti ad un piccolo riflettorino, l’elettricista, il fattorino, l’architetto, l’ingegnere, il parroco… come in un bel libro di Guareschi o in un bel film sulla vita popolare di un passato caldo e pieno di umanità. Brunello muove le sue statuine raccontandocene il carattere, anima l’intero paese di storie che costruisce grazie alla meccanica, fulcro sia del contenuto (c’è un mulino i cui ingranaggi stentano a funzionare, una radio da riparare, un senaforo che non lavora…) sia della forma: carrucole, botole fili e pompette sono i trucchi che realizzano, per esempio, il “progetto per far piangere il santo patrono”. Un bellissimo mondo, questo.

In laguna sono approdati anche i Babilonia, ritenuti enfants maudits della scena italiana, con The end, buon testo sulla morte e sulla malattia, sempre infarcito di volgarità che ormai non scandalizzano più nessuno, ma comunque forte. Segnaliamo poi la sorpresa di Barabao Teatro, giovane compagnia alle prese con la mitologia, Aspettando Ercole è uno spettacolo riuscito, un vivace quartetto che usa bene maschere molto belle e sa passare dal registro comico a quello poetico.

Bello sguardo, da rendere ancora più acuto.

Occupiamoci del Teatro Valle

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=kBs6uKuHznQ&w=560&h=315]
Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Ci ha inghiottito un leviatano!

ELENA SCOLARI| Sabato 21 Maggio al Teatro degli Arcimboldi di Milano ha attraccato per qualche ora la nave di Vinicio Capossela in tour per l’uscita del nuovo album “Marinai, profeti e balene”.

Il sipario del Teatro degli Arcimboldi ondeggia furiosamente come ad annunciare tempesta, si apre su un enorme scheletro di balena che contiene tutta la band. Solo un piccolo faro bianco illumina come una candela l’interno del gigante, e siamo tutti inghiottiti dal grande leviatano!

Comincia così il sontuoso concerto “marino” di Vinicio Capossela, in tour per l’uscita del nuovo album doppio Marinai profeti e balene. Un concerto molto generoso (due ore e mezza abbondanti), in cui il cantautore offre quasi tutte le canzoni del disco più alcuni bis storici come Scivola vai via e un nuovo arrangiamento di Che coss’è l’amor cantata con le Sorelle Marinetti, ascoltiamo anche una versione italiana di The ship comes in di Bob Dylan.

Questo album è ampiamente ispirato al Moby Dick e ad altri personaggi dei romanzi di Melville, a cominciare da Billy Bud e Lord Jim, singoli già molto trasmessi in radio. L’atmosfera ci trasporta da subito a bordo della nave sulla quale viaggiano i musicisti, alcuni attori comparsa e Capossela stesso, tutti vestiti in uniforme marinara (costumi firmati dallo stilista Antonio Marras).

Il pianoforte ha una gamba a forma d’osso, c’è una piccola prua che nasconde un pianoforte e un’asta per il microfono a forma di arpione, tutto ci riporta ad una band/ciurma che naviga tra avventure sonore profonde come gli abissi del mare e ironiche come la sua schiuma.

I concerti di Capossela non sono più intimi come agli inizi quando gli spettatori per Vinicio erano pochi e sul palco non c’era niente, ora questo anomalo rappresentante della canzone d’autore italiana, nato ad Hannover, dall’anima un po’ zingara e molto stralunata, si può permettere allestimenti faraonici in teatri giganteschi ma che non perdono mai la poesia, sostanza delle sue canzoni.

I riferimenti letterari non si limitano a Melville, ma passano anche per Céline, in particolare da “Scandalo negli abissi” che ispira il brano Printyl, sirena maliziosa. Marinai e balene riempiono la prima parte dell’esibizione, nella seconda incontriamo i profeti: il pezzo più significativo è senz’altro Job, ispirata al Libro di Job di Ceronetti.

L’atmosfera varia continuamente da situazioni tempestose e terribili con gomene agitate sul fondo del palco – e qui Capossela si toglie anche lo sfizio di recitare: una coinvolgente invettiva contro la balena bianca, ossessione del Capitano Achab chiude I fuochi fatui– a momenti di spumeggiante ironia come Polpo d’amor o Calipso oppure di malinconica poesia con  La madonna delle conchiglie.

Molte delle canzoni hanno un testo che va ascoltato con attenzione, l’esecuzione dal vivo non sempre lo permette e questo appesantisce un po’ lo spettacolo, ma il pubblico è ripagato di questa difficoltà dall’irruzione travolgente dei successi di sempre che ricordano quanti anni sono passati da quel sorprendente primo album All’una e trentacinque circa

Tutti i musicisti sono pregevoli, citiamo alcuni importanti solisti jazz come Achille Succi, Ares Tavolazzi, Mauro Ottolini. In questo concerto si suona di tutto: dalle seghe alle pentole alle conchiglie al theremin, catene, bicchieri, oltre ad una ricca gamma degli strumenti tradizionali, l’equipaggio della band rende questo mix armonioso e fa venir voglia di ballare al ritmo di queste onde.

Ognuno di noi ha la sua balena bianca da inseguire e lo facciamo volentieri accompagnati dal canto della sirena Capossela.